Di
Alessandra MeldolesiMalgrado sia più facile avere un papa nero che una donna a capo di una grande maison, la cucina ha radici innegabilmente femminili.
In principio erano le madri, o forse le nonne: l’evocazione nostalgica dei sapori d’antan aleggia nelle interviste degli chef stellati come un simpatico, vago ritornello. Non c’è paradosso piú vistoso nel mondo della ristorazione: ogni cucina, vuole il cliché, è innanzitutto un luogo delle donne, eppure lo chef, che con essa accumula denaro e potere, è (quasi sempre) maschio e gagliardo. Un’espropriazione di saperi probabilmente senza pari. Ma il mondo della ristorazione, per fortuna, è anche retto dal principio di merito: ed ecco le eccezioni, particolarmente evidenti in Italia. Maria Santini del Pescatore di Canneto sull’Oglio, Luisa Valazza del Sorriso di Soriso e Annie Feolde dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze hanno raggiunto l’ambito traguardo delle tre stelle, mentre Valeria Piccini di Caino a Montemerano e Maria Salcuni della Tenda Rossa di Cerbaia ne vantano due. Ci sono poi le madri in senso stretto: si pensi alle signore Vissani (la madre e la moglie) e a Bruna Santini, figure tutt’altro che esornative, il cui ruolo effettivo è difficilmente ponderabile. La presenza femminile insomma subisce una paradossale impennata nelle alte sfere della ristorazione italiana.
Si potrebbe pensare che l’impronta femminile sull’alta cucina sia un fenomeno italiano, la conseguenza di quel mancato salto di qualità e di professionalità che i nostri colleghi transalpini spesso ci rimproverano. L’ultima edizione della Guida rossa, pur sottolineando i progressi compiuti, stigmatizzava ancora una volta l’italica cucina delle mamme, come se la nostra ristorazione, a conti fatti, si trovasse ancora in uno stadio infantile. Certo, la Francia vanta anch’essa grandi chef di sesso femminile: Hélène Darroze ha appena agguantato la seconda stella, mentre Reine Sammut coltiva con successo la sua cucina mediterranea a Lourmarin. C’è poi la grintosissima ed irrequieta Ghislaine Arabian, oriunda belga, forse l’unica che sia riuscita ad espugnare con il suo personalissimo stile quegli autentici fortini del potere maschile che sono le grandi maison parigine, nella fattispecie Ledoyen, che ha poi repentinamente e rumorosamente abbandonato.
Ma le (due volte) tre stelle restano appannaggio per le chef francesi della mitica Eugénie Brazier, spesso additata come maestra di Paul Bocuse e Bernard Pacaud, che a sua volta discendeva delle cosiddette madri di Lione, misconosciute fondatrici della cucina francese. Georges Blanc, sia detto per inciso, è il nipote di una di esse. E se la mamma di Michel Bras ancora esercita a fianco del talentuoso figlio a Laguiole, pare legittimo domandarsi se la cucina francese, piuttosto che una cucina delle mamme, non sia una cucina dei figli, e di figli ingrati. Le chef che abbiamo incontrato non si sentono però discriminate, rifiutando un facile paternalismo. Tutti, uomini e donne, avrebbero le medesime chances di carriera, mentre il merito sarebbe in ultima analisi l’unico fattore decisivo. Il problema della scarsa presenza femminile nella ristorazione viene ricondotto a vari fattori, primo fra tutti uno svantaggio storico. Valeria Piccini fa notare come solo da pochi anni le ragazze abbiano cominciato a frequentare le scuole alberghiere, per cui la forza lavoro qualificata resta prevalentemente maschile. A questo proposito, bisogna tuttavia rilevare l’avanzata di una nuova leva di giovani cuoche promettenti e motivate: il successo delle grandi chef di cui abbiamo parlato, ad esempio, è stato un modello decisivo per Alessandra Buriani, chef di Pieve di Cento, membro dei Jeunes Restaurateurs d’Europe. Ma le cuoche restano poche, già ai nastri di partenza, e il loro numero si assottiglia sempre piú col passare degli anni. Vediamo perché. All’origine di molti abbandoni c’è sicuramente il problema del doppio carico lavorativo. Per una donna, il dilemma del primato fra vita pubblica e vita privata ha caratteri di maggiore gravità: come conciliare una professione così esigente in termini di sforzi ed orari con una normale vita familiare? A questo proposito, dice Alessandra Buriani: “Sicuramente questo lavoro è difficile sia per gli uomini che per le donne, richiede soprattutto passione, perché la vita privata è penalizzata. Si vive in un mondo tutto nostro, fatto di piatti, di ricette e di confronti con gli altri, di conseguenza se non si ha la giusta serenità. Alla fine pesa continuare: io sono mamma e il poter contare sull’appoggio famigliare mi permette di lavorare con la dovuta tranquillità, per uno Chef probabilmente sarebbe meno impegnativo”. In effetti, tutte le cuoche che abbiamo intervistato operano all’interno di strutture a conduzione familiare, nelle quali la collaborazione con il coniuge diventa l’unica possibilità di conciliare famiglia e lavoro. In certi casi, la situazione paradossalmente si rovescia: è il marito, nel caso di Ghislaine Arabian, che si muove al traino della moglie, spostandosi da una maison all� altra.
