Di Andrea Dal Cero
Pochi minuti fa, guardando il mare, pensavo alla stagione che sta per iniziare mentre i bagnini pettinavano la spiaggia sotto una pioggerellina insistente e fuori luogo. Poi mi sono arrampicato sulle prime colline alle spalle di Rimini ed ora sono in mezzo al bosco. La sorgente della Galvanina è nel cuore di queste alture, tra strati di sabbia e di arenaria: una delle più antiche d’Italia e probabilmente la più vicina al mare.
Il protocollo d’entrata allo stabilimento è rigido e consolidato. Prima di arrivare alla scrivania, sul ponte di comando, ci sono regole da rispettare e documenti da firmare. Poi tutto diventa facile e addirittura divertente.
Lui gioca tra le cifre della simpatia ma, dietro la montatura in tartaruga degli occhiali, sono gli occhi nocciola e le pagliuzze scure a tradirne il carattere. “Sono le stelline della volontà – diceva Barbara Alberti – chi ha le stelline nell’iride ha talmente voglia di cambiare le cose da cambiarsi anche il colore degli occhi”.
Rino Mini è così: uno di quegli uomini rari, capaci di farti un cip con tutti e quattro gli assi in mano.
I precedenti…
Come è cominciata la sua storia di acqua e di bottiglie?
Sono stato concepito nella casa del direttore di stabilimento di una fabbrica di birra a Padova: quella che prima era l’Itala Pilsner e che poi è diventata la Birra Peroni. La mia famiglia, di origine veneta, è sempre stata nel settore: il bisnonno, il nonno, mio padre e ora io. Abbiamo sempre imbottigliato birra, acqua, bibite, succhi di frutta. Poi ci siamo trasferiti a Rimini, dove ho fatto in tempo a nascere nel 1959.
Destinato all’acqua minerale fin dalla nascita?
In realtà, prima di arrivare alla Galvanina, mi sono fatto un po’ di esperienze. Un po’ di università, un anno e mezzo come ufficiale di marina, due anni in Africa: Kenya, Tanzania e Madagascar.
Tremila chilometri su un camion di Coca Cola
Ho girato tutto il Kenya seduto sulle casse di Coca Cola, quelle basse di legno con tutte le bottiglie a collo fuori. Un effetto basculante continuo ed inquietante che mi stampava il segno dei tappi sulle natiche: posso dire di aver avuto impresso sulla pelle il segno tangibile di questo lavoro. E lì mi sono reso conto di quanto costa la distribuzione di certe aziende che vogliono essere ovunque.
Palestra di vita o avvicinamento al lavoro?
Cercavo di fare qualcosa anche in Africa, sempre con le bottiglie, ovviamente. Ho vissuto in Africa nel ’78 e nel ’79 e ho provato ad ottenere delle concessioni. Sulle tracce e sulle strade di Hemingway trovai una bellissima sorgente, anche molto buona, per cui richiesi una concessione di novant’anni. Avevo pensato al tetrapak, studiato ogni aspetto dell’operazione e redatto preventivi, ma ogni volta che mi incontravo con gli esponenti del governo, quelli mi toglievano dieci anni. Quando arrivammo a vent’anni di concessione, considerando gli investimenti che avrei dovuto fare, decisi che non mi conveniva più e la cosa finì lì. Credo che comunque la cosa sia stata fatta dopo una ventina d’anni, probabilmente da qualcuno molto più introdotto con il governo locale.
Ci provò anche con le bibite?
In quegli anni c’era il prezzo politico per la Coca Cola che costava uno scellino (che valeva 110 lire) e per la birra, che costava poco di più. Il Kenya era praticamente nato con i tedeschi e quindi le birre erano particolarmente buone: gli stabilimenti della Carlsberg in quegli anni producevano la Elephant che era particolarmente apprezzabile. Comunque per me non ci fu spazio nel settore e tornai a casa.
Detto così sembra quasi un ripiego…
Ma sì… Non saprei nemmeno come dirlo, ma ho sempre avuto il pregio e il difetto di viaggiare molto, di verificare nuove esperienze, di non rimanere chiuso tra quattro mura…
L’arrivo in azienda
Però si trovò di casa qui alla Galvanina…
Per mio padre ci furono due possibilità: o acquistare la Galvanina dalla Birra Peroni oppure comprare la Coca Cola dalla Compagnia. La mia famiglia acquistò questa fonte dalla Birra Peroni nel ’59: siamo praticamente coetanei io e la proprietà. Avevo ventidue anni quando arrivai qui, subito dopo la morte di mio padre. Interruppi gli studi universitari che avevo iniziato da poco e soprattutto conclusi il mio periodo che adesso, dopo tanti anni, potrei chiamare formativo. Papà aveva uno spirito più conservatore ed io ero decisamente più innovativo, ma tutta la mia cultura e la mia formazione nel campo degli affari la devo decisamente a lui.
