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Alessandra MeldolesiÈ un bell’esempio di evolutionary revolution, il ristorante Andreina di Loreto. Sbocciato dai primordi della ristorazione professionale al rinascimento della nuova cucina: una storia italiana col lieto fine in bocca. Le sue primavere oramai sono oltre cinquanta ma la stella Michelin è nuova di zecca, all’anagrafe novembre 2012. Il giusto premio a una contemporaneità che declina la tradizione in modo nuovo. Perché il futuro è sempre il futuro di un passato, come ammoniva Edmund Husserl.
Errico Recanati però non assomiglia affatto al nano della celebre metafora, né la nonna Andreina al gigante sulle cui spalle dovrebbe accomodarsi per scrutare lontano. Questo ragazzo robusto e gioviale è piuttosto un maratoneta sopra gambe scattanti e proprie, nel petto il fuoco della passione culinaria, non meno sacro delle fiamme che lambiscono le vittime sacrificali sullo spiedo.
Già, il camino: è davanti a quell’incantesimo che la microstoria famigliare dei Recanati ha bruciato le tappe. Alle origini lei, Andreina, rampolla di una famiglia contadina improvvisatasi cuoca per caso. “Facevo la sarta, ma coi contadini si guadagnava poco”, racconta. “Quindi ho aperto un negozietto di alimentari in casa dove vendevo un po’ di tutto: generi alimentari, bottoni, conserve, olio, sapone; uno spaccio insomma. Nel frattempo mio marito Bruno, che era bello come Amedeo Nazzari, andava a lavorare a Castelfidardo nell’industria delle fisarmoniche. Se le dico che non ho imparato a cucinare da nessuno, ci crede? Perché da mia madre si mangiava ben poco.
La cucina vera è arrivata a sorpresa: in questo negozietto capitavano 3 o 4 benestanti che scendevano da Loreto per fare la loro merenda. Mio suocero teneva due maiali qui davanti al ristorante e faceva ottimi salumi. Ho cominciato a cucinare perché questi signori volevano panini. Un giorno mi dissero: ‘Ma signora Andreina, se qui non ci fa un posticino per mangiare non veniamo più’. Io allora: ‘Va bene’, perché c’era un piccolo garage. Fra di loro c’erano anche alcuni cacciatori, perché questa zona è ricca di selvaggina; ebbene mi dissero: ‘Ma senta Andreina, perché non ci cucina gli storni? Li portiamo noi’. ‘Ma io non li ho mai fatti’. ‘Non si preoccupi, qui c’è un bel girarrosto, noi glieli portiamo puliti e lei ce li cucina’. E la volta dopo fu questione di tagliatelle. È così che è incominciato tutto quanto”.
Oggi Andreina si gode la sua meritata pensione, non senza avere trasmesso al nipote il suo know how integrale, dal senso del gusto alle contrattazioni al mercato, all’inestimabile capitale dei profumi ancestrali, attraverso un durissimo apprendistato quotidiano. Dopo avere esordito in sala a 25 anni, Errico, un autodidatta che si immaginava veterinario, si è rapidamente convertito alla cucina. “Da piccolo volevo stare sempre attaccato alle sottane della nonna, la mia mamma adottiva”, racconta. “Poter rifare il ragù come me lo ha insegnato lei, cambiando le carni, il modo di cottura, le tostature, ma sentendo gli stessi profumi: ecco il risultato che cerco. In questo senso credo che la mia cucina abbia un’impronta profondamente femminile. Quando andavo a mangiare da Mauro (Uliassi) o da Moreno (Cedroni), tornando qua sentivo grandi profumi ma mi sembrava che mancasse qualcosa, la ricerca sull’estetica, l’affinamento; per questo ho deciso di girare, sperimentando da Leemann e da Gianfranco Vissani, il mio maestro e, secondo me, il primo cuoco d’Italia. Mi ha trasmesso il gusto della ricerca e il massimo rispetto della materia prima, il senso dell’autocritica e la cura del ristorante. Poi è una grandissima famiglia, un po’ come noi”. Quello di Enrico è un altro nome che si aggiunge quindi alla già nutrita generazione Vissani, in compagnia di Marcello e Gianluca Leoni, Riccardo Agostini, Alessandro Boglione.