Ma le ragazze, all’inizio della carriera, subiscono spesso dei ricatti. Persino Hélène Darroze, che proviene da una famiglia di ristoratori di vecchia data, racconta come la madre abbia tentato di dissuaderla dalla carriera di cuoca, a suo giudizio troppo faticosa, e sottolinea un problema di ordine culturale: le incombenze familiari gravano ancora prevalentemente sulle donne; d’altro canto gli uomini, essendo piú ambiziosi, accettano piú facilmente di compiere dei sacrifici nella sfera privata, venendo perciò premiati.
Anche per Reine Sammut la ristorazione richiede delle “donne guerriero”, che siano disposte a penalizzare la vita familiare, acquisendo anche atteggiamenti “maschili”. In un sistema in molti casi esplicitamente ispirato a paradigmi culturali ed organizzativi di stampo militare, possono talora darsi dei problemi di autorità, per risolvere i quali la chef francese ammette di ricorrere all’aiuto del marito. Nell’ambiente maschilista delle cucine, l’idea di obbedire ad una donna è difficilmente concepibile: forse per questo le grandi maison parigine, preoccupate di salvaguardare i meccanismi di trasmissione dell’autorità, evitano di assumere chef di sesso femminile. In ogni caso, la cultura delle cucine continua a produrre nelle cuoche un vissuto di disagio, tanto che la chef francese, riscontrando la frequente mancanza di rispetto dei cuochi nei confronti delle loro colleghe, ammette di intervenire spesso in difesa delle sue dipendenti.
Un atteggiamento peculiare in un panorama che rivendica il rifiuto dei favoritismi, anche nel caso di Hélène Darroze, che pure nota come “le donne siano piú scrupolose e attente degli uomini. A parità di tecnica, una donna è sempre migliore di un uomo, perché sa che per lei è piú dura, quindi fa due volte piú attenzione e fa le cose con il doppio del cuore. Quando formo degli apprendisti, noto spesso che le ragazze sono migliori dei ragazzi, perché spesso piú appassionate e motivate. Una donna che intraprende questa professione, lo fa prima di tutto per passione, mai per caso”.
Per le chef che abbiamo intervistato è indifferente lavorare con uomini o donne, e mentre le brigate sono generalmente miste, solo Reine Sammut racconta di avere promosso una cuoca al ruolo di secondo. Ma le cuoche, oltre ad essere meno numerose, sono anche meno visibili. Secondo Valeria Piccini, le cuoche preferiscono restare nel loro ristorante, in armonia con un sentimento domestico del lavoro, piuttosto che esibirsi in video. I giornalisti del settore hanno sempre potuto verificare il carattere schivo delle chef, sempre molto umili e portate all’understatement, diversamente da tanti colleghi maschi, assai piú propensi a darsi.
Un atteggiamento che, nelle parole di Alessandra Buriani, è già uno stile di cucina. Gli uomini tendono a fare una cucina piú “esibita”, quindi piú mediatica: “Gli chef di sesso maschile sono piú portati ad esporsi; alcuni hanno la presunzione necessaria per uscire dall’anonimato. Per le donne forse viene spontaneo manipolare i piatti della mamma o della nonna cercando di farli meglio, senza per questo credere di aver presentato qualcosa degno di un Nobel, e quando vengono in contatto con la tecnica, la usano per affinare ancora di piú piatti di per sé semplici. Se per un uomo la tecnica è un modo per esprimere la propria personalità in cucina, osando e azzardando, per una donna la semplicità, la costanza e la concretezza sono il tema principale: forse difettiamo di protagonismo”.