Si chiamava già Galvanina quando la prendeste voi?
Sì. E’ un nome medievale che deriva da Zoe Galvanus che, così narra la leggenda, era una bellissima ragazza che viveva in questi paraggi.
Quindi Galvanina non è un toponimo…
No, no. Era proprio una persona, la Galvanina, di cui si innamorò Sigismondo Malatesta che volle rapirla proprio a motivo della sua bellezza.
Una storiaccia d’altri tempi…
Però lei gli resistette e lui la lasciò libera per evitarle l’oltraggio. Non si sa bene… Sa come sono queste leggende che originano da fatti reali…
Una fonte di dimensione artigianale
ma con un asso nella manica
Il luogo comune recita che l’acquisto di una fonte sia sempre un ottimo affare. Non le chiedo quanto costò la Galvanina alla sua famiglia, però le domando: costò molto?
Più che l’acquisto ritengo che altissimi siano stati i costi per il rifacimento totale dei sistemi di captazione dell’acqua e dello stabilimento. La Galvanina, per regio decreto di Vittorio Emanuele II, ha un diritto di concessione perpetuo. In Italia le concessioni perpetue sono soltanto due. E’ stato questo il suo valore iniziale e fondamentale. Se lo Stato avesse la possibilità di espropriare l’azienda dopo un lasso determinato di tempo o in caso di particolari condizioni sociali e politiche, tutti i lavori geologici che sono sotto i nostri piedi non sarebbero mai stati realizzati. Qui ci sono chilometri di tunnel sotto terra. Nel 1967, quando terminarono i lavori e bisognava pagare gli ottanta muratori che lavoravano da cinque anni qui dentro, il costo di captazione fu pari a quello del grattacielo di Rimini: un miliardo e duecento milioni. Ci si comprava una città!
Ma ne valeva la pena…
Comprammo comunque un’attività artigianale: bottiglie riempite a mano, etichette incollate una alla volta, niente di più. Negli anni Cinquanta l’acqua minerale era un prodotto per pochi e la mano d’opera locale era sufficiente a soddisfare la richiesta. Poi, nel decennio successivo, tra il turismo e le diverse condizioni economiche, tutto cambiò e la richiesta crebbe in maniera esponenziale.
Avevate all’epoca una distribuzione locale?
Eravamo un’azienda interregionale: dalla punta meridionale del Veneto a quella settentrionale dell’Abruzzo: quasi 20 milioni di bottiglie all’anno. Poco prima, quando la comprammo, ne faceva 4 milioni.
Milioni di bottiglie di acqua minerale…
Più che altro di spume e gazzose, che erano il vero business degli imbottigliatori d’acqua.
Mi fa tornare bambino…
Parliamo di tappi col sughero sotto e la stagnolina che puzzava da morire attaccata con la colla vinilica. Le aziende si valutavano dal numero di bottigliette monodose che vendevano di gazzosa.
Tutto vuoto a rendere?
Era tutto vuoto a rendere e, in parte, lo è ancora. Galvanina produce acqua esclusivamente in vetro e, per il mercato italiano, tutto e rigorosamente vuoto a rendere.
Quante volte viene usata una bottiglia di vetro?
Da sette a venti volte. Ci sono bottiglie che nascono per avere una rotazione importante: noi abbiamo una media di dodici, massimo tredici, riusi consecutivi.
L’ho già chiesto a produttori di vino, di latte e di birra. Ora lo chiedo anche a lei: quanta acqua occorre per fare un litro di acqua minerale?
Tre litri per un litro in vetro a rendere e 1,1 litri per una bottiglia in PET: non è poi molta!
Da tutta Europa
verso tutto il mondo
Da dove vengono i vostri vetri?
Da tutta Europa. Il nostro è un fornitore multinazionale americano, Owens Illinois, che è il più grande produttore di vetri al mondo. Nell’attuale politica di globalizzazione le nostre bottiglie vengono prodotte una volta in Svezia, un’altra in Francia o in Germania…
E poi arrivano tutte qui…
Già, arrivano tutte qui.
Può quindi capitare che una bottiglia svedese parta vuota e poi torni in un ristorante di Stoccolma piena di acqua Galvanina?
Capita certamente. Ora, per diminuire sia i costi che l’inquinamento, si cerca di produrre vetro sempre più vicino al cliente. E’ una ricerca continua di ottimizzazione in tutti i sensi.
