2010: l’anno dell’Orgoglio del Vino
E così, come avevo annunciato il mese scorso, ci siamo incontrati a Rimini in occasione di DiVino Lounge per confrontare i nostri desideri di esseri pensanti, indipendenti, orgogliosi e liberi. Eravamo pochi e non rappresentativi, poveri di mezzi e trasgressivi. Ma eravamo molto orgogliosi e di ottimo umore.
Ci siamo incontrati, come ho già detto da queste colonne, per iniziare a liberarci dalla paura e dall’ignoranza, per non sentirci vittime e per non definirci complici, per ritrovarci intellettualmente onesti, per riaffermare, se mai ce ne fosse bisogno, le connotazioni positive del vino e ribadire che il mondo del vino rientra a pieno titolo della parte migliore di questo Paese, contro ogni logica di proibizione e di cattiva informazione.
Decisa la posizione di Chiara Giannotti, direttore di marketing di Fazi Battaglia, che ha affermato che il mondo del vino viene continuamente attaccato e demonizzato nonostante noi si sia tutti molto lontani dagli eccessi e dallo sballo. Chiara, imprenditrice e mamma, ha detto che “la politica invece di aprire un dialogo ha attuato un taglio netto anche se il proibizionismo e il terrorismo non servono a nulla”. E si chiede “che fine hanno fatto la nostra cultura e le nostre migliori tradizioni?”
Risoluto e determinato Piero Valdiserra, direttore di marketing di Rinaldi Holding, che ha ribadito che “E’ un dato di fatto che il vino, pur coinvolgendo milioni di persone, non sia considerato e trattato come una realtà di interesse nazionale ed è inspiegabile come mai sulle provocazioni di cui il mondo del vino è oggetto da diverso tempo non ci sia il dibattito che invece dovrebbe esserci. Per non parlare dell’intrusione dell’autorità pubblica che in Italia diventa addirittura paternalistica perché, ferma restando la responsabilità penale personale, non è accettabile penalizzare la libertà di milioni di persone”.
“La comunicazione, spesso vittima di autocensura, sarà chiamata a fare la sua parte – ha tenuto a sottolineare Fabio Piccoli, giornalista ed esperto di comunicazione – il proibizionismo di maniera non è un deterrente all’eccesso, occorre invece ricominciare a parlare di riconoscibilità dell´identità, ovvero esperienza, confronto e senso del limite. Perché il vino è parte integrante della nostra civiltà”.
“Il vino italiano ancora oggi affascina il mondo e potrebbe avere maggior successo se non fosse che ognuno se ne va per la propria strada in balia della paura e delle convenienze: è evidente che a questo settore manca una regia” è stato il parere di Terenzio Medri, presidente nazionale dell´Associazione Italiana Sommeliers, che si è definito super orgoglioso e intende aderire istituzionalmente ad un auspicabile movimento dell´orgoglio del vino – Il primo passo dovrebbe essere un incontro degli Stati Generali del vino per trovare un punto d´incontro e parlare una sola lingua. Altrimenti si rischia di uscire dal sistema internazionale”.
A questo punto l’invito rivolto da tutti noi della Madia Travelfood all’intero comparto produttivo è evidente: soltanto dai produttori di vino e da chi li rappresenta istituzionalmente può nascere un nuovo movimento di autonomia di pensiero, di consapevolezza e di orgoglio. Il nostro mestiere non è quello di fare la storia, ma semplicemente di raccontarla interpretandola con sensibilità. La stampa specializzata, e noi per primi, sarà ben contenta di dare risalto ad ogni iniziativa tesa ad operare in questa direzione di ritrovata dignità professionale e civile.
Libertà, identità e principio di soddisfazione
di Fabio Piccoli
Mi sono chiesto se, giornalista esperto di economia agroalimentare, avessi i titoli per parlare di temi complessi come quelli dell’identità, della libertà, dell’orgoglio, della legge, del principio di soddisfazione. Mi sono risposto che se non avessi sulle spalle una ventina d’anni di psicoanalisi non mi sentirei autorizzato di affrontare temi come questi, non mi sarei sentito libero di farlo, legittimato a farlo.
Vi è un unico vero deterrente all’abuso, a qualsiasi tipo di abuso: la libertà. Non vi sarà mai nessun modello di proibizione in grado di eliminare l’abuso, anzi è vero il contrario. Basta andare in qualsiasi angolo del pianeta dove sono stati applicati in maniera demagogica principi proibizionistici per vedere quali risultati hanno prodotto.
Ma se questa ormai è cosa assodata e la si può leggere anche nei testi di psicologia da bancarella, il tema si fa complesso quando si entra nell’ambito della tua libertà in relazione ai diritti degli altri.
La legge, in fin dei conti, dovrebbe sostanzialmente cercare di normare questi ambiti di libertà. Mettere dei confini. Un’operazione per certi aspetti impossibile, una forzatura quasi innaturale se non si tiene conto dell’identità della nostra specie. Una specie che si differenzia da quella animale dal fatto di essere ragionevole.
Ma l’uomo, oltre ad essere ragionevole, è un animale che desidera. Secondo Freud il desiderio dell’uomo è incolmabile. Da qui, sostanzialmente, il suo perenne senso di insoddisfazione. Solo nella sua capacità di darsi dei limiti, di accettare i propri limiti, può trovare pace e soddisfazione.
