Al termine dell’anno che celebra i 150 anni dell’Unità d’Italia, la storia di una Nazione divisa dai mille piatti delle sue regioni e unita da alcuni fondamentali ingredienti.
Francia, castello di Fontainebleau, 15 giugno 1860, poco prima che il destino unitario si compisse. L’Imperatrice Eugenia, consorte di Napoleone III, in una serata di sciarade, presente l’attaché dell’ambasciata di Sardegna Costantino Nigra, allestisce un piccolo numero chiaramente indirizzato all’ospite piemontese. La sciarada in programma è indovinare il nome di Gargantua, il gigante gran divoratore, protagonista di un romanzo di François Rabelais.L’imperatrice fa mettere degli occhialini ad un invitato e gli dice: sarete il signor Cavour che è il Gargantua dei tempi moderni. All’uomo vengono servite delle pietanze tutte allusive alla politica espansionistica dello stato sabaudo: gorgonzola e stracchino (la Lombardia), parmigiano (il Ducato di Parma) e mortadella (l’Emilia), accompagnate dall’aleatico (Toscana).
L’uomo trova tutto eccellente, anche le arance…siciliane che gli vengono servite per frutta. Ma dopo le arance, ecco arrivare un gran piatto di maccheroni (Napoli). Qui l’uomo si schermisce: “Per oggi basta”, dice, “lasciatemeli per domani”.
Il messaggio sulla posizione della Francia riguardo alle mire savoiarde è chiaro: prendetevi pure la Sicilia, ma lasciate stare Napoli.
Il Nigra relaziona della serata al Cavour che, buon mangiatore oltre che politico, tenendosi alla metafora gastronomica, manda a dire all’Imperatrice perché intenda: I maccheroni non sono ancora cotti. Quanto alle arance che stanno già sulla nostra tavola, siamo ben decisi a mangiarle.
Così, quando i tempi saranno maturi per “papparsi” anche la parte peninsulare del Regno di Napoli, il Camillo Benso potrà scrivere: I maccheroni sono cotti, e noi li mangeremo.
Il 7 settembre dello stesso anno Garibaldi coronava la sua impresa entrando trionfalmente a Napoli, mentre il Piemonte sottraeva allo stato pontificio le Marche e l’Umbria.
Con questa gustosa storiella speriamo di aver contribuito a chiudere degnamente le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia.
Una dichiarazione ironica, naturalmente, perché in questa lunga occasione celebrativa durata quasi un anno, abbiamo malsopportato che molti ci raccontassero del dolce di cui era ghiotto il Mazzini, ci fornissero la ricetta del lesso rifatto consumato in piedi dal generale Garibaldi ed altre imperdibili notarelle sulle predilezioni a tavola dei padri della patria.
Fra quelli più studiosi, poi, c’è chi s’è speso per individuare i venti piatti (perché poi venti?) fondativi dell’Unità a tavola; quelli “costitutivi”, che hanno fatto l’Italia, immaginiamo. E ancora altri che hanno voluto caratterizzare la cucina italiana con cinque grandi P: Pasta, Pizza, Parmigiano, Pomodoro e Peperoncino; dove è evidente la sproporzione fra Nord e Sud del paese, o se vogliamo fra Italia continentale e Italia mediterranea. Infine, sempre sull’onda dell’esaltazione celebrativa, edicole e librerie si sono affollate di libri, manuali e libretti di ricette storiche, tutte autenticamente originarie, in una parola: italiane.
Beninteso, non militiamo nella schiera di coloro che invocano il separatismo, non siamo né leghisti e nemmeno neoborbonici, e comunque sia andato il processo unitario, con le sue connivenze, ruberie, saccheggi, sopraffazioni ed eccidi, bene, noi ci riconosciamo italiani e ci teniamo stretta questa Italia unita. Tuttavia, in margine alla speculazione neorisorgimentale sull’Unità d’Italia in cucina e a tavola, vorremmo aggiungere il nostro personale punto di vista con qualche documentata considerazione.
1886. Era passato giusto un quarto di secolo dall’avvenuta unificazione, quando il babbo di Pinocchio, Carlo Lorenzini, il più fortunato scrittore in lingua toscana delle nostre patrie lettere, manda alle stampe Il viaggio per l’Italia di Giannettino, un lungo servizio giornalistico, per dir così, conoscitivo sull’Italia.
