È passato più di un secolo da quando a spurcacciun-a, “la sporcacciona” eponima, la scignua Paola, puliva i fagiolini facendo il pediluvio in trattoria e da allora ne sono successe di cose sotto questa storica insegna ligure: negli anni ’60 il trasloco presso il Marehotel, orchestrato dalla figlia Giuliana, con tanto di spiaggia privata; poi l’avvento della terza, splendida generazione di Pervinca e Claudio Tiranini, forza concreta alla contabilità e irresistibile creativo; due stelle guadagnate e due volte perse, come è successo raramente nella storia Michelin, forse mai; di recente la quarta generazione che si profila, con Alberto, Alessandro e Valentina, appassionatamente sparsi fra sale e cucine.
Infine la scomparsa di Claudio lo scorso anno: un uomo carismatico ed esuberante, non solo chef, ma sommelier, architetto e amante del bello senza remore. Il mare nelle vene non solo dietro il pass, ma cavalcando fino all’ultimo il suo amato kitesurf, virtuosisticamente in equilibrio fra onde e vento, mare e aria. Prodotto e immaginazione.
La transizione era già iniziata da qualche anno, quando aveva deciso di uscire dalla cucina, forse amareggiato dal declassamento subito.
Ed è stato allora che si è imbattuto nella persona giusta: Simone Perata, giovane chef che gli sarebbe subentrato.
Oggi trentaquattrenne, Perata aveva scoperto la cucina un po’ per caso, mentre studiava da geometra: allora un suo compagno di classe gli aveva proposto di fare qualche stagione nell’albergo dei suoi a Celle Ligure. Un lavoretto come tanti, insomma.
Cosicché era stata grande la delusione, quando deciso a intraprendere la carriera militare in marina, era stato arruolato come cuoco alla guardia costiera di Savona. “E invece è stato un colpo di fortuna, perché ho scoperto che la mia vera passione era fare da mangiare”.
Fra gli ufficiali c’era il fratello di Riccardo Ferrero ed eccolo al Cambio per la prima esperienza in un ristorante strutturato, al fianco di uno chef dalla “bella mano marchesiana”.
Poi subito la Spurcacciun-a nel 2008-2009, con Claudio all’apice della sua vigorosa espressione. “E con lui ho imparato cosa significhi davvero ‘materia prima’: non ho più visto niente di simile, nemmeno nei tre stelle. La sua ossessione era offrire ai clienti ciò che avrebbe voluto mangiare e io scherzavo: ‘Ma chi sei, la regina d’Inghilterra?’.
Quindi tutto pesce praticamente vivo, cucina ligure, ma anche tanto crudo, prima che diventasse un cliché, una semplicità dai sapori riconoscibili.
Diceva di essere nato sotto un forno, ma aveva fatto le sue esperienze, in Francia con Roger Vergé, in Italia con Marchesi e Paracucchi, per poi girare e mangiare dappertutto”.
“Io però ero giovane e avevo fame di crescere.
Quindi sono andato da Canzian al Marchesino e anche un po’ all’Albereta nel 2009-2010. Ed è stata un’altra bella scuola: ho iniziato a fare pasticceria, di cui sono appassionato, e panificazione, perché avevamo anche la caffetteria e il bistrot.
Poi è successo che Marchesi quelli ‘bravi’ li mandava in Francia e ho avuto l’opportunità di proseguire al Taillevent di Alain Solivérès, dov’ero in brigata con Edoardo Fumagalli. Mi sono fermato quasi due anni ed è stata l’esperienza che forse mi ha segnato di più come cuoco e come uomo, per l’intensità impareggiabile di quelle cucine, che potevano essere durissime.
Per me la Francia è imparare a cucinare e prendere in mano una padella, capire come, quando, con quali gesti, fino a che punto di cottura. La vera tecnica, ben più ardua di quella spagnola, per cui basta un bilancino. Facevamo novanta coperti a servizio, tutti à la minute. Per me lui resta le chef”.
“Dopo avere acquisito le giuste basi à l’ancienne, però, desideravo un’esperienza più moderna e sono finito al Lasarte di Barcellona con Paolo Casagrande e Martin Berasategui, dove mi sono fermato quattro anni da capopartita, con la soddisfazione di conquistare la terza stella, che abbiamo festeggiato fino all’alba.
