Può capitare di intravvederlo chino tra qualche filare mentre studia la composizione del terreno, oppure osserva gli acini di alcuni grappoli nei giorni in cui la maggior parte dei vignaioli è nei suoi campi a preparare al meglio l’uva in attesa del rush finale. Non lui, almeno non in quel periodo. Celestino Gaspari preferisce vagare per le campagne della Valpolicella alla ricerca di quel certo non so che in grado, a suo insindacabile giudizio, di regalare al vino che verrà quelle specificità che lo renderanno unico nel suo genere. E quel certo non so che possono essere i grappoli di uno specifico filare, che si affretta ad acquistare al legittimo proprietario nell’attesa che gli vengano vendemmiati e poi conferiti. Oppure delle vecchie viti che qualche contadino aveva in animo di estirpare per sostituirle con piante più seducenti e produttive, e che lui invece acquista garantendo introiti pari a quelli previsti con le nuove piantumazioni. Oppure dei terreni situati in posizione particolarmente felice, nei quali chiede – non gratis ovviamente – che vengano coltivate determinate varietà piuttosto che altre. «Non faccio per vantarmi – cerca di spiegare all’incredulo interlocutore – ma riesco a “battezzare” un vigneto a decine di metri di distanza. A capire di che uva si tratta e, soprattutto, a valutarne le condizioni di salute». Un dono di natura, certo agevolato da un contatto con la terra vissuto con intensità fin da quando era bambino, nell’azienda di famiglia, in Val d’Illasi. Sono nati così i suoi vini, prima quelli delle tante cantine del Veronese a cui ha offerto la sua consulenza, poi quelli della sua azienda, nata tra mille difficoltà nel momento in cui si è reso conto di non poter godere della necessaria libertà di azione. È l’Harlequin il vino che meglio di ogni altro rappresenta la sua fame di sperimentazione: un rosso di grande corpo prodotto con venti uve diverse, tutte coltivate in Valpolicella, alcune lasciate sovramaturare, altre raccolte in leggero anticipo, altre ancora recise dalla pianta al momento giusto, secondo criteri difficili da spiegare a parole. «Si tratta perlopiù di sensazioni positive: in quei giorni mi reco sulle vigne prescelte e controllo, anche più volte al giorno». Un lavoro di precisione, condotto però senza alcuno strumento in grado di garantirla. Quand’è il momento si vendemmia di buona lena e si vinifica secondo procedure che Gaspari non ama svelare fino in fondo. L’importante è il risultato. E se, come per ogni vino, esso è diverso da un anno all’altro, non lo si deve solo alle condizioni dell’uva e al clima che ne ha indotto la maturazione, differenti da una stagione all’altra, ma anche alle scelte effettuate in quel certo periodo in cui Gaspari vaga per le campagne a “battezzare” le uve giuste. Capita, insomma, che i venti vitigni dell’anno prima non siano gli stessi di quello successivo. O che le uve raccolte e vinificate in sovramaturazione l’anno dopo vengano vendemmiate qualche giorno prima. Gaspari i sapori li immagina, costruisce nella sua mente i possibili abbinamenti e poi li concretizza mescolando continuamente le carte. Sperimentazione, certo. Ma anche voglia di avvicinarsi in totale libertà ad operazioni per troppo tempo diventate routinarie, svuotate del senso profondo che invece le procedure di vinificazione dovrebbero avere. «Mio padre – racconta – non aveva grande fiducia nelle mie capacità. Mi ha insegnato a vivere il rapporto con la campagna, ma non mi ha mai permesso di interferire nel suo lavoro. È stato per questo che a un certo punto me ne sono andato». E avere sposato una delle figlie di Quintarelli avrebbe potuto garantirgli ciò che a casa non aveva mai trovato. E invece. «E invece ho sofferto anche là. Intendiamoci: io a Quintarelli sono grato per le straordinarie opportunità che mi ha offerto. Ma mi sentivo pronto per fare un ulteriore balzo in avanti. Non mi è stato permesso. E così me ne sono andato. Ce ne siamo andati, io e mia moglie, nello sbigottimento generale». Già, perché non erano in pochi, anche in famiglia, a pensare che con quel matrimonio avesse, come si dice, “attaccato il cappello”. Ma non era stato un matrimonio di convenienza, il suo. E con il suocero Giuseppe sperava di elaborare un rapporto che gli consentisse di mettere in pratica le sue abilità. Gli sono serviti undici anni per capire che spazio per la sua fantasia, in quella cantina, non ce ne sarebbe mai stato. Almeno quanta egli sperava di sbrigliarne, alla ricerca di un’altra strada per produrre vino di qualità. E così ha preparato armi e bagagli ed è andato in affitto, provando a vivere del suo solo lavoro. «All’inizio è stata dura, davvero. Non posso che ringraziare mia moglie se siamo riusciti a gestire in qualche modo la situazione». E mentre in casa Quintarelli aspettavano che il figliol prodigo rientrasse alla base, Gaspari ha iniziato a mettere a disposizione di altri la sua sensibilità: Villa Monteleone, Tenuta Sant’Antonio, Marion, Cantrina, Marchesi Fumanelli, tutte aziende che con il suo arrivo si sono rivitalizzate e hanno iniziato a produrre vini ricchi di novità. Non quante però lui avesse in animo di sprigionare. Ecco perché nel 1999 ha deciso di fondare Zymè (dal termine greco che indica il lievito, il fermento, non a caso), azienda di consulenza messa in piedi con la collaborazione dei compagni di sempre, Francesco Parisi – ancora oggi al suo fianco nell’azienda agricola che porta lo stesso nome – e Flavio Peroni, uscito però nel giro di pochi anni. L’anno successivo i primi, timidi tentativi e il via all’ambizioso progetto Harlequin: «In realtà si trattava della semplice verifica della bontà delle mie convinzioni. Era il vino che avrei voluto fare in qualcuna delle aziende a cui ho prestato la mia collaborazione se mi avessero consentito osare tanto. Insomma, ero convinto che per loro stavo facendo e avrei potuto continuare a fare dei vini di qualità, ma non si trattava ancora del vino che avevo in testa. Inoltre era indispensabile produrre un vino completamente diverso rispetto a quelli ai quali avevo messo la mia firma – con tanto di bollino sulle etichette, peraltro – non foss’altro per evitare fastidiosi confronti. Nel ’98 la prima barrique: c’erano alcuni difetti, sembrava ancora troppo un amarone. Allora ho iniziato a tarare meglio i vitigni, ad assestare i sapori, a miscelare più armonicamente le uve. È nato così il vino di punta dell’azienda». Che a quel punto è diventata azienda agricola vera e propria – correva il 2003 – oggi situata in una delle location più belle e suggestive di tutta la Valpolicella ma non solo, visto che botti e uffici sono stati collocati all’interno di una cava di arenaria del XV secolo opportunamente adattata e architettonicamente modificata.
