Sull’arco alpino nord-orientale, nella vallata di Sappada tra le case della Borgata Hoffe, il ristorante Laite si presenta chiuso a settentrione dalla piccola cappella intitolata a San Giovanni Bosco, avvolto in un paesaggio arioso, fatto di prati e boschi fitti di larici e abeti che sfumano nei mughi e nella vegetazione rada sulle quote più alte, fino ad arrivare alle rocce dolomitiche.
Si tratta di una tipica casa sappadina quasi interamente in legno, costruita secondo il sistema blockbau caratteristico dell’Europa centro-settentrionale, in base al quale le travi vengono sovrapposte e incastrate orizzontalmente per formare le pareti.
All’interno di Laite sono presenti due Stube – di cui una risalente al primo ottocento, l’altra addirittura a due secoli prima – nel classico rivestimento in legno e con eleganti soffitti a cassettoni. Vi si respira attenzione, cura dei particolari e un calore emanato non solo dal kòchouvn, l’imponente stufa in muratura che occupa una parte notevole dell’ambiente, ma soprattutto dall’accoglienza delle due padrone di casa, Fabrizia Meroi ed Elena Brovedani, impegnate in cucina l’una, in cantina e sala l’altra.
Le due si raccontano e si confrontano in questa intervista, sedute intorno a una tavola concepita affinché “gli ospiti possano sedersi comodamente per godersi un’esperienza gastronomica in assoluto agio.”
In entrambe è percepibile la necessità di condividere e di rendere partecipi i propri ospiti di quel sogno che prima era anche di Roberto [Brovedani], perché lui in realtà non è mai andato via, ma continua a vivere nei loro occhi che si illuminano nel ricordo.
Fabrizia ama profondamente un territorio che è imprescindibile e del quale lei dice: “È tutto, lo vivo sempre. Questo territorio, per me, è come l’aria”.
Ma è anche la sua principale fonte di ispirazione a cui attinge a piene mani per rendere concreta la sua idea di “cucina di montagna”, fatta delle erbe, dei fiori, dei profumi che la circondano e a cui si è accostata con grande rispetto e riconoscenza, in un percorso intimo e creativo in continuo divenire.
Ma come nasce un nuovo piatto o la variazione di uno già presente in menù?
Non esistono schemi fissi per la creazione di un nuovo piatto, dipende un po’ dall’impulso, dal periodo; mi collego molte volte a un ricordo d’infanzia, oppure a un assaggio accidentale, da cui partono poi le sperimentazioni. Mi piace molto giocare su gusti opposti, dosando le giuste quantità di un determinato ingrediente in relazione a quanto sia persistente o forte, calibrandone l’apporto a seconda dell’effetto che voglio ottenere. Ogni ingrediente è oggetto di studio.
C’è una base tecnica, sicuramente, ma poi quello che fa la differenza è l’istinto maturato con l’osservazione, l’assaggio e la sperimentazione. Sono quelli che io amo definire metodi arcaici.
Cosa significa studiare l’ingrediente?
Vuol dire informarsi sui periodi di raccolta, di crescita, sulle caratteristiche del luogo in cui cresce: è tutto questo che determina quella che chiamo la forza di un determinato ingrediente.
Sta facendo riferimento allo studio delle erbe spontanee? Non a caso “laite” significa “prato al sole”…
Sì, ma anche ai pesci di acqua dolce, a un formaggio o a un latte come quello di capra, che a me piace molto, che non è detto che abbia un gusto forte, intenso, come si pensa, perché dipende ad esempio dall’alimentazione, dalla tenuta e dalla pulizia della stalla.
Questo per dire che ogni prodotto è il frutto di un insieme di attenzioni nei confronti dell’animale o della pianta, affinché presenti o meno determinate caratteristiche: si pensi ad esempio al diverso sapore del latte delle vacche d’alpeggio nei vari periodi dell’anno.
Mi ha colpito molto l’utilizzo del cirmolo come ingrediente, soprattutto in abbinamento al cervo. Come nasce il suo utilizzo?
