Non c’è terapia intensiva per la ristorazione mondiale.
Nessun tubo di ossigeno da infilare nei polmoni, per rianimare quella che rischia di restare sul campo come la grande malata di questa pandemia.
Pressoché in tutto il mondo, con sparutissime eccezioni, le autorità hanno reagito all’emergenza mettendo il chiavistello alle saracinesche degli esercizi di somministrazione, senza troppe distinzioni.
Che fossero pub o enoteche, fast food gremiti o rarefatti fine dining, nessuno in pubblico e al chiuso doveva più abbassare la mascherina, nonostante le ricerche unanimemente confermassero che no, non era degustando a distanza che si poteva contrarre il covid.
Dopo oltre un anno di yo-yo, fra riaperture, richiusure e socchiusure varie, largamente dipendenti dal meteo, è giunto il momento di una prima, provvisoria prognosi per il settore, che verrà profondamente ridisegnato nelle gerarchie e nelle geografie.
Una parte, ahimè, definitivamente al camposanto delle imprese, in parte per covid, in parte con covid, quale testamento i libri in tribunale; un’altra organicamente trasformata, per quanto tempo e con quali conseguenze a lungo andare chissà (perfino nel caso degli asintomatici, ammoniscono i virologi), a causa dei cambiamenti del mercato. Ma qualcuno rilancia, preparandosi ad approfittare delle opportunità del momento.
Il mercato degli affitti
C’è per esempio il capitolo affitti: se è vero che in tutto il mondo si sono già arresi in tanti, le loro spoglie anzitutto immobiliari fanno gola soprattutto ai grandi gruppi e a chi dispone di capacità di investimento intonse.
Se ne è occupato Forbes, tenendo d’occhio il mercato statunitense, dove si stima che il 17% dei ristoranti (in Italia solo a maggio era il 10) sia destinato a non riaprire: le dichiarazioni dei CEO di gruppi come Wingstop, Domino, Restaurant Brands International e Shake Shack sono unanimi: “Vedi un numero di marchi che sono in bancarotta o in difficoltà, presto ci saranno molti siti disponibili. Penso che questo sia un ottimo momento per stare sul mercato nelle vesti di compratore”.
Il risultato saranno cambi di mano, nuove aperture e anche trasferimenti in sedi resesi disponibili a cifre competitive.
La rivoluzione spagnola
Un cambiamento drammatico, certo, che però potrebbe avere qualche risvolto positivo. Lo ha rilevato su La Vanguardia Toni Segarra, preconizzando una nuova “rivoluzione francese” ma spagnola, anzi europea, anzi mondiale. Se alla fine del ‘700 i ristoranti nacquero dalla diaspora dei cuochi di corte, che si ritrovarono improvvisamente privi di committenti, una miriade di giovani chef di grande talento, formatisi nelle maison dei maestri delle generazioni precedenti, potrebbe anch’essa perdere il proprio ubi consistam e riversarsi nelle strade e nelle periferie, alla ricerca di collocazioni favorevoli, inaugurando lo scenario democratico di un nuovo “street-food”.
Il lusso diventa accessibile
“Quando come i cuochi dei palazzi della nobiltà decapitata, i cuochi vip di oggi si ritroveranno per strada, cercheranno il sostentamento in piccoli locali periferici che il terremoto avrà reso più accessibili. E porteranno in ogni angolo a tutte le persone curiose lo spirito di questa ristorazione prodigiosa, di cui solo le élite hanno beneficiato. Crescendo fin dove, chissà.
È qualcosa che sta già accadendo. Il virus in qualche mese ci ha trasportato nel 2030, ma non ha inventato nulla. Siamo avanzati a tutta velocità e accelerando processi che erano in marcia, ma con un altro ritmo.
E la velocità abitua a rompere, a lasciare indietro i più lenti, quelli che stavano a guardare, ma non volevano correre… Da tutte queste cucine straordinarie guidate da cuochi straordinari sorgerà il talento che porterà uno spirito nuovo sulle tavole della grande maggioranza, propagato dal vento distruttivo della malattia.
La prima grande rivoluzione della gastronomia spagnola è stata elitista e intensiva, la seconda sarà estesa e popolare. Un’ondata di felicità quotidiana nascerà dalla profonda tristezza di questi giorni di nebbia”.
Nuove forme di business
E di fatto le giovani generazioni mostrano un po’ ovunque una diversa capacità di resilienza. Se è vero che i big non hanno poi molto da temere, basterebbe schioccassero le dita per stringere contratti milionari con qualsivoglia industria alimentare, sono loro le “antenne della razza”, come gli artisti di Ezra Pound: nell’infuriare della crisi, azzardano nuove forme di business cogliendo ogni occasione per diversificare, crescere, studiare.
Che si tratti del perfezionamento tecnico del delivery/asporto o di nuove attività, dalla pasta fresca alla rosticceria, fino alla produzione dei barattoli più disparati e alle dark kitchen.
David Muñoz per dire, al pari di Quique Dacosta e Dani Garcia, è sprofondato nello studio di un format di food delivery che ha chiamato GoXo: si tratta di una linea di piatti da consegnare a domicilio, da ordinare il giorno prima e disponibili in quantità limitate, per assicurare una qualità impeccabile, eseguiti nelle cucine del Gruppo NH a Barcellona, in partnership con Glovo. Costo medio di un pasto, 30 euro.