La logistica dei trasporti è perciò di estrema importanza per un’azienda come la sua…
Con il vetro a rendere arriviamo fino al Belgio. Ho stabilito che il limite massimo di interesse per il vetro a rendere arriva fino a Londra. Anche Londra potrebbe permettersi di risparmiare qualche centesimo acquistando vetro a rendere. Oltre questo confine logistico la cosa non è più conveniente perchè il costo del trasporto supererebbe il costo del recupero di quell’imballo. Però non si deve pensare che il vetro una volta usato venga semplicemente buttato via: se non torna qui da noi vuol dire che il sistema di recupero viene effettuato da altri in posti diversi. Oggi si recupera nel mondo circa il 70% del vetro verde e più o meno il 30% del vetro chiaro.
Altro luogo comune vuole che il costo dell’acqua minerale sia tutto nella confezione e nel trasporto…
Il vero costo dell’acqua minerale è soprattutto nell’energia, oltre che nella mano d’opera, s’intende. Anche se oggi abbiamo tutti, o quasi, impianti efficienti con una produttività e una resa oraria inimmaginabile solo fino a qualche anno fa, è sempre l’impiego della risorsa umana che, anche nella massima automazione, determina sia il valore che il costo.
Comunque il trasporto rimane determinante…
Un trasporto via mare a New York costa meno di un trasporto via terra a Milano. E anche i consumi energetici, in termini di inquinamento, sono molto più modesti. Una nave che trasporta 18.000 container da 20.000 litri d’acqua ognuno, viaggia con 22 uomini di equipaggio e ha costi, in proporzione, accessibilissimi. Il costo del nolo del container che viene riempito qui in stabilimento e poi caricato sulla nave fino al porto di New York è di 250 dollari americani, che per effetto del cambio diventano 150 euro. Quando faccio mettere in moto uno Scania e lo mando a Bologna devo spendere 350 euro. Senza considerare che ne devo spendere altrettanti perchè torni indietro.
Il mercato più importante?
Senza dubbio gli Stati Uniti. Si aprì quasi per caso nel 1986. Andando là mi resi conto che a loro mancava un’acqua di qualità. Le acque minerali americane non erano come le nostre: erano semplicemente acque filtrate o purificate e ancora oggi sono così. La Galvanina è stata la prima azienda ad esportare negli USA bevande tipiche italiane a base di succhi di frutta: aranciate, limonate, cedrata, chinotto. Altri temevano di scontrarsi con colossi del tipo Coca Cola o Pepsi Cola. Anche San Pellegrino spediva milioni di bottiglie d’acqua ma non ne mandava nemmeno una di aranciata. Noi invece, una volta inseriti nella grande distribuzione con l’acqua minerale, abbiamo spiegato agli americani che le bevande che producono loro sono essenzialmente pessime, piene di coloranti e aromi artificiali e neanche troppo sicure sotto il profilo alimentare. Loro sono i più grandi consumatori di soft drinks al mondo: avevano bisogno di prodotti come i nostri. Oggi siamo i più importanti ed esclusivi fornitori di beverage delle 35-40 catene degli Stati Uniti e l’acqua minerale rappresenta il 50% in volume e poco più del 15% in valore dei nostri prodotti.
Discorso diverso per il Giappone…
Sicuro. Normalmente il mercato giapponese richiede solamente il top di ogni prodotto e qualche volta, addirittura, il meglio non gli basta.
Oggi purtroppo chiede prodotto allo spasimo perchè là è tutto inquinato, è tutto radioattivo e la falde ne avranno per almeno tremila anni, se va bene. Quando si parla di radon nelle falde acquifere c’è poco da stare allegri.
C’è da immaginarsi il peggio…
Se lo immagini pure. Se va là con gli strumenti di rilevazione si rende conto di come sono messi, poveretti. Per il Giappone stiamo realizzando spedizioni in PET perchè hanno veramente bisogno di acqua in questo momento. Per loro non è più un lusso ma è diventata una terribile esigenza, altro che qualità della confezione!
Acqua minerale come
espressione del territorio
A proposito delle qualità organolettiche…
Non è ancora ben chiaro quale e cosa sia l’acqua da tavola. Anche sul suo sapore e la sua capacità di adattarsi ad un cibo piuttosto che ad un altro le differenze sono talmente labili da risultare impercettibili. Una volta sulle etichette delle acque minerali italiane c’era scritto “acqua medicamentosa” e si andava a comprarla in farmacia a prezzi più alti di una buona bottiglia di vino, oppure erano semplicemente “acque da tavola”. Poi sono arrivate le fonti di montagna, quelle esasperatamente povere di sali, scarsamente mineralizzate e il discorso è cambiato.
C’è molta confusione sotto il cielo?
Vede, oggi una persona che tiene alla salute vorrebbe avere un’acqua che contiene pochissimi sali minerali, che sono comunque indispensabili per il buon funzionamento del nostro organismo. Poi magari gioca a tennis e suda, si beve un integratore e assume in un colpo solo una quantità di sali (neanche sotto forma ionica ma proprio in cristalli) che è pari a quella contenuta in cinque o sei pallets di acqua minerale.
