Agostino Petrosino, quarantatrè anni, nato a Nocera Inferiore (SA), ha girato il mondo per scoprirne le cucine. Lo scorso dicembre è stato invitato nel Parlamento di Sidney come rappresentante dei prodotti campani. I viaggi di Agostino pertanto si ritrovano nella sua cucina del Sud, che accoglie spezie orientali e profumi d’ Africa. Ma soprattutto Agostino ha studiato e conosciuto persone. In Svizzera ha lavorato 3 anni come chef entremétier presso il Grand Hotel Du Parc, 5 stelle lusso. La Francia gli ha trasmesso il meccanismo professionale ed ideologico di base.
In Italia la carriera di Agostino è nata e cresciuta nei ristoranti di alberghi importanti. A Roma è stato executive chef presso“I Sofà di via Giulia” dell’ hotel St George e presso il ristorante “La Cesta” dell’ hotel Minerva. Dal 2008 è docente presso l’ Istituto Professionale per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione Paritario con sede a Roma dove tiene un corso di “Cucina per il Benessere”.
Adesso Agostino vola da solo: ha aperto il suo ristorante “Nelle mani di Petrosino” a Roma in zona Parioli, insieme al socio Carlo Baracchi. Il locale segue lo stile internazional/partenopeo dello chef: due piani, pareti a vetro che guardano viale Parioli, apparecchiature chiare e parquèt in legno scuro. Fuori c’è la “Terrazza” a terra, uno spazio con 10 tavoli, curatissimo, un grappolo di pomodori datterini su ogni tovaglia. L’ inaugurazione ufficiale sarà a settembre dopo la chiusura agostana.
Perché così tardi rispetto all’ apertura di aprile?
Da buoni vicini di casa, preferiamo entrare nel quartiere piano piano, non c’è fretta. E poi ci sono cose da perfezionare.
Quali?
Il personale: stiamo lavorando sulla scelta dello staff. La direttrice del ristorante, Elisabetta Sabatini, è una neuropsicologa e si sta occupando della selezione e della formazione.
Quindi puntate molto sull’ accoglienza.
Sì, anzi di più: cucina e accoglienza sono i due concetti ispiratori di questo ristorante.
Cosa cambia rispetto ai servizi di molti altri ristoranti?
Il fatto di avere come direttrice una neuropsicologa spiega molto la nostra impostazione. Non mi è mai capitato di trovare, in un ristorante, una persona addetta a trasmettere un concetto fondamentale ai dipendenti: quello del “non solo camerieri”. Le persone che lavorano qui fanno parte di uno staff che non si limita a servire , ma accoglie e consiglia, cerca di ricreare un’atmosfera familiare di fiducia e serenità. A me piace ascoltare chi viene a mangiare qui, cerco di assecondare tutti i gusti, anche quelli fuori menù.
Qual è la differenza della tua cucina rispetto a quella degli altri?
Per molti anni, Roma ha risentito del suo lato turistico anche nella ristorazione. I ristoranti buoni ci sono, ma sono pochi e c’è molta cucina “da trattoria”, che se fosse autentica andrebbe bene. Purtroppo, dietro molte trattorie romane tutte uguali, c’è gente che non ha mai cucinato la carbonara e non sa cos’è una gricia. Vedi le carovane di turisti che mangiano pollo fritto e coca cola su tovagliette finte; i camerieri non vedono l’ ora che finiscano e avanti un altro. Poi ci sono i locali alla moda, che puntano tutto sulla clientela vip a discapito della cucina. Per me, quello che conta è potermi esprimere a tavola. Nelle mie ricette mi riconosco, trasmetto le mie origini e la tradizione in ogni piatto, anche quando invento presentazioni scenografiche. Il menù segue le stagioni perchè le materie prime cambiano.
Hai avuto una lunga carriera negli alberghi, dove spesso la tradizione è sostituita da una cucina più internazionale. Te ne sei andato per un ritorno alle origini?