Tre anni fa si è svolto un altro incontro decisivo, quello con Victor Arguinzoniz, l’artista basco della griglia d’autore, che ha inoculato in lui nuove suggestioni. “Da me però la replica non ha cittadinanza; ho persino disattivato la funzione copia e incolla dal tablet”, scherza Errico. Sta di fatto che i due binari del ristorante, la tradizione e la contemporaneità, stanno trovando una sintesi proprio nella ricerca sulla brace, un’archeologia del futuro dalle potenzialità di scavo sterminate. “Il mio sforzo oggi è quello di fondare tutto sullo spiedo, che interviene praticamente ovunque. Anche nelle cipolle del brodo per i ravioli di fagianella e fegato grasso, che vengono cotte sotto la cenere. Sono 39 anni che vedo girare qualsiasi cosa sopra quel fuoco: capretti, maiale, selvaggina; ed ho capito che può essere uno strumento formidabile per valorizzare materie prime importanti, da raffinare perfezionando il controllo delle temperature. Perché io sono fatto così: quello che esce dalla mia cucina deve essere in primo luogo buono, e poi bello e ricercato. Sempre in progress”.
Il locale nel frattempo è cambiato ben poco. Le salette sono 3, con lo spiedo in evidenza e un piacevole giardino esterno, per un totale di circa ottanta coperti, nel calore di arredi in legno e pavimenti in cotto che fanno eco alla solidità della carta, senza mai indulgere alle oleografie nostalgiste. La scelta è golosa: ci sono gli gnocchi di patate viola farciti di lepre al salmì, cui il tubero regala un retrogusto di castagna quanto mai opportuno per completare le sensazioni autunnali del selvatico e una testura fondente ideale. Ma anche il fegato grasso in una cottura sperimentale sotto la brace, a bassissima temperatura, che viene sposato a sorpresa al territorio, paraninfi il pane a lievitazione naturale, le alici di San Benedetto e le erbe di campo in varie consistenze. Oppure lo scampo spadellato che rincorre il filetto di lepre nello spazio utopico del piatto, trait-d’union una classica bisque, in contrasto termico e gustativo il gelato salato alla senape. Fra i dolci, anch’essi passati per il battesimo del fuoco, la zuppa di ananas cotta sotto la cenere con gelato di caprini marchigiani ricoperto di finto carbone (in realtà un crumble al nero di seppia). Piatti che confluiscono in 3 menu degustazione dai prezzi decisamente friendly: il menu “Ave propone” consta di 7 portate più piccola pasticceria a 45 euro; quello “Errico propone” costa 20 euro in più ed è consacrato alla ricerca in fieri, quale strumento per testare le reazioni dei clienti alle nuove proposte; mentre il menu “Tutto spiedo” viene 50 euro.
Le materie prime sono selezionate da Errico con una particolare sensibilità per il biologico, la cacciagione e le erbe selvatiche della zona, mentre galline e capponi sono prodotti in proprio. La sfoglia è tirata a mano e il pane, lievitato con la pasta madre, è fatto in casa. Nel cestino finiscono in tutto 5 varietà, cui si aggiunge la pizza marchigiana con i ciccioli, preparata con farina di mais e fiamme vive.
La cantina e la sala sono curate da Ave, figlia di Andreina e mamma dello chef, sommelier professionista e figlia d’arte di Bruno, insieme alla moglie di Errico, Ramona Ragaini, che sta ultimando i corsi AIS. La loro carta conta circa 450 etichette, con tanto territorio e una selezione di eccellenze nazionali e internazionali. Si punta sui prodotti più curiosi e di nicchia, anche naturali. “Perché custodiscono ricordi ancestrali come la nostra cucina, e perché c’è un lavoro in vigna da valorizzare”, commenta Ramona. “Sulle carni allo spiedo occorrono rossi dai tannini importanti, quindi vanno benissimo i nostri Rosso Conero e Rosso Piceno. Mentre i piatti più creativi, che sono contrastati ma delicati, sposano bianchi importanti, per esempio un Verdicchio. A livello di distillati stiamo cercando di promuovere il nostro fiore all’occhiello, il Varnelli. Sia in cucina (Errico prepara una faraona ripiena di pere con cioccolato e Varnelli) che come digestivo a fine pasto”. RISTORANTE ANDREINA
Via Buffolareccia, 14 – Loreto
Tel. 071.970124
www.ristoranteandreina.it
info@ristoranteandreina.it