Un’isola nell’isola: questa è Salina. La saltellante traversata in aliscafo per raggiungere il molo da Milazzo non è breve: le miglia sono una cinquantina, prima di scoprire una quintessenza di Sicilia, per così dire al quadrato, ma incontaminata, su cui rampicano i ghirigori salmastri dei capperi. Forse la più gentile delle Eolie, arcipelago squassato da vulcani ancora attivi, celebre per le sabbie nere, sui cui crateri incandescenti a suo tempo si affacciava come su uno specchio Friedrich Nietzsche.
Della lava e dei lapilli restano i colori e la fertilità variopinta, quasi azzorriana nell’intreccio di macchia e di fiori, che respira fra le tipiche case eoliane, parallelepipedi squadrati e bianchi, esempio canonico di architettura spontanea. La macchina le costeggia seguendo il profilo del monte per 8 chilometri fino a Malfa, paese più grande dell’isola, nel cui centro una freccia conduce al viottolo del Signum, sigillo che la famiglia Caruso sta imprimendo sulla ristorazione isolana.
I riflettori si sono accesi sul ristorante da quando la Michelin, qualche mese fa, ha premiato la giovanissima Martina, classe 1989, migliore chef donna dell’anno.
In zona il turismo è arrivato tardi, negli anni ’70: mamma Clara, di professione psicologa, e papà Michele, impiegato comunale, sono stati fra i primi a presagirlo. “Entrambi eoliani, a un certo punto hanno deciso di restare sull’isola, abbandonando il pendolarismo. Hanno iniziato con 16 camere e pian piano siamo arrivati a 30. Papà è rimasto solo in cucina per quindici anni: preparava i piatti tipici come l’insalata di capperi, le paste fresche, il pescato del giorno sulla foglia di limone, secondo quel che offriva l’isola”, racconta Martina.
“Mi piaceva osservare mio padre al lavoro, ma i miei genitori non volevano che facessi la cuoca: lo giudicavano un lavoro gravoso. A 14 anni, al momento di scegliere le superiori, avrei voluto frequentare l’alberghiero di Messina, tuttavia la disciplina del collegio mi ha frenato e ho ripiegato su ragioneria a Lipari. Ma non mi sentivo contenta, tanto che dopo 2 anni sono tornata a Salina e ho ripreso l’idea dell’alberghiero con altre ragazze di qui. D’estate lavoravo con mio padre, il resto dell’anno, nel fine settimana, in un ristorante d’albergo a Cefalù”. La formazione è proseguita alla scuola romana del Gambero Rosso e in stage alla Rosetta, da Antonello Colonna e Pipero al Rex, nonché a Londra con Jamie Oliver. Ma l’esperienza più segnante è stata alla Torre del Saracino con Gennaro Esposito, cattedratico di gusto mediterraneo. A Malfa Martina è chef dal 2013, nel giro di 3 anni stellata.
Il merito è anche di Luca(foto qui sopra), fratello maggiore di Martina, che per primo ha iniziato a pianificare il rilancio gourmet della struttura. Diplomato in ragioneria, si è fatto le ossa da cliente di tavole eccellenti, spesso in compagnia della sorella, cosicché ama calarsi in quei panni anche al Signum, alla ricerca del massimo comfort per l’ospite. Sono una ventina d’anni che ammassa etichette con un progetto ambizioso di cantina: oggi le referenze sono 1500 e soddisfano un po’ tutti i gusti. Le descrive come un sassolino che forma cerchi concentrici nel mare: da Salina alla Sicilia, all’Italia, con un focus particolare sulla Toscana, fino alla Francia e alla Germania. Gli Champagne in particolare sono 120, grandi maison ma anche piccoli vignaioli.
In cucina comanda Salina, a causa delle difficoltà di approvvigionamento, che propiziano il chilometro zero. “Occorre pianificare tutto in anticipo ed entrare nel mood isola, perché se qualcosa non arriva o il tempo è cattivo, è necessario trovare una soluzione, da cui può nascere qualcosa di buono. Lavoro per l’80% con materia locale: frutta, verdura, pesce; e alle mancanze supplisco con i prodotti della costa siciliana. Salina non è solo capperi: abbiamo il pomodoro siccagno, coltivato a 400 metri di altitudine a Valdichiesa; ma in generale su questa terra vulcanica, così ricca di minerali ed esposta alle brezze salmastre, qualsiasi cosa acquista un sapore speciale”. Ci sono anche il piccolo orto e un frutteto coltivati da papà con metodo biologico.
Ma le Eolie di Martina Caruso non sono solo prodotto: al termine dei suoi viaggi, il ritorno a casa ha significato indagare le tradizioni del territorio. Per esempio, l’essiccazione al sole, obbligata a fini conservativi laddove l’elettricità e la refrigerazione sono arrivate pochi decenni orsono; veniva praticata anche sul pesce, soprattutto sui totani, particolarmente abbondanti su queste coste, che venivano lasciati al sole tutto il giorno e poi custoditi di notte nelle case, per essere consumati previo ammollo.
