Se la sala piange, la cucina non deve ridere
All’origine del servizio moderno ci fu Cesare Ritz (1850-1918), il figlio di un pastore che riformò dalle fondamenta l’ospitalità alberghiera. Assieme al cuoco francese Auguste Escoffier (1846-1935), identificò le caratteristiche dell’albergo moderno. Il risultato fu un servizio imbevuto di quella “finesse de l’esprit” tipicamente francese adatta a soddisfare le esigenze della borghesia europea d’allora. Fu abolita la “table d’hôte”, alla quale tutti mangiavano in comune ad orari prestabiliti, sostituita da piccoli tavoli individuali. Il personale addetto al servizio ristorante venne inquadrato in un ordine gerarchico comprendente quindici figure professionali con qualifiche diverse. Il risultato fu una serie di hotel a nome Ritz in tutta Europa (il primo, a Parigi, nel 1898), che ancora oggi sono ben identificabili per la loro architettura. A quel tempo, il maitre italiano era considerato la figura professionale più completa al mondo. Quando Escoffier dovette scegliere un maitre per il suo albergo personale, l’Ocean di Ostenda, preferì Luigi Carnacina, quarantenne maitre dell’Hotel “Al Ciro’s” di Montecarlo. La scuola italiana delle tecniche di servizio era il punto di riferimento per tutta l’Europa. La figura del maitre – il vero padrone di casa della struttura ricettiva – era importante almeno quanto quella dello chef.
Il servizio cent’anni dopo la sua fondazione. Mancano i professionisti di sala.
Oggi i cuochi sono le uniche splendenti star dell’universo gastronomico. Li si ritrova dappertutto, occhieggianti dai programmi televisivi, sorridenti sui quotidiani e i periodici, e non solo quelli specializzati. La galassia ristorazione si è così ridotta a una sola dimensione, quella dello chef, trascurando tutto il resto. Le conseguenze? Sono riassunte nelle parole di Davide Scabin, anima del Combal Zero di Rivoli, due stelle Michelin, una delle espressioni più alte della cucina italiana oggi.
“La situazione del comparto di sala è disastrosa. Non ci sono più ragazzi che si ispirano a grandi maitre. I cuochi hanno eclissato la figura del cameriere, che è diventato un semplice portapiatti, una figura sterile, senza alcuna attrattiva. È fondamentale rilanciare il comparto di sala, ovviamente rispettando la contemporaneità. La preparazione deve essere molto più allargata: il personale di sala deve aver fatto public speaking, deve saper stare davanti a un pubblico, deve conoscere le strategie di comunicazione e del marketing. Oggi l’unica figura importante in sala è quella del sommelier, perchè mantiene un collegamento con il mondo del vino, che è un prodotto da vendere, perchè comunque esiste il campionato del mondo che aiuta a creare una leadership”. Scabin punta poi il dito sulla formazione, quella delle scuole alberghiere.
“Non è da sottovalutare il valore che dovremmo avere noi nella formazione delle nuove leve. L’istruzione alberghiera è abbandonata a se stessa, perchè non si avvale dei professionisti, di figure rappresentative che da anni portano avanti con passione e tenacia questo mestiere. I docenti degli alberghieri una volta avevano mediamente anche il ristorante: adesso questa condizione è difficile da ritrovare, e la didattica ne risente. Io non so bene quali siano attualmente le materie d’insegnamento, ma penso che una grande riforma debba coinvolgere le scuole alberghiere. Bisogna innalzarne la difficoltà, facendo sì che non venga scelta dal ragazzo che ritiene di non riuscire a fare il liceo. Le materie fondamentali, per il comparto di sala, devono essere la comunicazione e il marketing. Poi mi va bene che insegnino ancora a lavorare alla lampada, anche se non c’è più un ristorante che lavora alla lampada, perchè bisogna avere una cultura storica e tecnica, perchè davanti al cliente è importante la manualità, ma le caratteristiche fondamentali oggi sono altre”.
Da queste considerazioni di Scabin parte il nostro approfondimento sul comparto di sala. Abbiamo sentito altri ristoranti, i maitre, il mondo della formazione scolastica, l’esperta di galateo, i sommelier. Le riflessioni sono state diverse, i punti di vista molteplici. Su una constatazione, però, tutti sono d’accordo: il comparto di sala oggi è in grande difficoltà.
La parola
ai ristoratori
“Da noi non ci sono portapiatti”
Quando Gianluigi Morini aprì, nel 1970, il suo San Domenico, con l’intenzione di proporre – novità nella ristorazione italianala – la “cucina di casa”, si rivolse al “cuoco dei re”, Nino Bergese, una vita trascorsa ai fornelli delle grandi famiglie italiane.
