
Il Better Buying Lab (BBL) è il laboratorio di ricerca del World Resources Institute, il cui team è formato da ricercatori, economisti, esperti di marketing e grosse aziende e per circa due anni ha condotto una serie di test per introdurre nuove strategie di mercato per promuovere l’alimentazione vegetale a tutta la popolazione, e in particolare aiutare i ristoranti a proporre un menù vegetale.
A febbraio 2019, il BBL ha pubblicato le prime conclusioni di un interessante studio su come la descrizione di un piatto guidi la clientela di un qualsiasi esercizio di ristorazione verso la scelta di un prodotto tra le varie proposte. La ricerca è stata condotta con una serie di test sia online, sia sul campo principalmente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e sulla base dei risultati ha stilato un vademecum di come stilare un menù, soffermandosi su linguaggio ed aspetti da evitare e quelli a cui ricorrere per incoraggiare una dieta il più possibile a base vegetale e meno dannosa per l’ambiente.
Sebbene veganismo e vegetarianismo siano ormai un po’ sulla bocca di tutti, non sono ancora ben radicati nella coscienza della popolazione mondiale, basti pensare ai dati Eurispes 2019 che stimano la popolazione italiana vegana al’1,9%, (un punto percentuale in più rispetto lo scorso anno), mentre quella vegetariana corrisponde al 5,4% degli italiani (in calo rispetto al 2018 dello 0,8%).
Come mai? La ricerca di BBL spiega che coloro che non seguono un regime alimentare vegano o vegetariano è perché hanno un’idea distorta di essa: percepiscono i cibi vegetali poco soddisfacenti, poco gustosi e non sazianti, ritenendoli più che altro una privazione da scegliere una volta ogni tanto a scopo salutistico. Sappiamo però che il cibo vegetale non è unicamente broccoli al vapore e miglio bollito, ma è anche un piatto di pasta condito con uno sfizioso sugo al pomodoro, o aglio olio extravergine e peperoncino, una lasagna con un gustoso ragu vegetale, una calda ribollita toscana oppure delle goderecce patatine fritte che niente hanno a che vedere con la tristezza ed il non essere appaganti.
Vediamo nel dettaglio cosa evitare e le strategie da attuare, secondo BBL, per implementare le vendite delle opzioni alimentari vegetali in un qualsiasi servizio di ristorazione, dal ristorante, alla gastronomia, al bar, ai semplici prodotti confezionati venduti al supermercato.
LE COSE DA NON FARE PER PROMUOVERE UN MENÙ VEGANO
1) Non indicare un piatto come “senza carne”
Chi solitamente mangia carne, interpreta quel “senza” come un “meno”, una privazione. Scrivere “senza” fa scattare nella nostra mente una limitazione e l’evidenziarla tramite questo vocabolo “di negazione” si ottiene che chi normalmente mangia carne interpreta quel piatto vegetale come “mangio di meno, non mi sazio, spendo di più rispetto ad un piatto con la bistecca”.
Alcuni test fatti dal BBL, grazie anche alla collaborazione della catena di supermercati brittannica Sainsbury’s, dimostrano che togliendo quel “senza carne”, le vendite dei cibi aumentano incredibilmente. In una caffetteria Sainsbury’s nella cittadina di Truro sono stati testati nel corso dei mesi nomi alternativi al piatto Meat-Free Sausage and Mash, Salsiccia senza carne con purè, arrivando a sostituirlo in menù definitivamente con Cumberland-Spiced Veggie Sausage & Mash, Salsiccia vegetale speziata alla Cumberland con purè, riscontrando un aumento delle vendite di questo piatto vegetale in menù pari al 76% (tutti i risultati dei test sono fruibili sul sito del World Resource Institute www.wrs.org).
E’ evidente che sottolineare che un piatto è senza carne, gioca a sfavore del commerciante, se l’obiettivo primario è proprio quello di attirare coloro che si nutrono principalmente di carne.
2) Non definire un piatto “vegan”
Già nel 2011 uno studio sui giornali britannici rivelò che il 74 percento di 397 articoli contenenti la parola “vegan” descriveva l’alimentazione vegana come difficile o addirittura impossibile da mantenere e spesso associata a termini come restrittiva, modaiola, per hippie e deboli. Secondo Brandwatch, una delle principali società di analisi dei social media, da allora non è cambiato molto negli anni. Nel 2017, BBL ha commissionato proprio a Brandwatch la scansione di 15,4 milioni di post su Twitter, Instagram, blog e forum della Gran Bretagna e degli Stati Uniti che includevano riferimenti al cibo plant-based, vegan e vegetariano. Come risultato, il termine “vegan” aveva più del doppio delle probabilità di essere utilizzato in contesti negativi rispetto alla parola “plant-based”. Sembra che la parola “vegan” possa alienare le scelte dei consumatori, tanto da impedire ad una importante utenza di assaggiare la crescente gamma di prodotti vegetali disponibili sul mercato, ma soprattutto di scoprire la buona cucina vegetale. Se quindi da un lato lo studio raccomanda di non utilizzare “vegan” per descrivere piatti a base vegetale, dall’altro consiglia di utilizzare un piccolo simbolo, come una foglia verde, all’interno dei menù al ristorante o sulle confezioni di prodotti di rivendita da banco nei supermercati, negozi o bar per indicare che è un alimento adatto ai vegani.
