Un blend perfetto di professionalità diverse.
È un gran bel metodo solera l’Enoteca Pinchiorri: il blend perfetto fra generazioni, maturità e freschezza ne fa il primo ristorante d’Italia, a detta della rossa e della guida delle guide. Sulla trama elegante tessuta da Annie e Giorgio, fatta di complessità, morbidezza e aromi evoluti, si innesta la sferzata energetica di due cavalli di razza, Riccardo Monco e Italo Bassi: adrenalina pura per vivificare l’assemblaggio e proiettarlo nel futuro. E come in ogni solera che si rispetti, gli innesti si ripetono lasciando un sospiro di rimpianto, come quello per la giovane pasticciera Loretta Fanella, che ha appena lasciato l’Enoteca per una scelta di vita. Di fronte al bivio fra avanguardia e classicismo che attanaglia la cucina contemporanea, è uno scavalcamento in scioltezza. Un eccentrico scrittore ottocentesco, John Ruskin, vedeva nella digitale purpurea l’immagine perfetta dell’opera d’arte, a causa di quel ramo che affianca boccioli chiusi, in fiore e spampanati; passato, presente e futuro. A Riccardo e Italo la metafora piace: e che il piatto salpi in viaggio nel tempo, linkando i modi della nostra esperienza!
Il concetto PINCHIORRI
Riccardo: ci troviamo in un triangolo i cui lati si chiamano ieri, oggi e domani. A noi dispiace essere considerati conservatori, ma non siamo neppure sperimentatori incalliti. Ci basta essere attuali: le tagliatelle farcite ad esempio cosa sono, tradizione o innovazione? La base dei piatti è quasi sempre un ricordo che attiva la memoria, passando attraverso il filtro dell’Enoteca. L’innovazione ci piace quando è spontanea e non riciclata, ma se per essere moderni dobbiamo usare per forza l’alginato piuttosto che la metilcellulosa, significa che non siamo davvero creativi: lo standard non fa bene nemmeno all’avanguardia. Credo che si tratti di una tendenza generale: come ha detto Scabin, stiamo facendo un passo indietro. Abbiamo attraversato un periodo di passaggio per capire cosa fosse il nuovo, adesso l’abbiamo afferrato e il risultato è una cucina italiana originale e meno scimmiottata.
Una cucina da MEDITAZIONE
Riccardo: seguo personalmente il ristorante di Tokyo, un’esperienza di grande stimolo, se si considera che nel paese si concentra la massima densità di stelle Michelin al mondo, composta in gran parte di fotocopie di maison europee. Una sera l’intera tavolata cui partecipavo ha lodato la bontà di un tortino di castagne, criticando la scarsa riconoscibilità dell’ingrediente principale. Perché è così che funziona: il cliente ha bisogno di sapere ciò che mangia e se non lo sente si indispettisce; invece dovrebbe considerare la bontà dell’insieme. Per questo mi è venuta un’idea: mi piacerebbe fare un menu di piatti senza nome, una provocazione per parlare di un altro tipo di cucina.
Italo: non me ne avevi mai parlato prima, ma può essere interessante. Così il cliente in un certo senso battezza il piatto in prima persona. Interagisce.
Madia: mi ricorda un po’ le teorie di Pierre Gagnaire: la cucina tradizionale è figurativa, nel senso che conserva la riconoscibilità dell’ingrediente principale, mentre quella avanzata deve essere astratta, una fucina di gusti mai provati. In questo senso Ferran Adrià sarebbe un cuoco all’antica, mentre la ratatouille è modernissima.
Riccardo: la distinzione è interessante, anche se poi le due cucine possono dialogare ed alternarsi nel menu. Come hai detto che si chiama il libro?
Madia: il bello è il buono.
Italo: anche a me questo concetto piace. Pierre Gagnaire è uno dei nostri cuochi preferiti, veramente geniale. I suoi piatti sono in costante evoluzione, sa rimettersi perennemente in gioco.
Gli ultimi INNESTI
Riccardo: Italo è un maratoneta, io un centometrista, nel senso che mi stanco subito: non vorrei mai ripetere lo stesso piatto due volte. L’idea della pasta con coniglio e cozze la devo a una ricetta della Roma antica, di cui mi è giunta notizia per caso. A metterla a punto è stato Italo, che da bravo romagnolo vuole fare sempre le paste fresche, anche se in questo caso abbiamo scelto comuni spaghetti di semola.
Italo: ho proceduto per tentativi. Per quanto riguarda il coniglio ho optato per uno stracotto di spalla, perché è un taglio molto saporito e cotto in forno diventa come candito. Con le cozze ho cercato di ottenere una consistenza diversa, impanandole e friggendole, più il pesto di fiori di zucca sul fondo. All’inizio lo scetticismo era generale; lo abbiamo vinto quando Alessandro Tomberli, sommelier e direttore del ristorante, ha abbinato una birra alle castagne. Poi c’è l’uovo; abbiamo pensato di sfruttare la tecnica giapponese di cottura dell’uovo (che viene sotterrato vicino al monte Fuji alla temperatura di 65 °C nella terra sulfurea) per ottenere un uovo in camicia perfetto. Quando si fa l’uovo in camicia l’albume si sfilaccia sempre un po’. Noi lo cuociamo a 3/4, cosicché l’esterno si coagula leggermente e nell’acqua a bollore resta integro; poi arriva la terza cottura, perché l’uovo è impanato, fritto e servito con una grattata di tartufo.
Riccardo: recentemente abbiamo messo due tuorli d’uovo a marinare con la cannella e l’arancia, come fanno i giapponesi con il miso e qui da noi Carlo Cracco, ricavandone un uovo da spalmare. Perché le innovazioni oggi più che altro sono collegamenti inaspettate, sinapsi.
Un’altra idea che vorrei realizzare è un gusto a tre colori, anche se ancora non so bene che vuol dire. Poi c’è il piatto gastronomicamente scorretto, uno sgombro croccante passato al cannello ripieno di cavolo nero con polenta alle albicocche e una sferificazione ante litteram (le uova di pesce), per giocare un po’ sull’avanguardia. Che Adrià fosse un genio me l’ha confermato il suo modo di mangiare. Quando è venuto facevamo un piatto ispirato a una ricetta di mia nonna: degli agnolotti con ricotta, cannella, menta e zafferano. Ricordo che mangiava con la stecca di cannella sotto il naso, come nelle ricerche di Achatz per Alinea.
A raccogliere il testimone dalla Fanella è stato Luca De Santi, ultima iniezione di energia nel blend stratificato dell’Enoteca. Qualche anticipazione? “Abbiamo messo a punto un dessert a base di Champagne per le feste, con il tappo che scoppia. C’erano diversi mezzi per raggiungere questo effetto e ci abbiamo lavorato sopra”.