“La nostra è stata sempre una ristorazione anomala – spiega Gianluigi Morini -. Ho pensato al mio ristorante come a una casa, di conseguenza al personale di sala come personale di famiglia. Non ho istituito ruoli ben definiti, ma ho avuto la fortuna di lavorare sin dall’inizio con i fratelli Marcattilii, Natale responsabile della sala e Valentino in cucina. La nostra brigata di sala è composta da otto persone per un totale di trenta coperti. Ho sempre mantenuto questi numeri, per garantire la massima attenzione ad ogni tavolo. Il cameriere che segue un tavolo non si allontana mai, non va in cucina a prendere i piatti, ma c’è un cameriere addetto che fa la spola tra sala e cucina”.
Per il patron del San Domenico reperire buone professionalità per il comparto di sala non ha mai rappresentato un problema.
“Sarà forse perchè lavoriamo in una piccola città, ma siamo sempre riusciti ad avere ragazzi validi, che sono rimasti a lungo con noi, garantendo continuità e crescita professionale. Anche il rapporto con le due scuole alberghiere della zona è buono, abbiamo studenti che svolgono periodi di stage al San Domenico. Un problema però c’è: oggi si presta poca attenzione al curriculum, alle esperienze maturate, che invece sono fondamentali”. Il suggerimento di Morini è quello di fare esperienza all’estero.
“Sono fondamentali, aiutano a crescere. Noi abbiamo aperto il San Domenico a New York nel 1988, molti ragazzi sono transitati da lì: è un’esperienza che aiuta a forgiare il carattere, dà professionalità, regala esperienza. A New York la sera abbiamo 300 coperti, numeri diversi dai nostri: chi ci lavora impara tanto anche da questo”.
“Troppi cuochi,
pochi camerieri”
“Riceviamo un curriculum al giorno per la cucina, e un curriculum al mese per la sala. Questo dato fa capire il diverso interesse che i ragazzi nutrono per i due comparti. È la logica conseguenza della sovraesposizione mediatica che hanno oggi i cuochi”.
I Santini sono la grande famiglia della ristorazione italiana. Nel loro ristorante a Canneto sull’Oglio, tre stelle Michelin, lavorano, per ventotto coperti, venti persone. Sei sono componenti della famiglia: Antonio, direttore generale e responsabile del personale; Nadia, la moglie, chef; i figli Giovanni, chef e responsabile della ricerca e sviluppo e Alberto, responsabile dell’amministrazione e dell’organizzazione del lavoro; Valentina Tanzi, fidanzata di Giovanni, che cura la redazione dei menu, l’allestimento degli arredi ed è responsabile dei dettagli. E poi c’è Bruna, la memoria storica, in cucina al Pescatore dal 1952. Antonio Santini espone subito uno dei problemi che si ha oggi in sala: la mancanza di giovani pronti ad intraprendere questa carriera.
“Attenzione però, non è un problema tipicamente italiano. Marc Haeberlin, presidente dell’associazione Grandes Tables du monde, mi ha confermato che questa fenomeno è ancora più sentito in Francia”. Come intervenire? Andando all’origine del problema: nelle scuole. “È importante che negli istituti alberghieri, al momento della scelta del percorso formativo, sia comunicato agli studenti che c’è un sovrannumero di cuochi e un numero ridotto di personale di sala. Quando si sceglie il proprio percorso, bisogna guardarsi dentro e capire le proprie attitudini, ma anche valutare gli sbocchi lavorativi. Dobbiamo far capire ai ragazzi che è inutile che tutti scelgano la cucina, altrimenti c’è il rischio concreto che non trovino lavoro. Ma bisogna anche trasmettere un concetto che si è perso negli ultimi anni: il comparto di sala è fondamentale in un ristorante. Michel Guérard, grande cuoco, ha detto: quando la cucina è buona vale il 48%, se è cattiva vale il 100%”. La restante quota comprende tanti elementi: sala e servizio ne sono parte predominante. Come intendere allora il servizio oggi? “Bisogna rafforzare gli aspetti psicologici, intuire le aspettative della clientela, prevenirne le richieste. Essere gentili e sorridenti, stando attenti a non sovraccaricare il servizio, con un’invadenza eccessiva, senza però mai trascurare il cliente”. Anche secondo Antonio Santini l’esperienza all’estero è un passaggio importante. “Ma non bisogna farla solo per metterla a curriculum. Non serve a nulla fare un’esperienza di tre mesi in un paese. Bisogna restarci finchè non si ha la convinzione di aver capito gli aspetti fondamentali di una cucina e di un Paese e comunque bisogna fare esperienze di almeno un anno”.
la formazione
scolastica
Alla base c’è sempre l’IPSAAR, l’Istituto Professionale per le Attività Alberghiere e della Ristorazione (sono 250 in Italia). La scuola alberghiera, tanto bistrattata, bisognosa di nuovo slancio, di una riforma, di una connessione maggiore con la realtà odierna del comparto ristorativo e ricettivo. Conseguito il diploma, non si aprono molte possibilità per chi voglia continuare il percorso formativo del comparto di sala. Anzi, di specifico, non c’è proprio nulla.