Avevo conosciuto un intagliatore del legno che era venuto a cena qui e si era portato addosso questo profumo, che non ho potuto non avvertire, perché apre il cuore. Così ho iniziato a informarmi. Ho trovato degli oli utilizzati soprattutto per profumare l’ambiente delle Spa, nei quali vengono utilizzati soprattutto la resina e i rami; a me interessava quell’aroma di cirmolo ma proveniente solo dal legno, escludendo la resina.
Così, con un’amica che si occupa di distillazioni, ho provato a distillare il legno di cirmolo che è particolarmente morbido e dolce, evitando però di utilizzare il legno tagliato con la motosega perché ne annulla l’odore. L’olio di cirmolo conferisce alla carne, e non solo, particolare dolcezza, perché non c’è resina. È un legno che esce dagli schemi. Io lavoro con altri legni come le pigne, il larice, l’abete rosso, il ginepro, ma lui è a sé…
Io dico sempre che bisogna guardare le cose che ci circondano e farlo con occhi curiosi e sempre nuovi, non bisogna snobbarle e lasciarle andare, ma dare loro la giusta attenzione, perché è sempre importante confrontarsi su materie prime o tecniche che non c’entrano con la nostra storia.
Lei dichiara di aver segnato la propria svolta stilistica dopo l’incontro con alcuni ristoranti famosi che non manca mai di citare.
Ha rubato qualcosa dalle cucine dei suoi locali preferiti, come il Roma di Cosetti a Tolmezzo, o il Dolada di Pieve d’Alpago?
Gianni [Cosetti] per noi [si riferisce a Roberto] è stato un faro: eravamo ragazzi ed è stato illuminante avere questo rapporto di stima e amicizia con lui, che era tornato da Roma e aveva scommesso la sua carriera a Tolmezzo, con tanto lavoro legato al territorio, il che per l’epoca era un concetto un po’ all’avanguardia.
Anche al Dolada, malgrado l’esperienza sia stata piccolissima perché eravamo sempre aperti e non c’era la possibilità di fare stage prolungati, Enzo [De Pra] è stato splendido: è uno dei pochi con la passione dentro.
Aveva questo dono dell’insegnare, ma non ti dava la ricetta, però c’erano in lui, fortissime, la cura e l’amore per la materia prima da trasmettere.
Un’altra bella esperienza, sempre brevissima, ma assolutamente utile, è stata da Vissani, perché ha la capacità di unire ingredienti e ispirazioni diverse. Lui è come un contenitore dove si può inserire veramente di tutto perché da ogni cosa sa creare sempre nuove suggestioni.
A differenza mia che utilizzo ingredienti differenti, ma faccio in modo che ogni elemento che compare nel piatto sia avvertito in maniera distinta, lui, invece, sa utilizzare ingredienti di ogni tipo per ottenere un gusto sorprendente che in natura quasi non esiste. Lui punta sulla sintesi, non sulla scomposizione e differenziazione degli elementi.
Qual è il piatto che la rappresenta di più e quale quello che è rimasto nel corso di questi anni?
Tutti i piatti sono miei e quello che mi contraddistingue è la capacità di farli riconoscere come miei.
È bello poi sentirsi dire dai clienti: potrei avere gli occhi chiusi e, ricordando un tuo piatto, avere comunque la percezione di essere qui. Ho lavorato molto per costruire la mia identità, ciò che mi distingue e che mi fa restare nella memoria dei miei ospiti.
La stella Michelin al Laite è arrivata per caso o era un obiettivo raggiungerla?
No, è arrivata inaspettata, per nulla programmata, eravamo ragazzini quando è successo.
C’è in programma la seconda stella?
No, cerchiamo di lavorare con impegno come sempre, valorizzando la casa e l’atmosfera, per il nostro piacere e per quello dei nostri ospiti, senza forzature.
Passando, invece, alla cantina del Laite, Elena, ho letto che la vostra vanta più di 2.000 etichette. Come avviene la scelta e l’assortimento?
La maggior parte del lavoro è stato fatto da mio padre nel corso degli anni, soprattutto sui vini cosiddetti “importanti”.