Nel 2017 avevo già in animo di tornare in Italia per prendere in mano un posto mio, sono rientrato a Savona in vacanza e passando a salutare Claudio, questi mi ha mostrato il progetto della nuova cucina, bellissima. Non avrei accettato di fargli da secondo, ma lui voleva smettere. Così, dopo qualche mese di lavori, a metà 2018 ho intrapreso una transizione graduale. Entravo in un ristorante dalla storia secolare, la cui clientela era abituata a una cucina più semplice, da ‘trattoria di lusso’. Alcuni clienti, gli irriducibili della zuppa e della frittura, non sono più tornati. Ma il primo anno c’erano ancora il pesce al forno e al sale, con il bancone per l’esposizione”.
I coperti si sono quasi dimezzati, fino a un massimo di 45. D’estate magicamente vista mare, d’inverno nella sala con le luci pulsanti come stelle, davanti alla fiammante cucina aperta Marrone, bordata di pietra nera (senza fughe per volontà di Claudio, ossessionato dalla pulizia), dai cui materiali di sfrido sono state ricavate le piramidi per le alzatine. Sotto reca la sua impronta di architetto anche la cantina scenografica, con i tavoli che si sollevano dal pavimento e il mosaico di quasi 900 referenze, fra cui tante verticali di pregio, amministrate dal sommelier Mattia Valentino: Italia e Francia, Champagne ma anche bottiglie curiose per tutte le tasche. C’è continuità nell’eccellenza della materia.
Le verdure arrivano da produttori liguri, fino alla zona di Albenga, come Calcagno per il basilico di Pra’ e un contadino a tre chilometri dal ristorante; il pesce da Morenpesca. Poi ci sono i gamberi viola di Sanremo, leggermente più grandi degli omologhi di Santa Margherita, che vengono ritirati ogni giorno: la barca, munita di macchina per il ghiaccio da acqua di mare, arriva alle 18 e 30, in tempo per caricare e rifare cento chilometri. Fra le carni il piccione Moncucco e il coniglio grigio di Carmagnola.
I menù sono due: Bassa e Alta Marea, rispettivamente a 120 e 140 euro, più la carta che lo chef definisce “di mare e non di pesce, perché anche un porcino qui ha un altro sapore”. Sono composti classicamente in crescendo, dal crudo al cotto, dal pesce alla carne, dagli ingredienti più delicati a salire.
La Liguria è ben presente, nell’ingredientistica e talvolta nel repertorio, sottoposto a estrosi divertissement, su una base di cucina classica che però si apre al mondo. Perché Perata si è formato con i suoi maestri, ma anche con i suoi colleghi, al sushi bar della Spurcacciun-a, dove da sempre transitano cuochi del Sol Levante e abbondano prodotti esotici, come nelle brigate degli stellati, mosaico di nazionalità. “Qui devi capire che ti trovi in Liguria, per poi ripercorrere il mio background”.
A preparare lo stomaco, dopo gli appetizer, sono l’extravergine da olive taggiasche Elena Luigi nella selezione della casa (le cui microlattine con menu vengono omaggiate agli ospiti) e il burro composto, con pomodoro e origano oppure katsuobushi.
Nel cestino del pane grissini, pane sfogliato alle olive taggiasche, focaccina classica ligure e pagnotta al lievito madre e burro.
L’abbrivio è una spuma di peperone rocoto, polposo, dolce e piccante, con le cozze condite come ceviche, un’insalatina di alghe brasiliane croccanti (portate a Savona da Claudio, che là praticava il suo amato kitesurf) e il gelato alle olive taggiasche per un match di sapidità, acidità e piccante. “I messicani insegnano che per tamponare il peperoncino, servono il pane o il latte. Ed ecco il gelato”.
Le memorie dello chef Tiranini proseguono, subliminali ma assidue e toccanti, nel “kitsch tea”, sorta di microteiera con tazza da Bianconiglio, adocchiata a suo tempo da Claudio, che Perata ha messo un po’ a far sua.
Oggi la impiega per mini tortellini alla nocciola tonda gentile serviti in una zuppa di miso tradizionale giapponese, che s(tra)volge il tema della pasta ripiena in brodo: dove la nocciola esalta la dolcezza del condimento giapponese, che sprigiona il suo umami complesso.
