Non sarebbe forse l’incipit migliore per un pezzo, la consueta geremiade su quanto sia stata avara fino a poco tempo fa la piazza di Bologna, forse la più statica tra le grandi città italiane. Sta di fatto, tuttavia, che ci sono voluti quattro anni affinché il coperchio pesante del silenzio cominciasse a sollevarsi dalle pentole di Alessandro Panichi, instancabile nel resort della famiglia Caselli a Borgo Panigale, passato il ponte sul Reno e uno stillicidio di semafori severi. Alle spalle il brulichio cementizio dell’abitato, in una periferia quotidiana senza troppe pretese; di fronte lo srotolarsi verde dei prati, che pian piano ingaggiano la loro dolce risalita sui colli. La location si incunea nella cerniera fra due realtà cittadine e la percorre in entrambi i sensi, un po’ natura e un po’ metropoli, anche se l’edificio è soprattutto storia.
Risale alla fine del XVI secolo, infatti, Villa Aretusi, residenza del pittore tardo rinascimentale, il cui nome è giunto ai posteri sulle antologie e sulle guide turistiche, sotto le riproduzioni degli affreschi nella cattedrale di Bologna. Né manca qualche ritratto che ce lo restituisce nella sua presenza austera, con i mustacchi e il pizzo d’ordinanza, così simili a quelli dello chef che oggi percorre i suoi stessi ambienti. Le camere sono una decina, più gli spazi per gli eventi e i congressi. Laddove si immaginerebbe lo studio del pittore, zeppo di modelle e cavalletti, i tavolini pronti a ricevere gli ospiti della trattoria, al piano terra, e del ristorante gastronomico, al primo piano.
Si chiama Sotto l’arco, per citare la porta antica e maestosa, sopravvissuta alla recinzione della villa, che ne incornicia la sagoma dalla strada, allontanandola in una dimensione un po’ fantastica, soprattutto quando vi si insinua una nebbia fitta. Un tempo la percorrevano i calessi, rifiniti di paratie dall’immaginazione; mentre oggi vi transitano talento e cultura gastronomica. Perché Panichi è uno dei cuochi più titolati della sua generazione e sul curriculum racconta il romanzo della cucina italiana: da Marchesi a Paracucchi, da Paolo Lopriore al Pescatore.
I natali sono a Sarzana, in una Liguria un po’ meticcia, imbastardita dalla vicinanza con l’Emilia e la Toscana, dove lo iodio si stempera nella balsamicità dell’Appennino e accarezza i salumi appesi nelle cantine. “Ma in casa mia non c’era nessuno del mestiere; l’unico che aveva la passione era mio nonno, che si divertiva a cucinare per tutta la famiglia. Sarà stato probabilmente il suo esempio a farmi sognare, tanto che fin da piccolo la mia vocazione è stata chiara. ‘Cosa vuoi fare da grande?’. ‘Il cuoco’. Quindi l’alberghiero e le prime stagioni in giro, fra cui, decisiva, quella al Saraghino di Numana con Massimiliano Emiliozzi e Roberto Fiorini. Il primo posto che mi ha fatto sbattere sulla ristorazione gastronomica, con il suo rigore e i ritmi assurdi di lavoro. Da quel momento in avanti ho avuto un solo obiettivo: Gualtiero Marchesi, che per me era un icona da poster, qualcuno di irreale”.
Lo avvicina con la mediazione di un paio di allievi: prima Antonio Ghilardi del Papillon di Torre Boldone, poi Marco Fadiga alla Pernice e la Gallina. “Un ristorante che ho vissuto come se fosse casa mia: ho iniziato pulendo lo spazio fra le mattonelle con lo spazzolino, in ginocchio, e ho finito per trascorrerci quattro anni, finché un giorno non sono tornato alla carica. ‘Quando mi mandi da Marchesi?’. Così Marco è partito per l’Albereta con una lettera segreta e poco dopo sono stato chiamato”.
A quei tempi lo chef faceva di nome Lopriore: “Un fulmine. Lasciava tutti basiti con le sue illuminazioni”. Tre mesi di stage, un anno di lavoro e glielo scippa un altro rampollo della generazione Marchesi: Silvio Salmoiraghi, “il più bravo sulle carni”. A Parigi, nel suo Lotti, passano sette mesi. Ma fra un’esperienza e l’altra si incuneano altri nomi eccellenti: Filippo Chiappini Dattilo, Enrico Crippa, Carlo Cracco e Matteo Baronetto, perfino Antonio, Nadia e Bruna Santini. I successivi tre anni sono per la Locanda Mongreno, dove con Pier Bussetti conquista la stella e familiarizza con le tecniche spagnole. E ancora la Locanda dell’Angelo, vicino a casa, dove Stefano Paracucchi gli mette a disposizione quaderni e ricettari del padre. “Ricordo che partiva sempre dalla qualità del prodotto: un grande insegnamento”.
