L’Irpinia, zona dell’Appennino campano occupato in epoca pre-romana dalla tribù degli Hirpini, gente di origine sannitica e di lingua osca, è un’area di quasi 3.000 chilometri con 118 Comuni, delimitata a ovest da quello di Avella, a est da Monteverde, a sud da Senerchia e a nord da Greci.
È distinta tradizionalmente in Bassa Irpinia, che comprende Avellino e la sua provincia, in l’Alta Irpinia,
con i monti più alti della zona, tra tutti il Cervialto di 1.809 m.s.l.m., e nella Baronia, con paesaggi dolci e collinari e distese di campi coltivati.
L’unicità di questo territorio caratterizzato da grandi distese di grano, ulivi secolari, laghi e tanto, tanto verde, si ritrova nelle proposte dei ristoratori riuniti dal 2006 in MesИli, ovvero la “Transumanza gastronomica Irpina”, che definire una semplice associazione è riduttivo, in quanto è un progetto di valorizzazione del territorio a tutto tondo, non solo gastronomico, ma anche culturale, artistico e paesaggistico dell’intera terra d’Irpinia.
Attualmente Mesàli conta 14 associati di cui uno nel Sannio campano (parte orientale della Campania), un altro a Napoli – Veritas Restaurant – un altro ancora a Giubiasco, Svizzera – Ristorante Sole – e infine a Lexington, USA – Il Casale Cucina Campana – che, pur mantenendo le proprie peculiarità, sono accomunati dalla cura nella scelta della materia prima, spesso coltivata in proprio, dall’attenzione alla cucina del territorio, tramandata oralmente e a volte rivisitata con estro e creatività, aperta ad accogliere e adattare ai gusti locali le esperienze fuori porta, così da fare diventare le proposte fortemente identitarie e riconoscibili dal pubblico.
E al pari del ‘transumare’, ossia dell’attraversare, del transitare sul suolo (dal latino trans che vuol dire ‘al di là’ e humus, ‘terreno’) lungo i “tratturi”, ossia le strade tracciate per spostarsi stagionalmente in aree di pascolo diverse, l’obiettivo di questi ristoratori è di far conoscere i propri prodotti e preparazioni, il che vuol dire raccontare la propria storia e cultura, anche al di là dei confini regionali.
Si cercherà, allora, in un viaggio ideale all’interno dell’Irpinia, di far conoscere alcune delle realtà più significative che animano il territorio.
I locali dell’Irpinia
L’Antica Trattoria Di Pietro
Tra distese di grano, non lontano dall’uscita di Grottaminarda dell’autostrada Napoli-Bari, 40 km da Avellino verso Nord, si trova l’Antica Trattoria Di Pietro.
Il locale ha visto la luce nel 1934 quando il padre di Pietro, proprietario di una stanza che dava sulla strada, venne convocato dal Segretario Comunale che gli ordinò di aprire un’osteria che sarebbe diventata il luogo in cui le donne gravide, avrebbero potuto consumare un pasto caldo, con costi a carico dell’amministrazione secondo una legge in vigore fino al 1936.
Successivamente vennero aperti un asilo e una scuola elementare per i bambini di quelle zone rurali; gli insegnati solitamente provenivano dalla città e in mancanza di mezzi di comunicazione che consentissero loro di ritornare alle proprie abitazioni, una volta terminato l’orario di lavoro, venivano ospitati a pensione nell’Antica Trattoria che fino al 1966 ha mantenuto anche gli alloggi, servizio eliminato quando sono state attivate le linee di collegamento su gomma.
In seguito al grave terremoto del 1962, la Trattoria si è spostata dal paese vecchio a quello nuovo e ha iniziato a crescere e trasformarsi al pari della città.
Oggi è un’intera famiglia a gestirlo con cura e amore, si tratta della terza generazione dei Di Pietro con Enzo in sala, il figlio Pasquale che si occupa della cantina e dal 2019 è a capo dell’Azienda vitivinicola di Pasquale Di Pietro con vitigni di aglianico e coda di volpe, che rifornisce in primis il ristorante, mentre la moglie Teresa e la figlia Anita si occupano della preparazione di piatti ormai dimenticati, appartenenti alla tradizione di una cucina casalinga della valle dell’Ufita – area ricca di biodiversità – senza concessione alcuna alla modernità, eseguita in maniera canonica, basti pensare che Anita impasta regolarmente a mano e sul suo piano di lavoro non manca il mortaio e tutto preceduto da un’ortodossa scelta della materia prima, che va dai prodotti dell’orto, alla carne, al baccalà e numerosi sono i Presidi Slow Food adoperati.
