Minatori di giacimenti gastronomici a Sanremo
“È uno schifo. Qui c’è rimasta solo la bellezza ormai”. Da qualunque parte si tendano le orecchie, la solfa è sempre la stessa. Sul treno per San Remo si parla solo di economia e di crisi occupazionale. Famiglie che ripongono le loro speranze in una nuova vita oltre il confine svizzero, dove “gli assegni familiari durano fino ai 25 anni dei figli”, militari meridionali che scuotono la testa e anziani rassegnati in disparte. Là fuori non sembra darsene troppa pena il consueto scintillio ipersaturo del cielo e del mare, saldati nella rivoluzione blu che ispirò Yves Klein pochi chilometri più in là, sotto il sole gemello della Provenza. Una natura indifferente e in fondo antipatica, incapace di empatia con i cataclismi antropici nella sua bellezza sfrontata. E Sanremo è proprio questo: l’esplosione delle sensazioni su un tessuto urbano stropicciato e stanco. La città dei fiori sembra un po’ appassita, recisa e parcheggiata nel vaso stagnante della recessione.
Per Paolo e Barbara tuttavia non sembra essere cambiato un granché: da quando nel 1988 hanno alzato le saracinesche del ristorante eponimo, situato in una strada in pieno centro, appena sotto il Casinò, la loro è stata una ristorazione eroica, militante, trincerata dietro una cortina di “a prescindere”. Minatori instancabili di giacimenti gastronomici senza pari, i nostri, ma anche avanguardia di una ristorazione gourmet che in Liguria non ha mai preso residenza.
Figlio di un cameriere del ferrarese (poi patron del ristorante di via Roma), Paolo Masieri è un autodidatta pressoché locale: sul suo curriculum la formazione si riduce a pochi righe, brevi stages da Marchesi, Georges Blanc, Bernard Loiseau, nonché preziose giornate trascorse a spicciare i piatti dietro le quinte di Saperi e Sapori.
Fra i fondatori dei Jeunes Restaurateurs, ininterrottamente stellato dal ’90, quando la rivoluzione verde era di là da venire, ha saputo dare nuovo impulso alla sua cucina affiancando alla ristorazione una seconda vita in calosce da contadino, quella narrata con cinepresa struggente da Luca Guadagnino nel suo Cuoco contadino, opera del 2004 in concorso al Festival di Venezia. Tanto che al termine di uno shopping a prezzi di saldo (le campagne tutt’intorno sono neglette, in caso di successioni, spesso del tutto abbandonate), dispone oggi di un uliveto con vigna e orto a Castelvittorio (foto sopra e a lato), a 800 metri di altitudine; di un secondo uliveto, punteggiato in stagione di asparagi selvatici, a 500 metri; di un’altra vigna a Bussana, nonché di un “orto invernale” a Ospedaletti, in una delle baie più miti del Mediterraneo. Celle en plein air dove frolla la simbiosi col territorio; Paolo vi si aggira ogni mattina con l’istinto predatore di una fiera, a caccia di erbe, fiori, bacche, profumi di un altrove. La sua cucina sembra oggi scritta a due mani e qualche nuvola, firmata a pari titolo dai capricci meteorologici e dalle intuizioni estemporanee, dai macroelementi che nutrono le radici insieme alle fiammate della fantasia, inerpicate entrambe su per scarpate verticali. “Ma non ho iniziato perché i prodotti buoni non riuscivo più a reperirli, come dicono in tanti. Semplicemente mi piaceva. Oggi abbiamo un’azienda agricola totalmente naturale, compreso il vino, che quest’anno imbottigliamo per la prima volta. Viene elaborato da uve di vigne quindicenni, già piantate a pigato e a merlot. Per la precisione, produciamo due tipi di bianco: uno più salmastro e marino, l’altro morbido e corposo, in altitudine; un merlot rosso e uno rosato. Significa tanto lavoro fra i filari, lieviti naturali, nessuna forzatura in cantina, ma facciamo a meno di certificazioni inutili e costose e siamo fuori dalle denominazioni”.
La messa in scena calca il palcoscenico di via Roma: una bomboniera tappezzata di luminosi affreschi trompe-l’oeil, come si usa da queste parti. Conta in tutto una ventina di coperti fra saletta e soppalco; ma in cucina c’è solo Paolo con il figlio Stefano, che studia da fumettista, e un aiuto; in sala, in cantina e in pasticceria Barbara, anche lei autodidatta, svezzata alle arti bianche da Iginio Massari. I menu degustazione sono due, a 55 e 75 euro; poi c’è la carta con i prodotti top, come i gamberi di Sanremo, proposti crudi o flambé al whisky con paella allo zafferano (60 euro). E in stagione fanno capolino la selvaggina e i tartufi. Fra le passioni di Paolo c’è infatti l’investigazione dei giacimenti non ancora sfruttati, come i tartufi, che in Liguria ci sono sempre stati, ma non sono mai stati valorizzati, o le oloturie, che ha scoperto a Roses e oggi si accaparra dai pescatori sanremesi che lo riforniscono ogni giorno, da sempre abituati a buttarle (di fatto il menu cambia ogni giorno e spetta a Barbara riscriverlo pazientemente a seconda del mercato).
Ma Paolo è stato anche uno dei pionieri del pesce crudo in Italia. Ecco allora l’antipasto di sgombro leggermente affumicato e sugarello, pesci pescati da poche ore, la cui nota ittica è spinta dall’acidità lattica della prescinseua di kefir (ma in cucina le cagliate home made sono tre, con diversi punti di consistenza), in sinergia con la sferzata amara, tannica, ferrosa degli asparagi selvatici appena scottati a sgrassare.
La tradizione marca stretta la creatività nel flan di rossetti e preboggion con gamberi crudi marinati agli agrumi, ricetta aurorale che fa esplodere in bocca la fragranza verde della primavera.
Ma si lascia leggere in filigrana anche nel risotto di carciofi e seppie, crude e cotte, con spuma di topinambur.
Evoluzione del mariage della classica buridda di seppie e carciofi, due prodotti che nel piatto si confondono l’uno nell’altro quasi fossero le nuvole in una delicata trama olfattiva, contrastata dal cilindro di riso al nero con uova di seppia a mo’ di condimento. Più tecnico e moderno il merluzzo salato in casa e cotto confit nell’extravergine con salsa di bagna cauda e le sue verdure, interessante interpolazione della specialità piemontese con il baccalà alle acciughe, che si risolve in un ping pong fra sapidità e amaro vegetale, su cui spicca la testura opalescente e delicatissima del pesce; inaspettatamente fusion la palamita all’origano con chutney di albicocche e susine selvatiche. Più lineari i dessert, fra cui il tortino di pistacchi con limoni canditi e capperi giustamente sapidi, felicemente porto dalle mani eclettiche di Barbara.
La cantina punta dritto sui vini naturali, non necessariamente liguri, spesso francesi e financo libanesi.
RISTORANTE PAOLO & BARBARA
Via Roma, 47 – 18038 Sanremo
Tel. 0184 531653
www.paolobarbara.it
paolobarbara@libero.it