Il passaggio Sotto l’Arco è datato 2011: per Panichi equivale a un rito di passaggio nel ruolo di autore. All’inizio in continuità relativa con la cucina di Pier Bussetti e le sue pirotecniche avanguardiste, poi con svolgimenti più classici, nei quali riemerge un’impronta marchesiana fatta di eleganza e sfumature gustative. Ma l’ultima carta stupisce con ricette contemporanee, nitide e puntute nell’incrociare gusti primari, spesso crudiste o comunque contraddistinte da elaborazioni minimali, secondo le tendenze oggi in voga. Particolarmente friendly i prezzi: 5 portate, più stuzzichini e piccola pasticceria, costano appena 45 euro; 7 una banconota da 5 in più. Poi c’è il menu al buio, la cui composizione, tagliata con forbici sartoriali sulla tipologia del cliente, è a discrezione dello chef, con fuori carta secondo le disponibilità del mercato e un costo di 70 euro. Ma il giovedì a pranzo c’è anche una formula da non perdere: porta il nome ironico di “menu turistico”, con il prezzo barrato a 35 euro come si farebbe in una bettola, ed elenca le specialità cittadine, rivisitate col sorriso. La delicatissima terrina di bollito con gelato di friggione, aria al verde e purea di limone, per cominciare, dalla stupenda testura fondente; gli altrettanto eleganti tortellini né panna né brodo, crasi di due preparazioni tanto familiari quanto inconciliabili nell’immaginario del gourmet, con il brodo di cappone ridotto dieci volte e montato alla panna come una salsa; la geniale tagliatella al ragù crunch, essiccato in forno fino a ottenere un crumble di umami, dove la pasta è saltata con il grasso del sugo; il tortellone invidioso ripieno degli elementi della lasagna, besciamella e ragù, condito con polvere di Parmigiano; la cotoletta alla petroniana proposta come una battuta in carrozza dentro fette di pane, sotto forma geometrica, e per finire una torta di riso racchiusa fra molte virgolette, a mo’ di pancake con gelato di mandorla amara e lamina di caramello.
Fra i piatti di ispirazione più classica, in prima linea le riletture, spesso affrontate con lenti crudiste e giocando sul contrasto fra temperature. Vedi l’elegantissimo civet di cinghiale, con la carne cruda di un animale giovane tagliata a carpaccio, la salsa classica di un esemplare più vecchio, il gelato degli aromi di rito, alloro e ginepro, più una chips di polenta. Oppure il baccalà come se fosse alla vicentina, la cui ricetta originale, ricostruita grazie alle dritte della mamma di un cuoco, viene scompaginata senza stravolgerne il gusto. Sul piatto il filetto appena infarinato e spadellato viene affiancato da una cialda di polenta soffiata e da una spuma dolciastra di cipolla; su un lato il gelato ricavato invece dai ritagli, elaborati secondo la filologia vicentina e semplicemente pacossati. Dove ancora una volta a risaltare è il prodotto, ritratto con pennellate marchesiane nella separazione degli ingredienti e nella soavità gustativa.
Più contemporanei, invece, piatti come la zuppa di mandorle con sgombro affumicato, puntarelle e caviale, bellissima geometria di gusti sapidi e amari ammorbidita dalla dolcezza della frutta secca e dalla morbidezza delle testure; oppure la canocchia servita cruda, appena massaggiata in extravergine ligure, sopra la foglia di radicchio con bottarga e lampone, da sgranocchiare a mo’ di finger food: anche qui un match teso fra gusti primari: l’amaro vegetale, la dolcezza dei frutti di bosco e del crostaceo, l’umami della bottarga, l’acidità sfacciata della goccia di aceto di lamponi misto ad aceto di mele.
Al fianco di Panichi, in sala e in cantina, c’è una spalla solida: quella di Giuseppe Sportelli, già maître e sommelier della Pernice e la gallina, abilissimo nel rinfocolare la nostalgia di grandi classici come la lampada. “Mio padre era ristoratore, ma scelse di mandarmi in giro a fare la gavetta nei grandi ristoranti e nell’hôtellerie, dove ho imparato regole e riti di un servizio scomparso. Erano i tempi delle pirofile con la cloche, il cui contenuto veniva sporzionato al guéridon. Prima che arrivasse la nouvelle cuisine con la sua ricerca estetica sull’impiattato. Ma ho fatto anche un po’ di estero, ho insegnato e perfino gestito un negozio di pasta fresca”. Migliore maître d’Italia per l’associazione MIRA nel 2002, maître dei maître nel 2005 e quarto ai mondiali del 2007, accende tuttora il fornelletto in sala per piatti come la sogliola alla mugnaia e le susine flambate al whisky su polvere di noci. Amministra una carta dei vini da 400 etichette, ricca di riesling, bollicine italiane e francesi, abbinamento elettivo della cucina.