La didattica negli istituti alberghieri si articola in cinque anni, con un orario settimanale di 36 ore. Nei primi due anni gli allievi frequentano le stesse materie, e sono previste 9 ore settimanali di pratica suddivise tra sala, cucina e ricevimento. Al termine del secondo anno i ragazzi sono chiamati a scegliere tra questi tre settori. Il terzo anno prevede 18 ore settimanali di pratica specifiche dell’indirizzo scelto. Alla sua conclusione gli studenti conseguono la qualifica di base, e possono scegliere se fare il biennio di specializzazione o terminare il proprio percorso scolastico.
Il biennio di specializzazione, più teorico, è suddiviso in due indirizzi: sala bar e cucina da una parte, ricevimento dall’altra. Negli ultimi quindici anni gli istituti alberghieri (così come gli altri istituti tecnici) si sono dotati di un importante strumento per avvicinare gli studenti al mondo lavorativo: sono gli stage, obbligatori per acquisire crediti scolastici, generalmente svolti in estate, a chiusura del quarto anno, all’interno di strutture ricettive o ristorative. Al termine del quinto anno, dopo la maturità, si consegue il diploma di tecnico dei servizi della ristorazione o tecnico dei servizi turistici. Poi, non resta che lavorare.
Enrico Alloero
Preside Istituto Alberghiero
Marco Polo di Genova
“Ragazzi poco motivati”
“Bisogna capire cosa ci si aspetta dagli istituti alberghieri. Il mondo del lavoro cerca la manualità, ma noi possiamo darla fino a un certo punto. A scuola si possono apprendere le tecniche, ma queste vanno perfezionate con la pratica. Noi diamo prerequisiti che vanno ampliati nella carriera lavorativa.
Il nostro obiettivo non è quello di insegnare a portare dei piatti, ma vogliamo trasmettere un abito interiore, la giusta mentalità ai ragazzi. Per raggiungere questo scopo non servono solo le tecniche manuali, ma una cultura generale di base e una cultura alimentare profonda”. A parlare così è Enrico Alloero, preside dell’istituto alberghiero Marco Polo di Genova, 1300 alunni iscritti. “In parte concordo con le critiche di Scabin -continua Alloero-. Bisogna però comprendere che i ragazzi di oggi sono molto diversi dai ragazzi di trent’anni fa.I ristoratori si aspettano ragazzi pronti, con buone capacità e poche pretese.
I ragazzi oggi hanno meno disposizione a farsi comandare, hanno una personalità più spiccata.
Per quanto riguarda la mancata presenza di professionisti nella scuola, anche questo aspetto è vero solo in parte, perchè esistono spazi dove i ragazzi entrano in contatto con i professionisti del settore. Ma siamo scuole pubbliche, i docenti vengono scelti sulla base di concorsi e graduatorie: questo può essere un limite da una parte, ma è anche garanzia dall’altra”.
Qual è l’identikit dello studente che sceglie la scuola alberghiera?
“A torto l’alberghiero è considerato una scuola più facile. Le iscrizioni dunque sono sempre numerose, anche perchè, e questo è vero, è una scuola che garantisce ottime possibilità di lavoro immediato. Purtroppo sono molti i ragazzi poco motivati, infatti abbiamo una scrematura importante al primo anno scolastico. Fino a qualche anno fa c’era una netta predominanza maschile, oggi invece la percentuale di iscritti tra i due sessi è praticamente identica. Negli ultimi anni, almeno nel nostro caso, registriamo una grande crescita di iscritti stranieri. Quando c’è da scegliere tra sala e cucina, circa il 60% opta per la cucina. La percentuale dovrebbe essere inversa, perchè è la sala a garantire maggiori possibilità d’impiego”.
Antonio Montanari
docente Università
Scienze Gastronomiche
Il servizio
è cambiato”
Antonio Montanari è docente del corso “Sistemi di ristorazione” all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, architetto e autore del libro Mangiare fuori. Logiche e tecniche della ristorazione italiana dall’osteria al fast food (edizioni Edifis).
“I sistemi di ristorazione studiano il percorso completo che ogni componente gastronomico deve subire per essere portato alla bocca del commensale. Nell’ambito di questo percorso c’è anche quello che viene definito comparto di sala- esordisce Antonio Montanari-. Il comparto di sala è uno dei momenti del processo globale della ristorazione. Considerare in crisi il comparto di sala è, secondo me, solo una parte della crisi, o meglio dell’evoluzione che oggi è in atto nella ristorazione. A mio parere non è corretto dire che il comparto di sala è in crisi perchè mancano i grandi maitre: forse è più corretto domandarsi qual è il modus attuale del servizio, ossia come sviluppare il comparto di sala. Non c’è più il maitre gallonato, il menu scritto in francese, la mise en place con quattro bicchieri e sette posate, ovvero gli elementi che facevano il comparto di sala trent’anni fa, ma c’è una cultura nuova e strumenti nuovi. C’è un modo nuovo di comunicare il cibo. La comunicazione del cibo deve avvenire attraverso una serie di elementi tra di loro legati: la conoscenza del percorso fatto dal prodotto, la preparazione, la cultura di tutto ciò che ci è dietro. Tutto quello che concerne e avviene in sala, dall’illuminazione ai colori, alla scelta della forma del piatto, al modo di servire deve essere coerente al sistema globale”.