Eppure una maggiore presenza femminile potrebbe giovare piú volte alla cucina. Le donne sono portatrici di una sensibilità differente, in cui la cucina tradizionale, appresa oralmente per via materna, o comunque femminile, si coniuga con la tecnica professionale. Tutte le chef con cui abbiamo parlato riconoscono in un modo o nell’altro il debito contratto con la cucina domestica e familiare, rivendicando nello stesso tempo la modernità delle tecniche. Sebbene possano prodursi dei momenti di frizione fra queste due componenti, alla fine la tecnica non farebbe altro che rendere omaggio a quelle che Marchesi ha chiamato “le radici del gusto”. Questo doppio binario formativo rappresenta probabilmente una marcia in piú, soprattutto dal punto di vista emozionale: per Antonella Ricci le donne tendono a restituire l’elemento fortemente evocativo dei profumi antichi, ancestrali, mentre secondo Reine Sammut la cucina femminile è capace di trascinare con la forza dell� istinto. Per dirla con Hélène Darroze, “tutti cucinano con il cuore, ma il cuore di un uomo è differente da quello di una donna, e questo si sente nel piatto”: così si spiegano la naturalezza e la spontaneità di una cucina meno mentale, una cucina dell’istante.
Luisa Valazza riconosce nella delicatezza la caratteristica fondamentale della cucina al femminile, ritrovandola tanto nei gesti delle sue cuoche quanto nella leggerezza dei condimenti della madre, mentre per Antonella Ricci e Valeria Piccini il piatto simbolo della cucina al femminile è la pasta, pietanza familiare per eccellenza. Volendo sfiorare il piano antropologico, viene qui inconsapevolmente riproposta l’opposizione di Levi-Strauss fra le polarità dell’arrostito (maschile), che richiama la caccia, e quella del bollito (femminile), connesso la focolare. Ancora una volta quindi un richiamo domestico.
Scorrendo le biografie di queste happy few della ristorazione al femminile, saltano agli occhi alcune costanti: per lo piú autodidatte, spesso discepole di madri e nonne, hanno avuto bisogno, nonostante il loro talento, di una figura maschile per affermare la propria autorità in un mondo di uomini. Collaborare con il marito, in particolare, ha consentito loro di aggirare il dilemma fra lavoro e vita privata, altrimenti drammatico. Le circostanze hanno quindi giocato un ruolo cruciale nell� espressione delle loro indiscutibili capacità, facendo sospettare un giacimento di talenti non sfruttati.
Le donne chef sono radicate: a pochissime è permesso di ascendere i gradini della carriera canonica, da commis a chef de partie e via discorrendo, spostandosi da una maison all’altra con lo spirito zigano di tanti colleghi maschi. Anziché fare carriera in prima persona, lavorando per locali via via piú prestigiosi, le cuoche si spostano verso l’alto con tutta la baracca. Forse anche per questo la loro cucina, già ancorata dagli insegnamenti delle madri, tende ad essere una cucina di territorio, che resta paradossalmente interna al paradigma familiare. Forse sarà piú facile vedere un papa di colore piuttosto che una donna a capo di una grande maison parigina; e se per le chef francesi le tre stelle restano un miraggio, lo dobbiamo secondo Reine Sammut ad un cambiamento del concetto di cucina, che ha teso a svalutare la tradizione familiare, un tempo imprescindibile, a favore della contaminazione con forme di sapere tipicamente maschili, di tipo scientifico.
Eppure, sottolineano le intervistate, una maggiore presenza femminile, oltre a rispondere ad un criterio di giustizia, gioverebbe alla ristorazione, sia in termini di creatività che come fattore di democratizzazione dell’ambiente di lavoro. Le donne, per dirla con Antonella Ricci, sono portatrici di moderazione in luoghi che restano frenetici, pervasi di nervosismo. Anche Hélène Darroze rivendica orgogliosamente il clima della sua cucina, che nella furia parigina resta improntato alla calma e alla dolcezza, mentre Reine Sammut sottolinea come la cultura femminile, che tende alla convivialità, possa essere utile per promuovere una sorta di rivoluzione culturale che salvi la cucina dalle difficoltà in cui versa, dovute in gran parte alla crisi delle vocazioni.
In origine, abbiamo detto, erano le madri: e se il cerchio si chiudesse? La ricomposizione della frattura fra cucina pubblica e privata, maschile e femminile potrebbe in fondo rappresentare l’ultima, provocatoria frontiera della fusion.