C’è un ingrediente simbolo, in questa cucina del nord, che ritorna in molti piatti. È il lichene, metà alga, metà fungo, un corallo di terra frastagliato in una corona di direzioni. Le stesse che Alessandro Gilmozzi percorre per scandagliare il suo personale universo gastronomico, il bosco, in tutta la sua complessità, nella profondità dei suoi quattro sapori fondamentali (amaro, dolce, salato, umami), in un intreccio che, al termine del viaggio, sposta i confini del palato un poco oltre, verso terre inesplorate. Alessandro Gilmozzi sta a Cavalese, cuore della val di Fiemme, nel suo El Molin (“questo mulino servì i vicini della magnifica Comunità di Fiemme”, è scritto a ricordo), un locale articolato su due piani, intimo e dolomitico, con i tavoli ricavati in spazi personali, disegnati negli angoli e protetti da luci discrete. Oggi questo locale è approdo ineludibile per chi voglia fare un’esperienza che affonda le radici nell’intimità del bosco e sviluppa i rami entro il perimetro della cucina contemporanea. Attenzione, l’esperienza è rigorosa, strettamente rigorosa, probabilmente necessariamente rigorosa. E impegnativa, anche, in certe proposte, che scardinano le dicotomie buono/cattivo e equilibrato/scomposto. Ma è esaltante quando, nella sequela di assaggi, si comincia a riconoscere la tannicità dell’abete, l’amarezza del lichene, la balsamicità differente delle resine e delle erbe del bosco. E come il lichene è metà alga e metà fungo, non bisogna dimenticare la doppia anima della cucina di Gilmozzi: non c’è solo la ricerca maniacale, codificata in quella sorta di work in progress che è il menu Essenze (dieci assaggi, a 100 euro), ma ci sono anche due menu più abbordabili e immediati (Classici storici a 70 euro e Classici moderni a 80), che raccolgono la storia di questo locale e raccontano di una cucina nata nel solco delle tradizioni con ricette classiche della Val di Fiemme (e del Trentino) ed evoluta secondo la personale sensibilità e le esperienze maturate da Gilmozzi. Nella linea dei classici si trovano lo speck della casa, burro di malga e crostini al pane di segala, ad esempio, dove lo speck è preparato dallo stesso chef in due versioni: classico e di suino nero (di Paolo Parisi, ovviamente), e stagionato dodici mesi. Oppure la capasanta cotta a bassa temperatura, cavolo cappuccio, croccante al sesamo e tagliolini di gamberi affumicati, un piatto in carta da dodici anni, ma contemporaneo, a partire dalla cottura. E quei fagottini di pasta con grano saraceno ripieni di polenta concia e porcini sauté o ancora la variazione di crème brûlée ai profumi di Lagorai (in ordine di assaggio: al muschio, lavanda, melissa e pino) che sono elaborazioni raffinate di piatti popolari di questa valle. Ma è certo l’Essenze lo specchio della cucina e delle ambizioni di Gilmozzi. Una cucina che prima di tutto colpisce per i suoi profumi, intensi e profondi, balsamici, di erbe, di corteccia, e che mira all’essenziale, senza cercare né il bello né il buono fine a se stessi. Una cucina che non strizza l’occhio, non si fa ruffiana, mai di pancia, sempre estremamente ricercata.
Il percorso Essenze si apre con Sotto la chioma dell’albero, che il cuoco racconta così: “Ho studiato cosa mangia un cervo e cosa una lepre, ovvero gli animali che vanno a rintanarsi sotto la chioma dell’albero.
Cercano radici, e così ho messo le rape dell’ultimo raccolto, rape piccole, di intensità diversa, conservate sotto la sabbia. Poi i pinoli di cirmolo e i germogli. Ho ricreato la terra con carbone vegetale e nocciole tostate. Ho marinato la carne di lepre con licheni, foglie di betulla e Riesling in modo da creare la giusta acidità, e l’ho appoggiata sopra un tortino preparato con licheni, pinoli, mandorle. A fianco c’è la lingua del cervo salmistrata con aghi di abete, lichene islandico, sale e pepe.