Le dark kitchen
Ma anche le catene sono attivissime sul fronte dei format virtuali o misti, nell’intenzione di valorizzare cucine chiuse o sottoutilizzate, risparmiando sulla manodopera e sui costi fissi, procedendo talvolta all’automazione della produzione e del servizio, vedi in America Kitchen Wings, Nextbite o MrBeast Burger, catena di 300 punti di delivery. Si calcola che il numero di ristoranti che utilizza qualche forma di dark kitchen sia balzato dal 13% pre covid al 51% attuale, con prospettive di crescita ulteriore e consistenti investimenti in tecnologia (geolocalizzazione, drive-thru, app e perfino droni).
Stelle cadenti in Francia…
A certificare la situazione con fare notarile sono arrivate le contestate guide 2021, Michelin su tutte: è sufficiente scorrerle per rendersi conto della drammaticità della situazione in tutta Europa. In Francia a essere particolarmente colpita è la fascia dei due stelle: perdono la seconda i due Atelier di Joël Robuchon nel settimo e nell’ottavo arrondissement a Parigi; ma è lunga soprattutto la lista degli orfani di entrambe (ben dieci, a fronte di due nuovi ingressi e delle tre stelle di Alexandre Mazzia), con nomi di primo piano come lo storico Grand Véfour (cambiamento di format: lo chef Guy Martin alla riapertura sostituirà i ravioli di foie gras da 98 euro con il gratin di cipolla a 21), L’Astrance (trasferimento e riapertura nel 2021 negli spazi che furono del Jamin di Robuchon, messo in liquidazione giudiziale e tre volte più grande della bomboniera attuale – ma la decisione risale al 2019), l’Atelier di Jean-Luc Rabanel (cambiamento di format: lo chef di Arles dopo il primo lockdown ha deciso di restituire le stelle e riunire in un unico spazio gourmet, bistrot e bottega)…
C’è addirittura il caso di un bistellato convertito in Bib Gourmand: SaQuaNa a Honfleur, dove lo chef Alexandre Bourdas, dopo 10 anni ai vertici, ha deciso in seguito al primo lockdown di sposare una formula “décontractée”.
Ma la conversione, assicura, era già nei piani ed è stata solo accelerata dagli eventi. Fra le stelle singole (33 a fronte di 54 promozioni) è la volta di La Poule au Pot di François Piège e dello Chateaubriand del pompatissimo Iñaki Aizpitarte, probabilmente retrocesso per la conversione incondizionata ad asporto e delivery. Stelle che si sono spente al buio, nel silenzio dei presentatori, per non guastare la regia della festa.
…in spagna e danimarca
Non molto dissimile la situazione inglese, con la perdita di tre due stelle, due dei quali per chiusura definitiva. Dalla Spagna giunge la notizia della fine di Zalacain, primo tre stelle del paese nel 1987, mentre restano in stand-by tutti i ristoranti del Gruppo El Barrio di Albert Adrià, comprendente 4 stellati (Tickets, Enigma, Hoja Santa e Pakta) e altri due esercizi (Bodega 1900 e Niño Viejo).
Il bistellato Santceloni del compianto Santi Santamaria, infine, è stato trasferito entro spazi più angusti del medesimo hotel e poi definitivamente archiviato. E ancora la Danimarca, con la chiusura del Relæ di Christian Puglisi che, stanco della coazione a stupire, si consacrerà a un’offerta più “semplice”; il Noma convertito ad hamburgeria, l’Alchemist che perde 400mila euro al mese e Paul Cunningham che firma un panino per McDonald…
Mentre in Italia…
L’impressione è che l’Italia tenga botta meglio di altri, probabilmente grazie a una diversa struttura imprenditoriale: laddove il ristorante è a tutti gli effetti un’impresa, conviene vendere o riconvertire; mentre qui da noi, con le famiglie al comando, ci si aggiusta.
Certo i nomi lasciati sul campo dalla Michelin sono ingombranti: Lorenzo Cogo, Roy Caceres, Yoji Tokuyoshi,
Luigi Taglienti e soprattutto Davide Scabin (fra gli altri), a dimostrazione di una sofferenza che colpisce duro l’avanguardia. Luigi Taglienti sta cercando alacremente una nuova location milanese per l’agognato passaggio a chef patron con i suoi soci (la chiusura del Lume, è il caso di chiarirlo, non è dipesa dal virus, ma da sfortunate dinamiche societarie); gli altri stanno dissodando o percorrendo strade originali, da cui potrebbero non tornare più indietro.
Le nuove aperture
Ancora una volta la crisi agisce quale formidabile acceleratore di dinamiche pregresse, volte alla diversificazione, alla democratizzazione e perfino al downshifting, la “semplicità volontaria” di chi scala marcia, privilegiando un format popolare o semplicemente la vita privata rispetto a rischi e sacrifici del fine dining.
La tendenza, inequivocabilmente, è verso una ristorazione democratica e territoriale, attenta al valore della sostenibilità.
Ma c’è anche chi rilancia con nuove aperture, per esempio Enrico Bartolini, in procinto di aprire un nuovo gourmet con bistrot a Milano; oppure gli Alajmo, che pure soffrono particolarmente la crisi veneziana. Al temporary restaurant estivo in laguna è seguito quello invernale, l’Hostaria in Cortina, nata per dare lavoro in modo continuativo a ragazzi, che sarebbero altrimenti in cassa integrazione.
Ubicata all’interno dell’Hotel Ancora, è stata concepita in pieno lockdown nell’arco di 50 giorni con la complicità di Renzo Rosso e propone i classici di Max e mamma Rita in un contesto super sicuro.