Il Collodi fa l’inviato, viaggia per l’Italia e riferisce, nel suo stile garbatamente discorsivo e dialogante, dei paesaggi, delle città, degli abitanti e dei loro usi e costumi. Nel reportage ci sono anche interessanti note sul mangiare di strada e sui piatti tipici dei luoghi visitati; indicative per noi per comprendere il grado di conoscenza che nella giovane nazione si aveva delle diverse cucine regionali.
Viaggiando nel Sud, l’autore non nasconde la sua personale ripugnanza per la pizza con i pesciolini incontrata a Napoli, o quella provata in Sicilia per i fabbricanti di focacce, descritti unti e panciuti come tanti topi conservati sott’olio [che] piantano sulla strada i loro fornelli mobili, e i loro tegami d’intingoli, tutti impiastricciati e biancheggianti di lardo. Quando poi chiede cos’è la caponatina siciliana, la risposta è: “una specie di maionese”. E ancora, la cassata, vero trionfo e vanto storico dell’arte pasticcera dell’isola, per il toscanissimo Collodi diventa […] un dolce che somiglia a una stiacciata, tutta ripiena di ricotta con lo zucchero, di pistacchi e di amarena giulebbata, e coperta al di sopra di bellissime frutta candite. I mustazzoli (mostaccioli), infine, sono liquidati come pasticcini di rito natalizio “fatti di farina e miele”.
Da questa testimonianza, resa da un giornalista, un intellettuale, e per di più con un babbo cuoco, è evidente che a 25 anni dall’avvenuta, contrastata unificazione, gli “italiani” continuavano a non avere alcun idea di cosa mangiassero i propri compatrioti nelle diverse parti della penisola; e non ne avrebbero certo saputo di più leggendo le cronache del Collodi. Va ricordato che, anche dopo l’annessione al Regno di Sardegna, il nostro Bel Paese avrebbe conservato ancora a lungo differenti culture e tradizioni gastronomiche; ultima, ma non minore eredità storica della divisione in tanti stati-regione, così come decisa nel congresso di Vienna del 1815 dopo la caduta di Napoleone.
Prima di accennare alle tappe del lungo cammino d’avvicinamento ad un’idea sovra-regionale, approssimativa, di un codice cucinario nazionale, chiariamo subito che quella che si va formando dopo l’Unità è la cucina della “classe agiata”; quella borghesia risorgimentale, perlopiù cittadina, animata da spirito unitario e patriottico. Una cucina rappresentata dalle sue diverse espressioni regional-popolari, che altro non sono, come scrive lo studioso Piero Meldini, se non il prodotto recente […] della contaminazione fra i pochi piatti popolari delle occasioni solenni e la moderna gastronomia francese e francesizzante. A cui va aggiunto quel tanto che sopravvive della cucina popolare […] in quanto e come è stato filtrato dalla cucina borghese.
Dunque, la cucina del dopo Unità si avvia ad essere il prodotto di un meticciato fra preparazioni della cucina alta (quella dei ricettari dei cuochi di casata) ed i piatti popolari della festa, rielaborati nelle cucine di casa della buona borghesia, a misura dei suoi bisogni e, soprattutto, dei suoi valori, che sono, ricordiamolo: igiene, economia e buon gusto, ovvero “decoro senza apparire”.
Mangiare plebeo, cucina borghese e cucina professionale, sono ben descritti nella testatina di un periodico novecentesco, la “Rivista Italiana d’Arte Culinaria” (1905-1913), dove compaiono, nell’ordine: un primitivo cacciatore impegnato a cuocere la sua preda allo spiedo, due giovani donne che sfogliano riviste di cucina, ed il luogo deputato all’attività di un cuciniere professionale con tanto di tocco in testa.
Questi sono dunque i protagonisti, attori e comprimari, che di concerto provano a guidare gli italiani se non nella direzione di un comune linguaggio culinario, almeno di una conoscenza degli usi di cucina della neonata nazione.
Se per i mangiari plebei, quelli dettati dalla necessità e dalle sole risorse disponibili, non si può parlare ovviamente di cucina in senso proprio, essendo impraticabile una codificazione certa delle formule cucinarie, per quella borghese e alto borghese, numerosi sono i ricettari e i manuali a cui fare riferimento. Fra i più noti, pubblicati prima dell’Unità, ce ne sono di cucina lombarda, piemontese, romana, napoletana e uno più tardo genovese.