Andrea Sinigaglia
responsabile didattica ALMA
“La sala evidenzia
la capacità di far sapere”
ALMA è il centro di formazione internazionale della cucina italiana guidata dal rettore d’eccezione Gualtiero Marchesi. È una scuola privata che ha sede a Colorno, con all’attivo, attualmente, tre corsi: il corso di cucina italiana, il corso di pasticceria e il corso di sommelier internazionale. A parte la figura del sommelier, dunque, il comparto di sala non ha un corso specifico di formazione. Perchè? Lo abbiamo chiesto ad Andrea Sinigaglia, responsabile della didattica di ALMA.
“La risposta, purtroppo, è semplice. Siamo una scuola privata, e per organizzare un corso abbiamo bisogno che ci sia una richiesta- spiega Andrea Sinigaglia-. Abbiamo cercato di organizzare corsi specifici dedicati alla sala, ma purtroppo in questo settore attualmente non c’è mercato. La figura del cameriere è svilita, non ha appeal verso i giovani. Ma è un aspetto che sta molto a cuore al rettore di Alma, Gualtiero Marchesi. Se la cucina è il luogo del saper fare, la sala evidenzia la capacità di far sapere. Negli ultimi anni Marchesi ha portato avanti una riflessione sul servizio in sala, optando per riportare davanti agli occhi del cliente alcune tecniche desuete, come il trancio e la torchiatura di certi piatti (celebre l’anatra al torchio). Il corso di sommellerie, nato lo scorso anno, è stato un modo utile per entrare nell’ambito del servizio, un punto di partenza per abbracciare in futuro tutto il comparto di sala”. Quale può essere il punto di svolta per l’attuale stagnazione del comparto di sala, allora? Sinigaglia propone la sua ricetta. “Quello che è importante, e che noi abbiamo a cuore, è che nasca un movimento di una decina di giovani e bravi maitre, persone in grado di mettere in campo un nuovo movimento, una nuova elettricità, figure con le quali iniziare un dialogo, avanzare idee per ridare appeal e piacevolezza a questo lavoro che storicamente appartiene alla cultura gastronomica italiana. Noi abbiamo già interpellato alcune figure di rilievo, per collaborare a qualcosa di concreto. Penso a Adriano Fumis, oste del Gellius di Oderzo; Raffaele Alaimo delle Calandre; Simone Pinoli e Umberto Giraudo della Pergola di Roma; Carlo Pierato, maitre dell’Anteprima di Chiuduno; Carlo Sacco, direttore di sala del Piccolo Lago di Verbania; Gianfranco Bolognesi, patron della Frasca di Milano Marittima; Giancarlo Grassi, maitre sommelier dell’Antica Osteria del Teatro di Piacenza; Roberto Stroppiana, responsabile di sala del ristorante Piazza Duomo di Alba. Ci candidiamo, insomma, ad essere luogo di dialogo e incontro per chi voglia dare il suo contributo alla rinascita del comparto di sala”.
la crisi
vista dalla sala
E quelli che lavorano in sala? Come vedono, e valutano, l’attuale situazione? Lo abbiamo chiesto a tre importanti figure del settore: Luca Vissani, maitre del ristorante Casa Vissani; Umberto Giraudo, restaurant manager del Ristorante La Pergola di Roma e Giacomo Rubini, vice presidente dell’AMIRA, l’associazione di categoria dei maitre italiani, e maitre presso l’hotel Astoria di Grado.
Giacomo Rubini:
“Gli chef devono tornare in cucina”
L’AMIRA (Associazione Maitres Italiani Ristoranti ed Alberghi) è nata nel 1955 presso il Ristorante Savini di Milano, su idea dell’allora direttore di sala Guido Ferniani. L’associazione, presieduta da Raffaello Speri, conta su un’organizzazione di 50 sezioni in Italia, più alcune rappresentanze all’estero, e circa 4000 soci. Noi abbiamo interpellato Giacomo Rubini, vicepresidente nazionale.
“L’associazione svolge corsi in tutta Italia allo scopo di qualificare i nostri maitre a 360 gradi. La ristorazione, negli ultimi venti anni, ha avuto un’evoluzione impressionante. Oggi l’operatore di sala deve possedere una conoscenza vastissima del cibo e delle bevande. Occorre dunque un aggiornamento continuo, ed è quello che che l’AMIRA ha fatto in questi anni, cercando di restare al passo coi tempi. Ad esempio, ultimamente in seno all’associazione è stata registrata la figura del maitre sommelier, professionalità sempre più richiesta”.