A quel punto Zymè non si è fermata a cullarsi sugli allori, ma, forte dei risultati ottenuti, ha iniziato a macinare successi su successi. Gaspari però non ha voluto piegarsi alle storture del mercato. Harlequin sì, ma solo a determinate condizioni. Solo se dalle botti il prodotto finale risultava compatibile con il suo progetto mentale.
È nato così Kairos, un Harlequin a cui manca quel certo non so che. Anche se risulta davvero riduttivo definirlo in questa maniera, visto che il risultato al naso e al palato è di tutto rispetto. Eppure: «È un vino un po’ ruffiano – dice sorridendo della sua creatura Gaspari – perché rispetto alle durezze dell’Harlequin abbiamo saputo ingentilirlo un po’, adattarlo alle esigenze di chi ama vini meno problematici e “difficili”. Ciò non toglie però che, proprio per questo, sia in grado di competere senza imbarazzo alcuno con i grandi vini della nostra regione, e non solo.
Un ottimo risultato, se si pensa che si tratta tutto sommato di un ripiego, di un vino che non nasce da un progetto specifico ma da una sola esigenza, quella di sostituire il “fratello maggiore” nelle annate meno felici». Se non fosse che dalle sue parole trapela costantemente una certa sicurezza di sé e delle sue posizioni, anche di quelle meno ortodosse rispetto al pensiero enologico dominante, si potrebbe pensare ad un eccesso di modestia. Ma Gaspari bada poco alle convenienze: ha imparato sulla sua pelle a pagare in prima persona ogni scelta, ogni pensiero. Ed oggi è nelle felici condizioni di potersi permettere anche qualche libertà senza pensare alle conseguenze. Sia nelle parole che nei fatti. L’azienda innanzitutto, certo.
Ma non solo. Mentre continua ad elaborare la strategia commerciale di Zymè, Gaspari non cessa di farsi affascinare dalle sfide più intriganti, al di là delle possibili ricadute commerciali. Eccolo allora produrre un recioto che definire celestiale è davvero riduttivo ma limitarsi a stapparlo per gli amici e pochi altri. Eccolo acquistare un vigneto sui Colli Berici di Merlot e Cabernet Franc vecchio di quarant’anni e destinato all’estirpazione in attesa di farci qualcosa: magari un vino simile a quel Cabernet-Merlot che nel 1990 gli era valso il titolo di miglior taglio bordolese del Canada e che lui aveva realizzato in un centinaio di bottiglie quasi per sfida nella cantina del suocero, convinto che le uve con cui era stato prodotto fossero davvero straordinarie.
Eccolo tentare vie ai limiti del possibile, com’è accaduto per la produzione dell’ultimo nato in casa Zymè, il From black to white, un vero e proprio «scherzo della natura», come lo ha definito lui stesso, per il 40% vitigni vari e per il 60% Rondinella bianca, un’uva pressoché sconosciuta, variante bianca della più celebre Rondinella utilizzata nella produzione del Valpolicella: «Nel 1999 – spiega – durante le mie peregrinazioni per le campagne del Veronese, mi sono imbattuto in un vecchio ceppo di Rondinella con due tralci a viraggio bianco. Da quello ho ricavato una trentina di piante e le ho messe a dimora: dalle venti che hanno dato uva bianca ho ricavato 2500 ceppi, poi piantati in Val d’Illasi. Fra due o tre vendemmie, quando la Rondinella bianca da eccezione sarà divenuta regola, faremo fare la certificazione del vitigno». Ciò non significa però che Gaspari non tenga nel debito conto le esigenze del mercato, nonostante i suoi siano vini dal costo significativo: a settembre la gamma dell’azienda è stata arricchita dal primo Amarone targato Zymè. Un vino del quale questa volta non ha voluto assolutamente parlare, in attesa dei primi commenti e dei primi giudizi. Pronto, anche questa volta, a stupire tutti con qualche rivelazione inattesa. Perché se in quell’Amarone c’è il suo zampino, non può trattarsi di un Amarone normale. La fantasia, con Gaspari, è infatti salita al potere.