Il piatto più minimalista del percorso, centratissimo.
Fa attenzione a non pestare i piedi al prodotto, il gambero viola tango atteso: viene servito con la testa fritta, diversamente da Bartolini in posizione verticale nella friggitrice, e la polpa appena intiepidita sotto la salamandra. Più salsa al curry rosso da bisque e latte di cocco, fagioli di Pigna per la masticazione che tampona e il classico binomio italiano, gazpacho di fragole secondo gli insegnamenti di un collega andaluso, che raccomandava sempre di arrotondare con la frutta.
Materia e contrasti. È ormai un signature il millefoglie omaggio a Berasategui, che non si compone di foie gras, anguilla affumicata e mela verde, ma di fegato di rana pescatrice, per lo iodio e la complessità, tonno marinato e alghe. Dove la frattaglia di mare è lavorata alla giapponese, spurgata, sbollentata, marinata in sakè, mirin e soia, poi elaborata in terrina. Più punti di sumiso (aceto di riso e pasta di miso), umeboshi alle albicocche di Valleggia e albicocca di Valleggia sotto spirito. Un boccone intenso e ben calibrato.
Non c’è cuoco ligure che non senta l’esigenza di interpretare il cappon magro. Perata sceglie di non presentarlo a terrina, pressato, ma di valorizzare ogni elemento, crudo o cotto ad hoc.
Quindi il gambero e lo scampo crudo, le teste di dentice e il polpo a mo’ di cassetta, lo sgombro marinato e fiammeggiato, cozze e vongole al naturale, salsa verde, di barbabietola e di carota, almeno sei vegetali all’aceto, spuma di barbabietola e sorbettino all’acciuga. Sul fondo una memoria di Berasategui: la gelatina di acqua di pomodoro che sbalza e rinfresca, strappata alla celeberrima “ensalada tibia”.
Il risotto viene preparato alla maniera di Marchesi, con il burro acido, e mantecato con un pesto di aglio orsino, raccolto nei boschi piemontesi dalla capopartita ai primi. Per guarnizione lamelle di capasanta marinata e affumicata a freddo, con una boule di ghiaccio sotto, per aromatizzare senza cuocere e asciugare; bocconi di triglia parimenti affumicata e fiammeggiata; gocce di lampone fermentato e aglio nero in contrasto.
Torna il riferimento marchesiano nelle linguine fredde, omaggio al celebre spaghetto al caviale.
In questo caso, tuttavia, il crash culturale è fra Giappone e Mediterraneo, visto che la pasta, condita con crema di melanzane alla brace e acqua di pomodoro, non è raffreddata in acqua e ghiaccio, quindi slegata, ma mantecata in una boule dentro un contenitore di cubetti, in modo che conservi gli amidi; sulla sommità tartare di tonno rosso e caviale, in funzione di spalla iodata, a sfatare i tabù.
Poi un altro divertissement ligure: la cima di rana pescatrice alla Wellington. Dove per via di inversione fra interno ed esterno, il ripieno della classica tasca di vitello, una crema di animella, maggiorana e lattuga, si sposta fuori, simulando la duxelles sotto la pasta sfoglia. In finitura un bagno generoso di salsa di ostriche, che lubrifica la polpa magra, e il taglio al guéridon.
Il piccione è cotto interamente alla brace: il petto viene servito con fondo alla riduzione di aceto balsamico, composta e kimchi di fragole per l’acidità e il piccante, ciliegie alla brace; la coscetta al naturale, quale secondo servizio.
La tensione si allevia nel predessert di Gintonic alla rosa di Tiglieto, il cui sciroppo è presidio Slow Food, su base di mela verde e finocchio in osmosi di gin che resetta. Un tripudio di profumo che prelude al Limone in giardino, falso frutto composto di mousse di lime e yuzu, gel di limone e glassa al cioccolato bianco, servito con crumble di cacao e nocciole, spuntoni di lemon curd, gel di lampone e gelato allo shiso, nelle veci del consueto basilico. Dove il servizio è sulle cassette a suo tempo progettate da Claudio per servire le sue teste di pesce “in cassetta” per un’ennesima, schiva nostalgia mentre il vento prosegue la sua corsa.
[Questo articolo è tratto dal numero di settembre-ottobre 2023 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]