Anche Giacomo Rubini concorda sulla difficoltà di attrarre giovani al comparto di sala. “È sempre più difficile trovare personale. Il cameriere viene associato al verbo servire. La sua figura, invece, non può essere ridotta a questo, occorre aggiungere altri verbi per definirla: agevolare, consigliare, conversare, interagire, mettere a proprio agio, sapere, vezzeggiare e, ultimo, ma importantissimo, sorridere. Oggi gli chef hanno tutte le attenzioni perchè hanno occupato anche la sala, e ora si lamentano che manca il servizio. Con la porzionatura in cucina, i piatti escono finiti: allora non si trova più chi sa diliscare, chi sa tranciare, chi sa cuocere alla lampada in sala. Nei nostri corsi queste tecniche le trasmettiamo: un commensale quando è a tavola vuole essere coinvolto anche a livello scenico”.
Quali sono le altre differenze rispetto al passato?
“Il maitre un tempo era la figura più rispettata, era il padrone di casa, e aveva sotto di sé brigate di sala molto ampie, anche di 30 – 40 componenti. Oggi le brigate si sono ridotte notevolmente, e il maitre deve avere altre doti. Deve conoscere l’informatica, avere ottima cultura generale, conoscere le maggiori lingue straniere, essere un manager. Il percorso inizia dalla scuola. È vero che la formazione alberghiera è sempre stata considerata di serie B, ma un buon maitre deve avere anche solide basi teoriche. Poi ci sono le doti fondamentali di un maitre, che sono rimaste invariate: l’umiltà prima di tutto, un grande savoir faire, una grande capacità psicologica nel comprendere il cliente”.
Luca Vissani:
“Un ristorante è la somma
di cucina, sala, cantina
e ambiente”
“Già: queste quattro componenti devono avere pari dignità. Non credo che la cucina pesi, nella valutazione di un ristorante, il 70%, e le altre componenti, assieme, il 30%. Se gli stessi addetti ai lavori hanno questa visione della ristorazione, come si possono motivare i ragazzi che stanno iniziando il loro percorso formativo o lavorativo nel comparto di sala?”.
Luca Vissani, maitre e sommelier del ristorante Casa Vissani, è chiaro. “La sala svolge il compito di ineguagliabile filtro tra la cucina e il cliente, rappresenta davvero la marcia in più per un locale. Eppure nelle scuole alberghiere la voce “sala” sta quasi scomparendo. È un processo naturale, visto che tutte le attenzioni sono per i cuochi. Perchè un ragazzo dovrebbe scegliere la sala? Dobbiamo invece rivalutarne il ruolo, motivare i ragazzi. E non ci si può limitare ad inventare qualche nome. L’idea del conviver è valida, ma non bisogna fare l’errore di credere che con questo nome sia mutato il ruolo del cameriere, sia cambiato il sistema. Finchè il cameriere, nell’immaginario, resta un lavoro part time, che possono svolgere i ragazzi per farsi un po’ di soldi, senza nessuna professionalità, il settore resterà bloccato e a essere danneggiati saranno soprattutto quei ragazzi spinti da forte motivazione”.
Allora, quali consigli dare ai ragazzi che hanno passione per il servizio?
“Oggi i giovani, che sia sala o cucina, vogliono fare esperienza solo nei locali stellati. La gavetta, che è fondamentale, non si crea solo o prevalentemente nei locali stellati.
Il mio consiglio è di aggiornarsi continuamente, andando in giro, studiando. Ma soprattutto imparare il galateo, le regole antiche del buon servizio. Probabilmente il galateo può essere alleggerito, svecchiato nelle sue parti anacronistiche, ma bisogna conoscerlo a fondo, perchè rappresenta la base del nostro lavoro”.
Umberto Giraudo:
“Il servizio è scienza e arte”
Umberto Giraudo, restaurant manager del Ristorante la Pergola di Roma, dopo aver conseguito il diploma alberghiero, ha lavorato in Inghilterra, poi in Francia, inizialmente al Louis XV di Montecarlo (per quattro anni e mezzo), poi a Parigi, sempre con Ducasse. Ora sono dieci anni che lavora a Roma. Con Heinz Beck e Simone Pinoli, maitre del ristorante La Pergola, ha scritto Arte e Scienza del Servizio (edito da Bibliotheca Culinaria), l’unico vero trattato italiano dedicato alla materia: 400 pagine che affrontano il servizio in tutti gli aspetti, dall’accoglienza, alle fasi del servizio, alle tecniche, all’organizzazione e gestione della sala, fino al capitolo finale sulla merceologia (come acquistare e servire i vari prodotti).
