Nouvelle cuisine del III° millennio a Carpaneto Piacentino
A chi appartiene la Nouvelle Cuisine? Il brand è controverso, il copyright conteso, l’attribuzione giudiziale ancora e sempre in alto mare. Pure Ferran Adrià lancia la sua opa: “nueva nouvelle cuisine”, e il numero di Gault e Millau, con il decalogo inciso nella pietra, lo conserva con la gelosia di una reliquia. La rivoluzione sarebbe figlia degli anni ’70, la fusion e la molecolare declinazioni di quella voglia di osare. Bocuse, Chapel, i leggendari frères Troisgros: enfants terribles al pari di Ferran, Heston e i loro camici sperimentanti.
Daniele Repetti al Nido Del Picchio preferisce rispolverare l’accezione originale: per lui nouvelle cuisine vuol dire semplicità, prodotto, cotture espresse, pochi elementi sul piatto, qualche volo pindarico ma nessun Icaro, per carità. E poi una cucina del mercato che dai banconi attinge i prodotti, ma aggirandosi fra le bancarelle drizza le orecchie verso i rumours dei venditori e gli schiamazzi delle massaie. Perché la nouvelle cuisine è sempre qui e adesso, e nel menu si insinua qualche spagnolismo di straforo. Un pizzico di xantana qua e là, spume di pecorino e qualche prestidigitazione in stile Bulli & Pupe. Come l’inversione fra l’esterno e l’interno del timballino di parmigiano reggiano con cuore liquido di aceto balsamico. Cucina del Mercato è anche farsi spettinare dal venticello che sguscia fra le schiene in fila.
Prima di volare nel 2004 sul suo Nido del Picchio, in quel di Carpaneto Piacentino, la precoce vocazione di Daniele si è affinata all’istituto alberghiero di Salsomaggiore, al fianco di un grande professore, Giovanni Fanzaghi (“della professione mi piaceva prima di tutto l’idea dell’avventura, la possibilità di viaggiare”), e si è cementata nell’arco di 3 intensissimi mesi spiando Georges Cogny il versagliese. “Avevo appena quindici anni, ricordo il modo in cui puliva la faraona con lo spelucchino: una meticolosità inimmaginabile. Passione, professionalità, curiosità. Mi ha mostrato una cucina diversa e ha avuto il grande merito di fondare una scuola, che oggi comprende Isa Mazzocchi, Filippo Chiappini Dattilo, Carla Riva, Massimo Bottura”.
Al ristorante Toulà di Milano incrocia Daniel Droiden, già chef di Marchesi in Bonvesin de la Riva; e nella stessa catena deluxe, pioniera del catering e ambasciatrice della gastronomia delle Venezie, è per la prima volta capocuoco a Roma, dove conosce la bella moglie Lucy, figlia di Albione che, da fiorista, si metamorfosizza in vestale della sala. Del Veneto restano tracce anche quando muove verso l’Enoteca di Bobbio e l’Hostaria del Mercato di Carpaneto: soprattutto nell’amore per il quinto quarto, concentrato di gusto e di textura, e nella predilezione per il pesce, “l’ingrediente che conosco meglio”.
Mettiamo piede allora in questa villetta alle pendici dei Colli Piacentini, profluvio barocco di tendaggi, drappeggi e specchiere, perché Daniele è uno che ancora si emoziona infilando le ginocchia sotto alle tavole classiche. Una ventina di coperti sono serviti da Lucy e dal sommelier Piero Brunelli, mentre dietro le quinte Daniele, solista della grande cucina, è affiancato dall’aiuto e lavapiatti Carlos, uruguayano, da tre anni al suo fianco. “A noi piace coccolare l’ospite, per questo al suo arrivo, insieme al burro montato con un goccio di balsamico, offriamo una serie di stuzzichini e anche un’entrée”.
Gli amusebouche sono una via delle spezie: olive nere alla vaniglia, fegato all’anice stellato, pralina di maiale e zenzero. L’entrée del momento, un salmone ingentilito dalla leggera affumicatura e dalla scottatura al vapore, la cui sapidità, data anche dai cristalli di sale sul lato di appoggio, viene bilanciata dalla composta di pomodori verdi e legata dall’olio al prezzemolo.
I due menu a 65 euro sono composti di 5 portate di terra o di mare.
Mentre la carta offre la scelta fra 9 antipasti, dalla scaloppa di foie gras con composta di mele cotogne e aceto balsamico tradizionale (22 euro) al grande crudo di pesce e crostacei (38 euro), alla trilogia dei salumi: il culatello di Stefano Campanini (14 euro), la coppa piacentina di Paolo Morini (12 euro), la mariola dei fratelli Salini (12 euro). E ancora le capesante al burro di cacao, quasi bruciacchiate e dopate di iodio da alga dulse, accompagnate dalla purea di sedano rapa (20 euro). Più che un dittico mari e monti, mineralità sfaccettate e trasversali, legate dalla tostatura estrema delle noci.
Piuttosto classici i 7 primi, di prezzo variabile fra 15 e 18 euro, fra cui risalta il tortello di rapa rossa con fonduta di parmigiano, aceto balsamico tradizionale e pinoli tostati (15 euro), dove la spirale agrodolce dei sapori si avvolge attorno al filo empireumatico della frutta secca, chiave di volta del piatto. Sono un ottimo lasciapassare per le 8 pietanze, 5 di pesce e 3 di carne, di prezzo compreso fra 20 e 24 euro. La scaloppa di cernia leggermente affumicata con spinaci, carote all’arancia e polvere di pomodoro (foto 1) valorizza la dolcezza del contorno mediante la leggera vetratura tannica della verdura (24 euro), con la concorrenza del piccione di Greppi cucinato con mirtilli e ginepro (22 euro) e del fegato di vitello con dolce forte di cipolle rosse e sfoglia di polenta (foto 2) (22 euro), un ricordo del Toulà. Piatti nei quali si rincorrono le note tostate e di fumo, che spingono verso l’alto gli ingredienti nella spirale ascendente della loro agilità.
Nel complesso, una cucina di prodotto e d’autore, italiana o forse franco-italiana, che nella materia prima non cerca il chilometro zero ma la massima qualità e il colore preciso per le sue pennellate. I 7 dessert a 12 euro, dal classico gelato alla crema con aceto balsamico tradizionale al gelato di foie gras con lamponi e sfoglia di cannella, sono accompagnati dalle grandi Malvasie piacentine e da calici ad hoc (ma la cantina guarda fisso in Borgogna, passione bianca e rossa dello chef). Trattamento speciale per i più piccoli, che si guadagnano un menu in 4 portate (20 euro) e un librino in omaggio da colorare al tavolo.