Da quando un recente decreto ministeriale ha ufficializzato il riconoscimento in Veneto di tre nuove docg, «Malanotte del Piave», «Lison» e «Colli euganei fiori d’arancio», si è sollevato un polverone polemico che non accenna a posarsi. Illividiti per tanta generosità, i vignaioli delle altre regioni non hanno esitato a gridare allo scandalo, sottolineando come proprio quel Veneto del quale sono originari sia l’ex ministro all’agricoltura Luca Zaia sia l’attuale, Giancarlo Galan, abbia ricevuto tanta attenzione al momento di modificare alcune situazioni da tempo in attesa di definizione. Una sorta di decreto “ad regionem” – si accusa – con il quale i due politici avrebbero in qualche modo beneficato il loro bacino elettorale. «Tutte sciocchezze – taglia corto Mauro Stival, presidente del Consorzio di tutela vini Lison Pramaggiore – Ne sia testimonianza il fatto che, prima di vederci riconosciuta la nuova docg, abbiamo dovuto reiterare il disciplinare in ministero ben quattordici volte. Per quattordici stesure diverse, più tutte le conseguenti modifiche agli altri disciplinari ovviamente dipendenti. Un lavoraccio, insomma. Altro che corsia preferenziale, come ho sentito dire. In realtà basta riconoscere il primato del Veneto nel settore vitivinicolo: siamo la regione che produce di più, non vedo perché scandalizzarsi se ci vengono riconosciute delle eccellenze. Sarà il mercato, poi, a dare le risposte definitive».
La “G” fa bene al vino?
O lo penalizza?
Non si tratterebbe dunque di una questione politica, ma di un atto volto a riequilibrare un settore ancora alla ricerca di punti di riferimento precisi, dopo i recenti terremoti burocratici imposti dalla normativa comunitaria. Resta piuttosto da valutare l’opportunità, prima di tutto commerciale, ma anche “filosofica”, di ampliare in maniera così plateale il campo delle denominazioni di origine controllata e garantita. Di capire se una diffusione più capillare di quelle “g” in etichetta può fare del bene o del male al vino italiano. «In realtà il problema è più profondo – dichiara a questo riguardo Riccardo Ricci Curbastro, presidente di Federdoc, la confederazione nazionale dei consorzi volontari per la tutela delle denominazioni dei vini italiani – ovvero cosa spieghiamo al consumatore? Può bastare ricordargli che per le docg vigono regole più restrittive? Perché fintanto che le denominazioni garantite erano poche, la differenza era sensibile, ma ora che stanno aumentando di numero si rischia di generare confusione, questo è indubbio». Il timore è insomma che l’incremento del numero delle docg automaticamente produca un effetto di banalizzazione e di appiattimento, anche se, come ammette lo stesso Ricci Curbastro, «tale proliferazione potrebbe invece essere considerata come il segnale ufficiale che la produzione di vino in Italia sta puntando decisamente all’eccellenza. Ma la questione rimane inalterata: pur ammettendo ciò, come rispondiamo alle legittime curiosità del consumatore? E poi: se tutte le doc diventeranno per assurdo docg, come sarà possibile combattere le battaglie del mercato con un esercito di soli generali? Sia illuminante l’esempio delle due docg Chianti e Chianti Classico, apparentemente molto simili, ma in realtà completamente diverse nei comportamenti sul mercato. Perché alla fin fine non è la “g” a fare la differenza: la segmentazione si fa in termini di qualità. Doc e docg sono simboli ancora molto chiari: oggi come oggi si tratta solo di spiegarne la differenza e soprattutto di renderla assolutamente chiara». Per questo non è escluso che nelle prossime settimane Federdoc prenda posizione ufficiale su questo tema, generando un dibattito che potrebbe portare anche alla ridefinizione, all’interno delle procedure di inquadramento comunitarie, dell’intero sistema.
Quando la “G” può aiutare
Decisamente meno preoccupato è Antonio Bonotto, presidente del Consorzio di tutela vini del Piave: «Siamo la prima regione italiana per produzione di vino e di conseguenza possiamo sopportare il “peso” di undici docg, da considerare come gioielli con i quali valorizzare un territorio e un’attività unici e straordinari. In realtà si tratta di un atto di maggiore responsabilizzazione per i produttori, che dovranno diventare più professionali. Certo, fondamentale sarebbe non inflazionare la procedura, in modo che ogni segmento di territorio possa vantare la sua produzione di eccellenza senza che si vengano a creare inutili frizioni concorrenziali fra vini provenienti dalla medesima area. Per quanto riguarda il “Malanotte del Piave”, si è trattato di certificare il riconoscimento ufficiale del Raboso come vitigno di qualità: una differenza indispensabile per cercare di suddividere la produzione in due segmenti distinti, visto che fino a poco tempo fa era considerato un vino troppo impegnativo per l’osteria e non sufficientemente pregiato per il ristorante di lusso. Insomma, una strategia per ottimizzare la produzione e lanciare il Raboso nell’olimpo dei vini italiani, nulla di più. Un successo enorme, se si considera che fino a trent’anni fa il Raboso era considerato esclusivamente un vino da taglio. Poi si è iniziata a recuperare la tradizione, con l’appassimento delle uve e tutto il resto. Oggi non siamo ancora molto conosciuti, ma il conferimento della “g” può assolutamente aiutare».
Più o meno simili le motivazioni che hanno portato i vignaioli di Pramaggiore a richiedere il marchio di eccellenza: «Sostanzialmente – spiega Stival – abbiamo perseguito l’obiettivo di fare pulizia di certe situazioni poco chiare a livello di disciplinare: troppi vitigni per la doc, innanzitutto, ma non solo. E la strada maestra non poteva che essere quella che è stata intrapresa. Se il prezzo da pagare è quello dell’inflazione delle docg, con tutte le conseguenze del caso, ebbene, siamo disposti a correre il rischio. Il successo dell’operazione, d’altronde, dipenderà dal comportamento della base produttiva e dal gradimento dei consumatori. L’importante è puntualizzare che non si è trattata di un’operazione di marketing: noi, da queste parti, l’abbiamo vissuta come un premio, un punto di partenza verso nuovi scenari, anche se resto convinto che la “g” debba essere solidamente appesa ad una “c”, la “c” di coscienza».
E in effetti non può che essere così. Come spiega bene Ricci Curbastro, «il vino rimane il medesimo, a cambiare è la nuova patente che gli viene conferita. Saranno i consorzi interessati a lavorare per dimostrare di averla meritata». Buona fortuna dunque alle nuove docg, nella speranza che riescano a stemperare le polemiche in bicchieri di vino sempre più buono.