Quello che stiamo facendo adesso è un discorso relativo all’abbinamento, per esaltare i piatti creati da Fabrizia; diciamo che l’acquisto al momento è finalizzato a questo, poi, è chiaro che, se ci sono dei vini che, secondo me o Ovidio, che si occupa soprattutto della cantina, si prestano all’invecchiamento, li lasciamo in cantina.
Il discorso del vino è un po’ cambiato, perché prima si vendeva la bottiglia, oggi, invece, con questi percorsi gustativi, la gente si fa accompagnare, perché sennò si rischia di rovinare il piatto e il vino.
Qualcuno ha parlato di vostri “abbinamenti provocatori e azzeccati”. Quale può essere un abbinamento provocatorio?
I gusti sono un po’ più delicati rispetto a quelli di una volta. Molti nostri piatti, anche di selvaggina, si abbinano bene ai bianchi, che sono molto duttili, cioè ce la fanno a sostenere questi percorsi.
E se inizialmente le nostre proposte hanno lasciato perplesso qualche commensale, una volta provate, sono state apprezzate anche nell’azzardo.
Ogni stagione cambiamo le cantine che per la maggior parte conosciamo personalmente: sappiamo come lavorano e ci fidiamo.
Noi cerchiamo di valorizzare le uve autoctone e in genere quelle italiane.
E mentre per alcuni piatti il vino è solo di accompagnamento perché cerca di non sovrastare il cibo, in altri casi, come nel nostro menù più lungo, il vino diventa un ingrediente che contribuisce a creare quell’equilibrio che Fabrizia ricerca, per esempio dando più sapidità o abbassando l’acidità, modificando così la percezione che si avrebbe se il vino non ci fosse.
Lei prima di tornare al Laite ha fatto una serie di esperienza diverse in varie realtà anche famose. Mi incuriosiva quella a La Torre del Saracino a Vico Equense, di Gennaro Esposito.
Sì, è stata l’ultima esperienza: fantastica! Avevo il desiderio di andare al Sud, per la ricchezza della materia prima, il clima.
Se assaggi un limone lì, ti domandi cosa hai mangiato fino a ora, perché nulla di quello che noi chiamavano limone ha quel sapore e quel profumo. Lo stesso dicasi per il pomodoro o altri prodotti.
Cosa si è portata a casa di quell’esperienza?
Soprattutto l’ospitalità del Sud, poi l’ordine e la pulizia: tutto deve essere perfetto, preciso.
E poi, il cuore del Sud! È chiaro, quello che va bene nelle varie strutture che ho frequentato, non è detto vada qui, ma ciò perché l’Italia è varia ed è giusto che sia così.
Non ha mai pensato che il suo futuro avrebbe potuto non essere qui?
Avevo in programma di viaggiare ancora e fare altre esperienze, ma poi gli avvenimenti mi hanno portata a fermarmi.
Ha pensato a un Laite 2?
La nostra forza è la famiglia: chi viene qui sa che troverà lei e troverà me e a noi fa piacere. Aprire un nuovo locale significherebbe farlo gestire a terzi e non sarebbe il Laite, sarebbe altro.
Mise en place essenziale ed elegante.
Ho dovuto lottare molto con mio padre perché fosse così. Prima la tavola era sì bella, ma molto addobbata, c’erano le candele, i sottopiatti…io, invece, volevo l’essenzialità in modo che l’ospite si possa concentrare sul piatto. E, secondo me, l’ordine, la mancanza di distrazioni favorisce il relax, che a tavola è fondamentale; un aiuto ce lo dà anche musica.
Tra le proposte degli aperitivi al Laite mi ha incuriosita l’Idrolato di fieno, quale ingrediente dell’HAI.
Sì, anche questo è fatto per rimanere nel territorio, ha un buonissimo odore di fieno e, offerto in una location come la nostra, all’inizio del pasto, fa comprendere agli ospiti dove si trovano, anche per dare un’alternativa al vino.
[Questo articolo è tratto dal numero di marzo-aprile 2023 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]