Ma chi pone questi limiti, la legge? Siamo il Paese, secondo dati anche recenti forniti nell’ambito dell’Ocse, con il maggior numero di leggi. Eppure non mi pare di vedere in giro orde di uomini e donne soddisfatti. Significa che non è nelle norme, nei codici, nei principi, la soddisfazione. E senza soddisfazione si muore, si invecchia precocemente, ci si ferma, ci si ammala. Le leggi che oggi vengono proposte nell’ambito del contenuto di alcol per chi guida, sono sintomatiche di un Paese malato, insoddisfatto, frustrato. Non si può, pertanto, liquidare un tema come questo semplicemente arroccandosi su posizioni di difesa lobbistica o sui principi teorici dell’antiproibizionismo. Si deve riprendere a parlare di libertà. Si deve avere il coraggio di riconoscere il nostro stato di malessere. Si deve prendere atto che siamo di fronte alla più grande crisi di civiltà e di cultura dal secondo dopoguerra ad oggi. Cosa ci può venire in aiuto allora se non il riconoscimento della nostra identità? Ma non quella becera, mera esaltazione di un io vuoto, superiore agli altri. Quella frutto di un percorso di esperienze, di confronti, di senso del limite. Il vino fa parte integrante di questo percorso identitario per la nostra civiltà.
Sono tra quelli, pur uomo lontano dalla fede, che non si è certo sentito escluso quando alcuni anni fa si è parlato di radici europee cristiane. Non si deve necessariamente credere in Gesù Cristo morto e risorto per accettare e riconoscere che queste radici sono innegabili. Come si può essere anche astemi totali, concedetemi questo ardito e per certi aspetti blasfemo passaggio, ma è altrettanto innegabile che il vino è parte della nostra civiltà. Considerare, pertanto, il vino come una semplice bevanda idroalcolica è proprio quello che porta a leggi demagogiche e populiste. Che porta a non ragionare e alla pericolosa scorciatoia del divieto.
Per questo ho aderito con piacere a questo progetto di Andrea Dal Cero che prima di tutto è un uomo libero. Libero anche da quei luoghi comuni che vorrebbero oggi intrupparci, soprattutto noi cosiddetti professionisti dell’enogastronomia, nella riserva indiana della difesa del comparto vitivinicolo.
Come se il problema fosse solo di tipo economico. Della serie: “Se i produttori di vino vendono meno a causa di queste leggi va male per loro ma anche per noi che scriviamo di loro”. Ecco, sono proprio queste logiche a compartimenti stagni che mi fanno più paura.
La difesa della libertà, l’evidenziazione delle nostre identità, il coraggio di esprimere il principio del piacere rispetto alle politiche della negazione oggi mi sembrano i veri temi da mettere sul campo. Per questa ragione apprezzo anche quest’aria movimentista. Non appartiene alla mia natura ma mi rendo conto che vi sono momenti in cui le cosiddette battaglie sui principi diventano essenziali. Brava la Madia Travelfood che se ne prende la responsabilità e la paternità.
Spero solo che questa sorta di “wine pride” non si trasformi in uno dei numerosi “gay pride”. Non dobbiamo fare la caricatura del nostro mondo, del nostro diritto a sentirci figli della terra di Bacco, di Enotria, per dare valore a ciò che vogliamo esprimere. Per queste ragioni mi sento non tanto in difesa di… quanto per raccontare la bellezza del vivere, la straordinaria opportunità della libertà.
Non si beve vino per essere contro a qualcosa ma per condividere il piacere con gli altri. E siccome l’autosoddisfazione è solo una vacua illusione, viva il vino che ci unisce.
Etilometro: la nuova ordalia
di Piero Valdisserra
L’eclissi del sacro nelle società contemporanee, la scomparsa della religiosità tradizionale, la secolarizzazione della vita di tutti i giorni lasciano, inavvertitamente ma inesorabilmente, un vuoto: e il vuoto va riempito. Come ha detto giustamente qualcuno, quando non si crede più a niente si può credere a tutto. Così, la religione viene sovente rimpiazzata dalla superstizione.
Una delle forme più in voga di superstizione contemporanea è l’accanimento contro il consumo alcolico. Un accanimento di principio, che essendo metafisico nella sua essenza non va tanto per il sottile: l’alcool è il male assoluto, a prescindere da considerazioni di ordine pratico (Quanto alcool? Di che tipo? Quando e dove?).
Come ogni superstizione che si rispetti, l’alcolofobia ha un suo rito supremo: l’etilometro. L’altare su cui vengono officiati i sacrifici umani degli sventurati che hanno bevuto un goccio di troppo. Peccato però che quello dell’etilometro sia un rito poco metafisico e molto pratico: anzi, molto praticone, e spesso pasticcione. Succede così che un automobilista di Jesi, fermato per essere sottoposto al rito dell’etilometro, si sia dimostrato perfettamente padrone di sé, a dispetto del tasso alcolemico vertiginoso rilevatogli dall’imperfetto strumento. Succede ancora, come ci hanno rivelato amici degni di fede, che qualche allegro gaudente sia stato sottoposto a misurazione e ne sia uscito indenne, a dispetto delle enormi quantità di vino appena bevute a tavola.
Che dire? Questi episodi ci fanno venire in mente la truce ordalia del Medioevo, quella pratica giuridica con cui l’innocenza o la colpevolezza dell’accusato venivano sancite sottoponendolo a una prova estrema: per esempio, camminare su spade incandescenti o immergere la mano nell’acqua bollente. Se il malcapitato ne usciva intatto (?), la sua innocenza era provata…
Ora, posto che l’antica barbara ordalia avrà certamente incontrato i suoi Giucas Casella dell’epoca, e quindi in qualche caso avrà funzionato, la cosa ci fa oggi sorridere.
Come l’etilometro, una forma di goffa e sgangherata ordalia odierna, farà sicuramente sorridere i posteri. Speriamo, per il nostro piacere a tavola, che passino meno secoli di quelli che ci separano dall’ordalia dei Germani medievali…