Ragioni di spazio c’impediscono di parlarne diffusamente, ma le date di pubblicazione da sole sono significative. Si va dal 1807, con un vero incunabolo della cucina napoletana, La cucina casareccia per istruzione di chi ama unire al gusto la economia, passando poi per Il nuovo cuoco milanese economico di Giovanni Francesco Luraschi del 1829 e La cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino, per chiudere con La cuciniera genovese di Giambattista e Giovanni Ratto del 1871, l’anno di trasferimento della capitale da Firenze a Roma.
Naturalmente, di ricettari dedicati alle cucine regionali se ne pubblicheranno ancora, coniugando, almeno nei titoli, regionalità e cucina familiare, vedi: Cucina di famiglia (1883), La vera cuciniera bolognese (1885), Il Piccolo Vialardi. Trattatello di Cucina per le Famiglie (1890) o ancora, per finire, Il cuoco per tutti, ovvero l’arte di mangiare al gusto degli italiani con cibi nostrali e stranieri del 1891.
Siamo così arrivati alla fatidica data di pubblicazione del celeberrimo manuale del Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, salutato come il primo tentativo di codificazione della cucina italiana e anche la “Vispa Teresa” delle famiglie italiane.
L’Artusi e il suo ricettario, che sembrano brillare come soli in un universo vuoto, non vanno separati dal contesto storico e sociale che ne motiva la nascita, oscurando o ignorando la presenza partecipativa di altri autori e testi, coevi o subito posteriori. Diciamo che il Nostro s’è trovato ad essere il più fortunato interprete del generale bisogno di una “certezza culinaria” espressa, insieme con quella linguistica, da parte della classe egemone del paese, e sentita come fondativa di un’identità nazionale. Ora, i contributi di quelle forze diverse che abbiamo indicato, impegnate nel comune sforzo di elaborazione (e rielaborazione) delle diverse espressioni delle cucine regionali, cioè gli chef professionali, le padrone di case ed i mangiari della cucina povera, trovano nel manuale dell’Artusi una prima, seppure lacunosa, selezione e sintesi.
Riconoscibile è il suo debito con la letteratura gastronomica storica, come rileva Piero Camporesi introducendo La Scienza in cucina nell’edizione Einaudi del 1970. Nelle ricette artusiane lo studioso riconosce imprestiti e citazioni che vanno dalla Singolare dottrina del Panunto (1560) a L’Apicio moderno di Francesco Leonardi (1790), al Cuoco maceratese di Antonio Nebbia (1783), all’anonimo Cuciniere all’uso moderno (1814), per finire al livornese Cuciniere italiano moderno (1832) e al Re dei cuochi di Giovanni Nelli (1868).
Per quanto riguarda, invece, il suo rapporto con quella cucina cucinata sui fornelli domestici, è sufficiente ripercorrere la storia editoriale dell’opera, che inizierà a riscuotere attenzione da parte del pubblico non prima della terza e quarta edizione apparse nel 1899. È noto che l’edizione originale del ‘91 contiene solo 475 ricette, che saliranno, edizione dopo edizione, fino ad arrivare a 790 nella tredicesima del 1909. Destinando le sue paterne raccomandazioni alle signore di casa, l’Artusi instaura con queste una fitta corrispondenza, accogliendo nel suo manuale le ricette che le gentili lettrici gli inviano da ogni parte della penisola.
Sul finire dell’Ottocento, rubando il mestiere ai signori cucinieri, le padrone di casa iniziano a scrivere manuali e libri di cucina. Sono i primi segni della cosiddetta femminilizzazione dei ricettari che continuerà fino ai giorni nostri. Il fenomeno si sviluppa con la nascita delle prime scuole d’economia domestica per l’istruzione delle giovinette da marito che devono conoscere tutto sul buon governo della casa.