3) Non utilizzare neanche “vegetariano”
Il risultato di uno studio del 2016 condotto dalla London School of Economics (LSE) dichiarò che chi mangia carne abitualmente avrà il 56% in meno di probabilità di ordinare un piatto vegetale se quest’ultimo viene inserito in un menù dedicato per vegetariani, di quando questo stesso piatto viene invece incluso in un menù neutro senza fare distinzioni tra piatti onnivori e piatti esclusivamente vegetali. Le diete vegetariane sono percepite con meno negatività rispetto a quelle vegane, vengono associate ad aspetti positivi, ma al contempo anche negativi dalla maggioranza degli onnivori. Positivamente, perché in generale la popolazione considera la dieta vegetariana sana e con meno grassi saturi ed associata ad un senso di benessere e pace che conduce ad un appagamento mentale generale. Al contempo è negativa, perché in molti la ritengono priva di proteine e ferro e conseguentemente squilibrata dal punto di vista nutrizionale. Inoltre è recepita come noiosa, insipida e non abbastanza gustosa e sappiamo che il gusto è un fattore determinante nelle scelte di acquisto dei consumatori. Oltre a tutto ciò, non sono da tralasciare gli stereotipi sui vegetariani, i quali nonostante vengano percepiti come persone virtuose, premurose ed amanti degli animali, sono al contempo connotati come deboli ed un onnivoro non vuole di certo far parte di stereotipi negativi. Inoltre molti uomini temono che una dieta vegetariana faccia regredire la loro mascolinità, rendendoli meno virili. Abbiamo però appurato che definire una dieta vegana come promotrice di scarsa virilità, sia solo una credenza obsoleta, frutto di marketing spietato dei colossi della carne. Tantomeno ci sono studi scientifici al riguardo, anzi ci sono ricerche che ne testimoniano il contrario ed è l’argomento trattato nel numero di Settembre 2019 su La Madia Travel Food, dedicato al film “The Game Changers” (regia di James Cameron) relativo agli studi scientifici effettuati su sportivi vegani di altissimo livello.
4) Non utilizzare vocaboli che identificano un alimento come sano
Sempre secondo le ricerche di BBL definizioni come “Opzione salutare” oppure “a basso contenuto di grassi”, “con pochi zuccheri” o “a basso contenuto di sale” rendono un menù poco allettante. Questi termini vengono recepiti come vocaboli negativi, definiscono che qualcosa manca e quindi non è appagante e non è saporito. Un semplicissimo esperimento condotto ad una festa negli Stati Uniti, fu quello di servire il lassi al mango con due distinzioni: a metà degli ospiti venne offerto come “opzione salutare” della serata, mentre all’altra metà come “poco sana”.
Il risultato del test fu che chi assaggiò il drink etichettato come “healthy” lo valutò come poco gradevole al 55%, rispetto a coloro i quali fu offerto lo stesso drink, ma etichettato come “unhealthy”. Se gli alimenti a base vegetale sono ancora considerati come “noiosi e insipidi”, evidenziarne i benefici per la salute attraverso un linguaggio di negazione non fa altro che renderli poco attraenti, conseguentemente si rischia di compilare un menù vegetale con delle proposte dallo scarso successo. Questa valutazione non è universale e può variare a seconda del paese ed addirittura a seconda del momento. Ad esempio in Francia, i prodotti “più sani” sono considerati più gustosi, oppure nella stessa America e Gran Bretagna, l’healthy lunch del lunedì è invece molto richiesto, probabilmente per “compensare” i bagordi enogastronomici del fine settimana.
LE COSE DA FARE PER PROMUOVERE UN MENÙ VEGETALE
1) Evidenziare la provenienza di un piatto
Puntare sulla provenienza di un alimento è una potente tattica per creare associazioni positive nella percezione del consumatore nei confronti di un dato prodotto. Lo conferma uno dei 18 ristoranti di Panera Bread di Los Angeles che ha rinominato il piatto “Low Fat Vegetarian Black Bean Soup” (Zuppa vegetariana di fagioli neri a basso contenuto di grassi) in “Cuban Black Bean Soup” (Zuppa cubana di fagioli neri), ottenendo un incremento delle vendite pari al 13 percento in più. Attraverso la sola lettura della provenienza del piatto, il consumatore viene stuzzicato dall’ordinare un piatto, piuttosto che un altro, perché ogni proposta evoca sapori e luoghi a cui è particolarmente legato, oppure vorrebbe visitare.
Un altro esempio lo troviamo nella gastronomia dei supermercati Sainsbury’s: da “Meat-free Breakfast” si è passati a “Garden breakfast” e poi “Field Grown Breakfast” aumentando le vendite rispettivamente del 12 e del 17 percento. Includere la provenienza in termini propri dell’ambiente naturale in cui certi alimenti vengono coltivati o prodotti è sicuramente vantaggioso.