Essiccazione e non fermentazione, si badi bene, procedura questa meno tipica, sotto il segno dell’immediatezza mediterranea. Martina la applica a frutta, verdura ed erbe spontanee dell’isola, raccolte in inverno e in primavera, per un effetto di concentrazione e testurizzazione originale; senza dimenticare l’altrettanto tipica salagione, soprattutto del limone. Ma, in generale, l’impressione è quella di una giovane interprete, che da registri più comfort si sta spostando verso affondi ficcanti e inquietudini contemporanee, abbracciando gusti via via più scomodi e intriganti. Né manca l’amaro, insolito a queste latitudini, nel gioco di contrasti e consistenze del piatto.
I menu sono 3: il 5 portate dedicato ai prodotti eoliani, il 7 portate sulla contaminazione, il 9 portate il Sigillo, più personale, al prezzo rispettivamente di 100, 120 e 140 euro; più 4 pairing passepartout (Salina, Isola con vini siciliani, il Viaggio senza confini geografici e il Sigillo con calici più pregiati, a un prezzo compreso fra 55 e 140 euro) e piena facoltà di personalizzazione.
Si comincia con la carota di Ispica disidratata e rinvenuta in succo di carota con hummus di ceci al sesamo tostato e olio alle erbe spontanee per riequilibrare le dolcezze; poi quello che è ormai un hit del ristorante, fungibile da benvenuto o intermezzo: la bagna cauda testurizzata e mitigata dalla purea di patata con ricci di mare crudi (foto qui sotto), sull’asse col Piemonte, dove secondo la leggenda i contrabbandieri di sale, bloccati dalla neve, avrebbero messo mano ai pesciolini. Ma il concetto gustativo è moderno: sapido su sapido, cosicché a risaltare infine è la dolcezza degli echinodermi.
Da qualche tempo fra Salina e Panarea è iniziato lo sfruttamento di una fossa di gamberi rossi, che sono entrati stabilmente in carta. In inverno con conserva e caffè, d’estate in una versione più fresca. Marinati nel Bloody Mary, sono serviti con pesca in conserva acetica e polvere di albicocca, per una doppia acidità, cipolla, fiori e germogli.
Ma è ottimo lo sgombro, tripudio di mediterraneità e di sole. Viene prima cotto confit, poi finito alla piastra fin quasi alla carbonizzazione superficiale, per la nota amara e l’effetto brace. Sul piatto con mozzarella di bufala ad arrotondare, finocchietto di mare sottaceto, capperi e una deliziosa zuppetta di acqua di pomodoro frullata con polpa di oliva verde. Dove la liquidità, ricorrente nel pasto, è pulizia.
Martina però sa anche osare: vedi il tonno alalunga appena scottato e servito senza salsa apparente con una guarnizione di fichi essiccati, reidratati, piastrati. Un piatto ardito, nudo, binario, appena legato dalla glassa leggera di centrifugato di fichi e dalla simpatia fra le testure, effetto prosciutto e fichi.
I primi sono particolarmente centrati. Sia i bottoni ripieni di melanzana bollita con capperi e peperoncino, foglie di cappero e pomodorini confit in brodo balsamico di nepitella essiccata (ricetta a pag. 33), ottenuto per infusione effetto tisana, che i mezzi paccheri con tradizionale ragù nero di totano, tuma persa, in solidarietà con il caseificio Passalacqua, e foglie evanescenti di bieta marinate in succo di acetosella ed essiccate, per un gioco di testure, ferro e iodio, umami e sapidità, da cui esce vincitrice la sottile dolcezza del cefalopode. Più comfort la pasta mista, miscellanea dal sapore familiare, che veicola il doppio iodio delle zucchine dell’orto e delle cozze preparate in scapece alla spagnola, aperte e marinate in vino, aceto e concentrato di pomodoro, più il Ragusano a ingrassare.
Mentre è già un signature, per quanto in progress, la triglia elaborata in tutte le sue componenti (il paté delle interiora, la lisca croccante, le squame fritte) che nuota verso nord nella classica salsa cacciucco. “Un ricordo delle triglie che mangiavo da piccola, col timore delle spine”.
L’aliscafo fra salato e dolce è il gelato di capperi in mezzo alle cialde di pane al sesamo modello brioche siciliana, omaggio all’intermezzo tartufato di Sultano, dove la base è la ricotta di capra dell’unico caseificio eoliano, con sede a Vulcano. Ma della pasticceria si occupa Sara, pastry chef di Salina. Con Martina ha messo a punto la defaticante crostata di crema di limone salato con meringa all’italiana bruciata e gelatina di liquirizia.
RISTORANTE SIGNUM
Salina, Via Scalo, 15 – Malfa (ME)
Tel. +39 090 984 42 22