Nel 1893 esce il Manuale di cucina per principianti e cuoche già pratiche della triestina Caterina Prato, la prima edizione, in lingua tedesca, è però del 1861. È un ricettario di cucina austriaca, ungherese e triestina: la cucina della mitteleuropa. Nello stesso anno, sotto lo pseudonimo Elleboro e Vitalba, Edvige Salvi, pubblica Signora e massaja, interessante volumetto con ampio ricettario, dove si discute della necessità che le padrone di casa debbano sapere di culinaria, non per cucinare loro stesse, ma per seguire e consigliare chi esegue materialmente la cucina. Seguono una lunga serie di titoli, fra i quali: Come posso mangiar bene? (1900) di Giulia Ferraris Tamburini, Il Libriccino di cucina popolare italiana (1904) di Angelica De Vito Tommasi, Dalla cucina al salotto (1905) di Donna Clara (Lidia Morelli), La piccola cuoca: consigli per una buona cucina casalinga (1909) di Lucia Petrali Castaldi. Ma seppure la distinta signora Luisa Pacchiotti Pomba, nell’edizione del 1896 dell’ “Almanacco Italiano” di Bemporad, dispensava pasta di Napoli con patate, latte bollito con castagne, polentina alla bergamasca, fegatini alla veneziana e gnocchi alla piemontese, resta fondamentale e insostituibile il contributo dei cucinieri alla codificazione delle formule cucinarie dei piatti tradizionali e popolari della cucina italiana.
Sul finire dell’Ottocento, e per tutto il secolo successivo, oltre ai libri a stampa nascono periodici di cucina come “Il Messaggero della Cucina” (1903-1943) e la già ricordata “Rivista Italiana d’Arte Culinaria” (1905-1913). Qui troviamo rubriche dedicate alla cucina familiare e casalinga e ampi spazi di dibattito sulla necessità di italianizzare la terminologia culinaria (allora tutta francese), sulla storia della cucina, sull’investigazione e riconoscimento dei piatti tipici regionali.
Sono riviste di settore, vere palestre per cucinieri professionali, ma anche per storici ed eruditi come Alberto Cougnet, il primo ad aver descritto nel 1902 l’Italia dei prodotti tipici in una “Mappa alimurgica dell’Italia”. Tre anni più tardi, nel suo poderoso volume Il ventre dei popoli, il Cougnet dedicherà un intero capitolo alla cucina e alla cantina italiana, segnalando, regione per regione e paese per paese, i principali prodotti, specialità e preparazioni culinarie. E fra tante firme maschili, nella stampa periodica di settore stupisce un’autorevole presenza femminile, quella della signorina bolognese Maria Dall’Olio, che gareggia per competenza con gli stessi professionisti dei fornelli.
Mentre tutto questo accadeva nella società civile, nelle istituzioni, a corte per intenderci, l’Italia, la lingua e la cucina italiana, tardano ad essere riconosciute. Ancora fino al 1908 nei menù ufficiali viene mantenuta la lingua francese e figurano solo piatti ispirati alla haute cuisine d’oltralpe.
Sembrerà paradossale, ma con i cuisiniers francesi noi abbiamo comunque un debito per la conoscenza dei nostri piatti tipici locali. Nel 1904, in occasione della visita ufficiale in Italia del presidente francese Emile Loubet, la prestigiosa rivista “L’Art Culinaire”, fondata nel 1884 da Auguste Escoffier, pubblica un numero speciale dedicato alla cucina italiana, evidenziando simbolicamente in una cartina della penisola i prodotti e le specialità regionali. Nel 1903, sempre sul periodico francese era uscito un lungo servizio su “Rome Gourmande” che, con “Florence Gourmand” del 1904, relazionano dettagliatamente sui piatti tipici, sull’offerta dei mercati e dell’ospitalità nelle due città. Questo accadeva in forza della superbia francese, che portava “i berretti bianchi” transalpini a guardare alle altre cucine con l’atteggiamento studioso proprio di etnologi, giacché la cucina italiana rimaneva, al pari di quella cinese o tailandese, una “cucina etnica”, appunto.
Alle soglie del primo conflitto mondiale, definito non a caso la quarta Guerra di Indipendenza, il processo unitario doveva ancora compiersi. Ed è forse nella babele dei linguaggi delle trincee, davanti alle gavette del rancio, che il calabrese e il veneto, il molisano e il sardo si sarebbero per la prima volta incontrati, riconoscendosi, magari, usi e costumi alimentari diversi.
Solo due anni prima, nel 1913, a testimoniare quanto ancora l’Italia fosse lontana da un linguaggio comune, unitario in cucina, vale quello che scriveva su “Il Messaggero della Cucina” Roberto Radogna, cultore di questioni gastronomiche: l’Italia è fatta; gli italiani si stanno facendo; la cucina italiana si deve fare.