In ogni ristorante in cui ho lavorato – anche nelle grosse catene alberghiere – non ho mai lasciato i miei ingredienti preferiti: nel pesce “all’ acqua pazza” i capperi e i pomodorini ce li devo mettere… sono salernitano.
“Nelle mani di Petrosino” come la fai l’ “Acqua Pazza”?
Seguo la ricetta semplice di una volta, con la pezzogna, pomodori datterini, sedano, olio Dop e sale di Trapani. Non invento niente.
Tra gli antipasti c’è la “Cipolla bianca di Avellino con Ostriche schiuse su salsa al prezzemolo e limone verde”. Una nomenclatura così minuziosa ha un senso?
Certo. Le cipolle bianche di Avellino sono particolari perché crescono in un terreno vulcanico e asciutto, per questo sono molto dolci e grandi. In questo piatto la cipolla viene sbucciata, pulita e cotta con pochissima acqua in una pentola di pietra per tre ore, con alloro e pepe in grani a fuoco lentissimo. Viene aperta e tagliata nella parte superiore per formare una specie di contenitore. La parte centrale della cipolla viene frullata assieme al prezzemolo, con olio Dop delle Colline Salernitane e succo di limone verde si ottiene una salsa che riempirà la cipolla svuotata. Le ostriche schiuse (uso le Belon francesi) si aprono al vapore a 48 gradi per quaranta minuti, così rimane il loro gusto salino e sono poi adagiate sopra la salsa dentro la cipolla. La parte superiore della cipolla viene grigliata per renderla croccante e per profumarla.
Da un anno tieni corsi di “Cucina per il benessere”. Di cosa si tratta?
Il concetto cardine della cucina wellness è la consapevolezza di ciò che si mangia. Non basta conoscere gli ingredienti di un piatto e i valori nutrizionali; occorre sapere la differenza tra i vari modi di cuocere e far leva sulla qualità del cibo. Nel mio corso ci sono medici nutrizionisti che spiegano i rapporti tra cibo e psiche e gli effetti estetici di un certo tipo di alimentazione.
Cucina semplice. Dunque addio alla frittura?
Al contrario, una frittura fatta bene fa bene al corpo e alla mente. Il male viene quando si abusa del cibo e si usano i grassi senza conoscerli. La cucina wellness punta sull’ utilizzo consapevole e moderato dei grassi spiegando tutti i perché. La mia filosofia in cucina è cucinare piatti facili e accessibili , con cotture veloci per non perdere le sostanze buone degli alimenti. Io la frittura la mangio, una o due volte al mese però!
Spesso, le ricette “semplici” degli chef sono in realtà elaboratissime. In cosa consiste la tua “semplicità”?
La tecnica, soprattutto nei ristoranti di alta cucina, ci deve essere.
Se si diventa padroni della tecnica, si può usarla anche per un piatto di spaghetti in bianco. E il risultato si vede. La mia semplicità è nelle cotture veloci e nelle materie prime italiane. Ogni tanto mi concedo delle stravaganze per divertirmi.
Come le tue Ostriche schiuse?
Sì, quello è un piatto in cui si uniscono i sapori del mare con quelli della terra. La tecnica serve per sposarli e io sono il sacerdote!
Hai avuto esperienze professionali in tutto il mondo, ma là i francesi ti hanno dato la “regola della cucina”.
Cos’è?
In Francia sono stato otto mesi per girarla tutta. A differenza dell’ Italia dove il cuoco è considerato una persona che sfama e basta, in Francia lo chef sana, nutre i suoi clienti. Ultimamente le cose stanno cambiando anche da noi, ma siamo ancora lontani dalla filosofia enogastronomica francese che considera gli chef dei veri maestri dello Starbene.
Hai detto che i tuoi menù cambiano in base alle stagioni, ma le Sfogliatelle non mancano mai.
Beh, sì, quelle ci sono sempre…