“La situazione del comparto di sala è davvero disastrata, ed è giunto il momento che ognuno faccia la sua parte- esordisce Giraudo-. È vero che la scuola potrebbe essere più formativa, ma è anche vero che pochi esercizi danno il giusto valore e attenzione al comparto di sala e al servizio. Negli Stati Uniti il servizio è stabilito da standard qualitativi codificati, che si differenziano a seconda del livello del locale. Esistono società incaricate a valutare il conseguimento di questi standard. In Italia è un lavoro che fanno, in parte, le guide enogastronomiche, che però sono molto più attente alla cucina piuttosto che al servizio. È vero che i ragazzi sono maggiormente affascinati dal mestiere dello chef, ma io, nella mia esperienza di docente, ne incontro tanti che vorrebbero intraprendere la carriera di sala, con motivazione ed entusiasmo. La mancanza però di maestri e di opportunità concrete sono elementi che mortificano il loro entusiasmo”.
Quale può essere il futuro del servizio? Quale la specificità del servizio italiano?
“Il servizio è scienza e arte. Il maitre deve essere un ingegnere del proprio mestiere, deve conoscere tutto della gastronomia, deve essere psicologo del cliente, deve essere cameriere professionista. Il servizio è scienza perchè ci sono regole precise da seguire. E il servizio è arte, e in questo noi italiani possiamo avere una marcia in più, grazie al nostro calore. Dobbiamo essere professionisti come francesi e tedeschi, e dare al mestiere il nostro calore. Questa è la via del maitre italiano oggi”.
I sommelier,
isola felice
Antonello Maietta
vice presidente nazionale AIS
“I sommelier, miglior collante con la cucina”
Le conferme arrivano, subito. “Certamente, i sommelier piacciono – spiega Antonello Maietta – Abbiamo richieste che ci arrivano dai ristoratori per avere persone formate, gli stessi addetti ai lavori frequentano i nostri corsi. Si è instaurato un processo a catena: oggi per il consumatore intendersi di vino è diventato una sorta di status simbol e quindi il ristoratore non può restare indietro. Quando arriva un cliente documentato nel tuo locale, e succede sempre più spesso, non puoi farti trovare impreparato. Vedo che chi esce dai corsi e decide di svolgere il mestiere, non ha difficoltà a trovare lavoro, sia in Italia che all’estero. La scuola italiana sembra che piaccia”.
Ma esiste una specifica scuola italiana? “Non ci sono grandi differenze, ma alla nostra scuola di sommellerie viene riconosciuta la peculiarità di puntare molto alla specificità degli abbinamenti. Mentre all’estero si guarda all’abbinamento con più superficialità, o meglio, con schemi mentali ben definiti, noi abbiamo una sinergia diretta tra il sommelier e chi lavora in cucina: il sommelier dialoga con il cuoco e sa esattamente come è fatta una pietanza. Le altre doti sono patrimonio di ogni sommelier: l’umiltà innanzitutto, poi la conoscenza approfondita dei vini del territorio, nazionali e internazionali, la conoscenza delle tecniche di servizio, e un po’ di intuito psicologico per dialogare con il cliente, capire i suoi gusti e la propensione all’acquisto”.
Eppure è notizia di questa estate la proposta di creare un albo, con laurea, per i sommelier. È solo una proposta nata sotto l’ombrellone o un percorso interessante per la sommellerie italiana? L’AIS non ha molti dubbi in riguardo. “Abbiamo più di una perplessità. L’AIS fa interventi nelle scuole alberghiere, avendo stipulato un protocollo d’intesa con il ministero dell’Istruzione, perchè non esiste un programma specifico nella scuola di base che deve formare gli addetti alla ristorazione. Le università non hanno nemmeno le risorse per fare i corsi di laurea a cui sono dedicate. Abbiamo il timore che questa proposta possa creare solo confusione. Regolamentare la materia va benissimo, ma quando si fa una proposta di legge per regolamentare una professione che esiste già, quantomeno sarebbe bello interpellare chi già la fa. Sinceramente mi sembra più una boutade estiva”.
Vittorio Cardaci Ama – presidente nazionale FISAR
“Non serve un albo di sommelier”
Vittorio Cardaci Ama, presidente nazionale Fisar, interviene subito su questo ultimo punto. “Mi sembra una proposta quanto mai anacronistica: ormai si cerca di smantellare gli albi professionali, non di crearne altri. La Fisar da quasi quarant’anni e l’’Ais da qualche anno in più, nel bene e nel male, hanno fatto formazione e la storia della sommellerie in Italia.
Con questa proposta si vuole mirare a una formazione elitaria di professionisti inevitabilmente destinati ad una ristorazione d’elite: è una concezione che vedo malvolentieri. Ritengo che anche chi va a mangiare in un ristorante che non sia pluristellato debba avere la possibilità di un servizio adeguato, svolto da persone preparate.
Si vuole affermare il fatto che il sommelier, cioè colui che fa il corso, deve essere necessariamente colui che poi va a praticare la professione. Invece oggi, e la Fisar ha avuto un ruolo importante perchè è stata la prima ad aprire i propri corsi ai non professionisti, ci troviamo spesso di fronte a una realtà ribaltata, dove il cliente è più preparato del sommelier di un ristorante. Questo stimola il sommelier a crescere, e al contempo cresce tutto settore vitivinicolo italiano”.