Poi magari va a finire che gli manca il potassio e allora se lo compra in farmacia, ma così facendo finisce per digerire male e allora ricorre al bicarbonato, e via di questo passo.
Partendo dall’acqua stiamo arrivando a veri e propri esperimenti chimici sulla nostra pelle…
Ogni acqua, in fin dei conti, nasce per il proprio territorio.
In tutti questi anni di esperienza mi sono convinto che ci sia un’acqua minerale adatta e specifica per ogni abitudine alimentare.
Per esempio, partendo dal Nord, dalle Dolomiti all’estremità più meridionale della Sicilia, partiamo da acque poverissime di sali minerali, passando per livelli medi di mineralizzazione il Centro Italia, fino ad arrivare a vere e proprie bombe di sali minerali al Sud.
Acqua come prodotto del territorio?
Proprio così! Con le temperature elevate che sono normali al Sud, è logico che il corpo sudi moltissimo e che abbia l’esigenza di un continuo reintegro di sali minerali.
Nel Centro Italia si mangiano molti cibi grassi e si ha bisogno naturalmente di assumere bicarbonato che agisca da catalizzatore per tutti i fritti e gli intingoli che ci piacciono tanto: è meglio trovare questa componente già disponibile nell’acqua.
Sull’arco alpino, infine, ci sono le acque più demineralizzate di tutte, come si diceva prima. Perché? Perchè là bevono molto latte e mangiano tantissimo formaggio. Sono pieni di calcio e non hanno certo bisogno di ulteriori integrazioni nell’acqua.
Però…
Però quelli delle Alpi vogliono portare l’acqua in Sicilia e dalla Sicilia la si vuole portare in montagna. Noi che siamo nel mezzo e che purtroppo abbiamo il mare davanti (se faccio un giro di compasso mi manca la metà del territorio di distribuzione) ci siamo scoperti la vocazionalità all’esportazione. Ecco perchè, con circa 1.500 prodotti diversi, esportiamo il 98% della nostra produzione.
Quasi una scena da film.
Però non è vero!
Terzo ed ultimo luogo comune, quasi una leggenda metropolitana. Si favoleggia di come lei abbia acquistato la fonte Val di Meti da Giuseppe Ciarrapico. Una scena da film: una valigia di soldi ed un’offerta che non si può rifiutare…
In realtà la scena che dice lei non è mai avvenuta. Furono altri a rilevare la Val di Meti da Ciarrapico.
Quindi l’incontro tanto evocato non avvenne?
Assolutamente no. Io ho comprato da due signori che non si intendevano molto di acque minerali, i quali a loro volta avevano comprato da Ciarrapico alcuni anni prima.
Non fu un’operazione fulminea…
Direi piuttosto che fu un’operazione a lungo ponderata e studiata a fondo. Val di Meti ha avuto anni difficili durante quella fase e fu proprio quando le difficoltà minacciavano la sopravvivenza dell’azienda che la rilevai.
Un grosso impegno…
Può dirlo forte. Ad Apecchio, sede di Val di Meti, abbiamo fatto investimenti importanti, garantito la mano d’opera preesistente ed assunto molti nuovi dipendenti. Abbiamo rivalutato il paese in accordo con l’amministrazione locale, creato uno stabilimento completamente nuovo e funzionale che ci consente di ottimizzare la produzione.
Un’ora di macchina tra i due stabilimenti…
E’ una combinazione più unica che rara che ci consente di controllare il territorio dal punto qualitativo ed ambientale: un numero impressionante di ettari gestiti nel migliore dei modi possibili per garantire la qualità delle faglie d’acqua ed evitarne l’inquinamento.
L’ultima avventura,
in ordine di tempo
Risale a pochi mesi fa l’entrata di Galvanina in Almaverde Bio…
Che dire? Almaverde Bio è un consorzio di dodici conferenti nel quale siamo entrati davvero da poco. Abbiamo aperto La Frutteria a Mirabilandia con una linea di prodotti a base di frutta, senza zuccheri aggiunti, che contengono per ogni porzione l’equivalente di due frutti.
In Galvanina dolcificate usando solo zucchero di frutta?
Impieghiamo unicamente zucchero di mela e di uva. Gli zuccheri nelle bevande sono estremamente pericolosi per chi ha il diabete alimentare.
Comunque Almaverde Bio, con la sua qualità, può essere un buon trampolino per entrare in Europa là dove le singole aziende non sono riuscite ad entrare da sole, ognuna con il suo marchio. Oltre che di comunicazione il consorzio è un supporto in termini di logistica per il nostro cliente che cerca prodotti italiani di qualità.
C’è il futuro nel biologico?
Tutti i nostri prodotti sono biologici, o quasi. Sembra un’assurdità ma per legge proprio l’acqua, insieme al sale, non può essere definita biologica.