Lo testimoniano persino diverse aziende di prodotti vegetali, il cui proprio nome del marchio prende vocaboli che sottolineano il legame dei loro prodotti con l’ambiente naturale (vedi Field Roast, Garden Gourmet, Sweet Earth e tanti altri ancora). Infine, rinominare il “Curry di patate e ceci” in “Estate indiana” ha comportato un aumento del 15% delle probabilità dichiarate dai consumatori di ordinare il piatto. Giocare con la strategia dell’origine di un piatto risulta efficace, perché crea dei forti legami tra le percezioni sensoriali ed immagini positive ed inoltre dona genuinità al prodotto stesso.
2) Mettere in risalto i sapori!
Pensare ad un dato sapore ci fa venire l’acquolina in bocca, ce lo conferma uno studio dell’Università di Stanford che si è concentrata sui sapori nella descrizione di alcuni contorni vegetali come “Rich Buttery Roasted Sweet Corn” (Mais dolce arrosto con burro ricco) e “Zesty Ginger Turmeric Sweet Potatoes” (Patate dolci speziate alla curcuma e zenzero).
Questi piatti descritti esaltandone il sapore sono stati scelti il 41 per cento in più rispetto a piatti preparati in maniera identica, ma inseriti nel menù come “opzione sana” e il 25 percento in più se inseriti in modo più neutro.
Da quando il piatto “Chickpea and potato curry” (Curry di ceci e patate) è stato rinominato come “Mild and sweet chickpea and potato curry” (Curry delicato e dolce di ceci e patate) è stato ordinato il 108 per cento di volte in più. Esaltare i sapori con vocaboli che li contraddistinguano ponendo l’attenzione su quanto siano deliziosi e li distinguano da altri è una tattica di marketing potente che “stimola le papille” e rende invitanti i piatti proposti nel menù, vegetale o meno. Soffermiamoci dunque su ingredienti saporiti, metodi di cottura che ne potenziano il sapore e particolari accostamenti di aromi per aumentare l’appetibilità sensoriale.
3) Enfatizzare aspetto e consistenza di un cibo
Porre attenzione alle caratteristiche come il sapore, l’aspetto e la consistenza intesa come sensazione che avrà un cibo in bocca influenza notevolmente le preferenze dei commensali. Gli alimenti vegetali sono potenti proprio perché racchiudono tutte e tre le caratteristiche: sono molto colorati, più di quelli a base di latte, carne e pesce e ogni colore rimanda all’idea di un dato sapore. Proprio il colore è stato individuato come il più grande indizio interpretato dalla mente per determinare le aspettative sul sapore di un determinato cibo.
Prendiamo ad esempio una “Rainbow Salad”, essa crea già di per sé un’aspettativa di un piatto fresco, vivace e ricco di sapore. La sensazione che si avrà mordendo un alimento è fondamentale, è diversa dal sapore, è più inerente alla consistenza ed alla sensazione che ne scaturisce durante la masticazione. Sempre dalla ricerca BBL, ribattezzare “Gnocchi with mushroom, fresh spinach and Parmesan sauce”(Gnocchi con funghi, spinaci freschi e salsa di parmigiano) in “Melt in the mouth gnocchi with mushroom, fresh spinach and creamy Parmesan sauce” (Fondente di gnocchi ai funghi, spinaci freschi e cremoso al parmigiano) ha generato un aumento del 14 percento di probabilità dichiarata dai consumatori di ordinare il piatto.
L’utilizzo di un linguaggio più stuzzicante relativo alla sensazione che si percepirà durante la masticazione come “si scioglie in bocca”, “cremoso”, “caldo”, “croccante”, “spumoso”, “soffice” etc… associato per lo più a cibi ricchi di grassi, viene accolto molto positivamente dai consumatori, permettendogli di superare quei pregiudizi secondo cui l’alimentazione vegetale è poco varia, gratificante e saporita.
La psicologia dietro questa ricerca è a dir poco affascinante. Il cibo definisce noi e le nostre culture.
Fa parte della nostra cultura. Il cibo è un modo per socializzare e comunicare, forma la nostra identità sociale e determina la formazione di schieramenti e gruppi affini, con visioni e modelli simili che naturalmente allontanano i dissimili che, in questo caso specifico, corrispondono alle scelte vegane, perché non rientrano nelle tradizioni culturali. Un linguaggio negativo o che viene recepito come tale ( “senza”, “a basso contenuto di”, “con pochi grassi”, etc…) scaturisce il voler evitare di ordinare un piatto per paura di perdersi qualcosa nel momento in cui lo si sceglie. Definire qualcosa su come non sarà, limita la capacità del cervello ad immaginare in maniera positiva il sapore di un alimento.
Il pubblico tradizionale onnivoro è fortemente ancorato alla propria formazione sociale, è quindi necessario sviluppare un nuovo linguaggio che eluda queste differenze “noi(onnivori)-loro(vegani)” e che non precluda la scelta di un piatto vegetale in menù solo ai vegani, ma che si ampli a tutti.