Su un incremento della presenza di sommelier nei ristoranti italiani, il presidente della Fisar è più cauto. “Tendenzialmente non registro un’esplosione. La figura che ha avuto grande sviluppo è quella del maitre sommelier. L’accorpamento delle due figure, per ovvi motivi economici, è una realtà incoraggiata e ricercata dai ristoratori”.
secondo
il galateo…
Barbara Ronchi della Rocca
Scrittrice, esperta di bon ton
“Sappiamo tutti la data di morte del comparto di sala: 1963, quando il proprietario del ristorante Troisgros (a Roanne, in Francia, tre stelle Michelin ininterrottamente dal 1968) ha inventato la porzionatura, dando il via a una tendenza ripresa dalla nouvelle cuisine. Il punto è questo: con i piatti porzionati basta qualsiasi portapiatti. Capisco i ragazzi che non hanno più interesse per questa professione: il porzionare mortifica qualsiasi professionalità, si è sviliti al rango di portapiatti. E spesso il sommelier si è impadronito del ruolo del maitre”.
Ma tornare indietro, al tempo del porzionatura in sala, è impossibile. “Certo, è un discorso utopistico: la porzionatura conviene a tutti, perchè economizza e perchè dà potere agli chef, che fanno uscire dalla cucina piatti presentati come opere d’arte. Allora poi, però, non si possono lamentare della morte del servizio di sala”.
Quali sono gli errori più comuni che osserva nel servizio? “La maggior parte dei camerieri non sa da che parte si porgono i piatti e le bevande: il servizio svolto a regola d’arte non rappresenta un balletto inutile, ma è stato pensato per non disturbare il cliente. L’errore più comune oggi, secondo me, è un servizio troppo amichevole. I camerieri abusano sovente di due frasi: il “va tutto bene?” lo accetto una sola volta, a metà del pasto; il “era buono?” invece non dovrebbe proprio mai essere usato”.
Le doti di un buon maitre, invece, anche per un’esperta di galateo, sono quelle che in questo articolo ritornano più volte. “Deve essere molto educato, un buon psicologo, con un colpo d’occhio deve capire il cliente che ha di fronte, se vuole essere coccolato o lasciato più tranquillo, se vuole sperimentare piatti nuovi o se ama piatti già provati. Deve avere garbo, ma anche autorevolezza, una dote che purtroppo si trova raramente. Autorevolezza non significa avere un atteggiamento autoritario, ma è un modo per porsi sullo stesso livello del cliente, senza servilismi, col giusto atteggiamento mentale”.
torniamo
da scabin
Il cerchio si stringe. Abbiamo ascoltato diverse voci, analizzato la situazione da molteplici punti di vista. Non ci resta che tornare da Scabin, il cuoco che con le sue considerazioni ha dato il via all’articolo. Per affrontare con lui le ulteriori riflessioni emerse dalle altre interviste.
“Oggi non esiste la percezione di che cosa sia e quanto sia importante il servizio di sala. La trasmissione della filosofia e dello stile di un ristorante passa attraverso la sala. Poi per scelta si può essere ermetici, si può essere distaccati, ma è lo stile di quel posto. Se già ci sono difficoltà a trovare passione in cucina, maggiormente è difficile trovarne in sala. Su quindici curriculum, solo uno riguarda la sala. Per trasmettere la passione si ha bisogno di maestri. Oggi ci sono pochi grandi maestri, in Italia pochissimi. All’estero i grandi ristoranti fanno più coperti, e quindi si permettono grandi strutture: si crea così quella scala dove tu entri commis e vedi quanti scalini hai davanti. In Italia la struttura è più magra. Mediamente i ristoranti di fascia alta sono gestiti da due soci, uno in cucina l’altro in sala. Pochi ristoranti italiani non sono in questa condizione, e si possono permettere un maitre in sala, che può trasmettere un pensiero da maitre e non da proprietario”.
Quanto è importante il comparto di sala?
“È fondamentale. Quando un piatto è tecnicamente perfetto, quando ha il gusto che lo chef vuole e cerca, con la giusta acidità, il giusto punto di sale, la giusta consistenza, stop, è perfetto, si mette in produzione. Se un cliente non lo ama, penso che non ha scelto bene. Questo non si può dire del servizio, che magari è perfetto per un tavolo, ma non marcia bene per un altro. Tutti i giorni bisogna registrare qualcosa, aumentare il proprio livello di sensibilità. Qualche volta guardo la sala da fuori, nascosto: è come un teatro. Tutte le sere nel mio ristorante si va a fare una rappresentazione, ma l’attore non è la cucina, gli attori sono i clienti. C’è il servizio, ci sono i piatti, ma ogni tavolo è una rappresentazione. In sala si va a creare qualcosa che non è scritto sul libro, è senza ricetta, è una creazione tutti i giorni differente. Certo ci sono regole di base, l’accoglienza, la mise en place, le temperature di servizio del vino, ma tu puoi anche rispettare tutte le regole e fare un servizio sbagliato. Il cliente è il centro dell’opera, e l’opera deve essere intorno al cliente. Altrimenti è solo metodo, come quello dei fast food. Il servizio può essere perfetto, ma si capisce che è un format; è un grande servizio, ma non è fatto per il cliente. La magia si crea in sala, non in cucina”.