E ancora la neve, ricreata con schiuma di rapa e caprino”. Poi arriva l’Essenza di terra, un brodo che ha come base le bucce delle patate della valle e topinambur della val di Cembra, con l’infusione di lichene, lichene islandico, muschio, foglie di betulla (che danno una forte nota tannica), geranio odoroso (raccolto in autunno e conservato in azoto), menta, melissa: un sapore spiazzante, dove prevale il salato, l’amaro, con un finale quasi di umami. Un sapore estremo, che parte dal ricordo di certe tisane della nonna (quelle dolci, sì, e confortanti) per virare verso tensioni sconosciute. Tensioni in parte addolcite dal (doppio) rocher di foie gras, lichene di pino e polline di edera, una provocazione, un atto di amore di Gilmozzi per il foie gras e alcuni suoi maestri di cucina, integrato nel percorso del bosco con l’aggiunta di lichene, polline d’edera, miele di melo, sferificazione di miele. Ma se si vuole entrare nel loop cerebrale di questo percorso, il passepartout è certamente il riso (lumache, olio di betulla e fieno): un risotto cotto solo con acqua di fonte, mantecato con burro al fieno (nel burro viene sminuzzato il primo taglio del fieno, quello più ricco), olio di betulla e lumache. Un piatto indimenticabile (“un viaggio che conduce dal campo d’erba al fienile” spiega Gilmozzi) che prima di tutto è profumo, poi ricordo, da assaggiare provando una doppia posata: la classica forchetta e un utensile di legno a metà tra il mestolo e il cucchiaio, per scoprire che le sensazioni cambiano anche a seconda dei materiali.
Dopo il riso, si gioca con il krapfen d’anguilla brasata, maionese d’alghe e lattughe di mare, che recupera la tradizione degli allevamenti d’anguilla, presenti in valle fino ai primi del ‘900. Ne esce un piccolo snack, da mangiare con le mani: un’anguilla sgrassatissima, privata della pelle, marinata 6 ore con sale e ginepro e poi cotta a 70° per 7 ore. E poi due portate di pesce d’acqua dolce, catturato sempre in questa valle famosa (anche) per i suoi abeti di risonanza: il delicatissimo temolo (un pesce raro, di pezzatura mai superiore ai 600 grammi) in abete rosso e la trota marmorata grigliata su braci di pigna, consommé wild e lichene islandico, dove il consommè wild è un brodo preparato con dieci tipi di carne (agnello, capretto, lepre, vitello da 45 giorni, manzo allevato all’erba, due volatili, pernice bianca, piccione, quaglie, osso di prosciutto) e un’infusione di lichene legnoso. Col camoscio cotto nel sale, si arriva all’equilibrio tra innovazione e tradizione, tecnica e cuore. “Per ammorbidire la sensazione troppo spinta di selvatico della carne procedo con una marinatura ottenuta con la tecnica del sottovuoto. Prima di cuocerla, lavoriamo tre volte la carne in sottovuoto, in modo da aprire i suoi pori. Poi la cuociamo al sale, semplicemente lardellata, e la serviamo con un ristretto di camoscio e mele. Assieme, proponiamo chips di funghi essicati e rape cotte sottovuoto”. Come per altre portate, l’attenzione scivola sul servizio al tavolo, perché molti piatti non escono finiti dalla cucina, ma sono completati in sala: gli infusi e i ristretti vengono versati davanti al commensale, così come il camoscio viene liberato dalla prigione di sale e porzionato al tavolo. Lo stesso rigore, la stessa ricerca dell’essenza, si misura nei dolci. E se il macaron è un doppio contrasto (tra la tosella con rosa canina da assaggiare prima del macaron e il macaron stesso, e tra l’involucro glassato e il ripieno dove spicca la granita di mela e la zucca cotta a bassa temperatura), il border line, già dal nome, è paradigma di quest’esperienza: un dolce da gustarsi in due bocconi, coi quali si ricompone un paesaggio. “Abbiamo lavorato con le gemme di larice, pino silvestre, abete. Abbiamo preparato il terriccio con le gemme di abete e il mais della Val di Fiemme, rarissimo. Con il miele di melo, che ha retrogusto di muschio e col topinambur abbiamo fatto una piccola crema. Abbiamo preparato un gelato al larice sul quale abbiamo adagiato cristalli di resina in polvere (grazie all’azoto) e un lichene candito”. Al termine, mentre la piccola pasticceria (cucciolone al Trentingrana, zuccherino al Cointreau, chips di pop corn, topinambur e calendula, caviale di cioccolato con marmellata di albicocca, tartufino alle nocciole, acqua di betulla) disegna i titoli di coda, ci si interroga su quali possano essere i confini del gusto e quali i panorami ancora da esplorare. Certo resta vivida la cucina estremamente personale di Alessandro Gilmozzi, la sua recherche, la sua cucina contemporanea. “Ma non ho inventato nulla. Mia nonna lo faceva l’infuso di lichene, in certi libri ci sono queste ricette” ammonisce sornione. Anche il bosco, certo, non può essere inventato. Ma chi ha il coraggio (e l’amore) di indagarlo così a fondo?
Di La Madia