Da più parti è finita sotto accusa la pratica della porzionatura.
“Se oggi io tento, come sto facendo, di impostare piatti che devono essere finiti al tavolo, sapete che difficoltà ci sono? E non parlo di un’anatra al torchio. Lasciamo stare la poesia. Se un cliente mi chiede un insalata servita al tavolo, vi garantisco che è già un problema. Un tempo c’erano maitre che se il cuoco stava male durante il servizio, si toglievano lo smoking, si mettevano il grembiule e sostituivano il cuoco. Il maitre era un cuoco che non cucinava, ma che sapeva parlare, sapeva presentare.Il cuoco mediamente aveva la pancia, i capelli unti e non parlava; poi gli chef hanno cominciato a viaggiare, a imparare l’inglese, a saper comunicare, a saper stare davanti a una telecamera, e c’è stata una rivoluzione: gli chef sono usciti dalla cucina. Anche troppo”.
Tutti hanno sostenuto l’importanza di esperienze all’estero.
“È vero. Ma il mio consiglio, per maitre e cuochi, è di non fare subito le grandi case estere, perchè prima bisogna maturare una propria capacità di vedere le cose. Quando si hanno le capacità di capire e selezionare, allora si possono fare le case estere, altrimenti c’è il rischio di avere troppo imprinting da copia e incolla, si rischia di non aver la propria personalità. Per il servizio, il riferimento rimane la Francia, certamente, dove tu puoi vedere una certa scuola, una certa organizzazione, un certo rispetto. Meno importante la Spagna, dove anche a livello alto il servizio è troppo easy. Poi Inghilterra, che è sempre una piazza importante, e Stati Uniti, dove come in nessun altro Paese occorre sviluppare una testa da manager, e dove si trova, a tutti i livelli, un bel servizio, svolto con piacevolezza, sorriso, cortesia. Infine, un passaggio nel sud est asiatico: lo stile orientale del servizio ha un’eleganza assoluta, anche se per noi è fin quasi eccessivo, esagerato”.
In Italia, chi è al top nel servizio?
“In Italia ci sono ancora due o tre stili. Uno è quello del Pescatore, la maison italiana per antonomasia. Poi c’è lo stile della Pergola, gli unici in Italia ad aver scritto un libro”.
Qual è lo stile di Davide Scabin?
“Il mio è uno stile Combal. Fa attenzione a non essere nè troppo serio nè troppo alla spagnola. Io credo che sia una buona interpretazione contemporanea del servizio. E abbiamo un sistema per gli errori. Non è vero che più si sale di livello, meno errori si fanno. Bisogna però avere un sistema per trattarli. Fare l’errore non è mai il problema, è sempre la gestione dell’errore l’importante. Il mio motto per il 2009, che vale per ogni componente del ristorante è: quando si vuole ottenere un certo livello di perfezione, cambiare cento dettagli solamente dell’1% è più efficace e difficile che cambiare un solo particolare del 100%”.
Quali sono gli errori più gravi commessi in sala?
“Gli errori gravi sono quando qualcuno fa una domanda, su un piatto, su una materia prima, e il cameriere non sa rispondere: significa che non sa cosa sta portando, cosa sta consigliando. L’errore grave è quando non si sa trattare la situazione, non si sa trattare un errore. Mantenere la concentrazione è la cosa primaria, la formazione allo stress psicologico è un allenamento fondamentale”.
In quale direzione andrà lo stile italiano del servizio?
“Innanzitutto, visto che gli uomini stanno lasciando degli spazi vuoti, è un comparto dove le donne si stanno affermando molto velocemente. Se la visione tradizionale francese tende a ostruire lo sviluppo della donna in sala, almeno a grande livello, in Italia il servizio di sala è molto sbilanciato verso un futuro femminile. Secondo me, nel creare lo stile italiano, il cliente deve percepire che nel servizio ci sono diversi ruoli, ma che tutti sono importanti, che tutti vanno a comporre un puzzle, un sistema. È la differenza, in architettura, che c’è tra una casa divisa in stanze e un loft, dove c’è un open space che ha differenti architetture nello stesso spazio tra loro armonizzate. Questa è la mia visione: non c’è più il maitre, il sommelier, le commis, c’è il sommelier che, con un bel sorriso, può anche servire un piatto. È uno stile molto difficile: è più facile gestire uno staff con divisioni ben precise; mescolare i ruoli è più complicato. C’è qualcuno che può fare qualcosa in più, ma tutti sono importanti. Io penso che la nouvelle vague italiana possa iniziare da qui: allora si può creare un nuovo pensiero della sala. Noi dobbiamo creare lo stile italiano, non possiamo copiare lo stile francese”.