La famiglia Di Pietro produce anche un po’ di farina utilizzata nelle loro preparazioni, che però non è in quantità sufficiente a soddisfare il fabbisogno e viene, per la restante parte, acquistata da vicini mulini a pietra che macinano grani antichi.
Le carni sono locali, come l’agnello di Laticauda e lo stesso dicasi per i formaggi, tra i quali si ricorda il pecorino carmasciano.
Tra i piatti tipici sono immancabili i cicatielli con mentuccia selvatica, il raviolo fatto a mano condito con il ragù napoletano che prevede una cottura lenta per 6/8 ore del pomodoro con carne di vitello, maiale e agnello. Anita ha sposato appieno l’ideologia alla base dell’Associazione I Mesali di cui il locale fa parte, ossia la transumanza irpina, attraverso ad esempio la scrittura del libro “Storie di Paste fatte a mano”, Edizioni Albatros, destinato a un pubblico di bambini, che spiega come si produce la pasta, partendo dalla coltivazione del grano, passando alla produzione della farina, poi ai suoi differenti tipi, attraverso poi tre anni di lavoro in Svezia dove in una scuola Internazionale all’interno della cattedra di economia domestica – materia l. obbligatoria – ha insegnato ai bambini compresi tra gli 8 e i 16 anni a fare la pasta a mano, in particolare i cicatielli.
Una volta tornata in Italia Anita ha cercato di continuare il progetto tenendo laboratori per bambini, partecipando allo Sponz Fest di Vinicio Capossela che si tiene ogni anno nel mese di agosto in Alta Irpinia; infine, seguendo il progetto di promozione enogastronomica della Catina Giardino sia in Europa, a Berlino, Praga, Londra, che in Australia, preparando e proponendo pranzi tipicamente irpini, come i cicatielli, la coratella di agnello e la minestra maritata.
I cicatielli con pulieio sono finiti a pag. 96 nel libro di Katie Parla “Food of the Italian South”. Infine, il The Guardian nel maggio 2023 ha inserito l’Antica Trattoria Di Pietro tra i 35 migliori ristoranti di Europa, premiando l’autenticità, sincerità e amore che mette nelle preparazioni dei piatti della tradizione.
Il Vecchio Mulino 1834
Su un pendio collinare lungo la riva del fiume Calore Irpino, nel Comune di Castelfranci, si trova una struttura ottocentesca, in origine mulino borbonico e poi centrale idroelettrica del Sud Italia, dal 2012 convertito in un suggestivo locale, con una scala panoramica che costeggia il fiume.
L’esistenza del Vecchio Mulino 1834 si deve alla lungimiranza del patròn Daniele Polito che l’ha trasformato nel luogo magico di oggi: dopo, infatti, una prima ristrutturazione comunale che lo destinava
alla promozione delle tradizioni enogastronomiche locali, una volta ricevutone l’affidamento, Polito l’ha trasformato in un elegante ristorante con una sala delimitata dalle volte in pietra.
Per lui ha rappresentato una sfida, che ha accolto con la caparbietà degli uomini di questa terra: dopo l’esperienza maturata in Italia e all’estero – a Londra per cinque anni all’hotel Savoy, come maitre – è voluto ritornare alle origini, scegliendo peraltro una zona sì incantata, ma dove non si arriva a mangiare per caso, bensì solo per libera scelta, perché non ci sono nei pressi trafficate vie di comunicazione e, da Avellino, per raggiungere il locale ci vogliono 25 minuti in auto più una passeggiata di 5 minuti nel Parco.
Il successo del locale si deve anche al fortunato incontro con lo chef Vincenzo Vazza, che dopo la lunga esperienza con Oliver Glowig e con Anthony Genovese al Pagliaccio, ha deciso anche lui di ritornare a casa. Ed è cos. che è al Vecchio Mulino ormai da 6 anni. La sua è una cucina concreta che si avvale dei prodotti lo stagionali, con un grande coinvolgimento dei produttori locali.
Nel menù si trova il salmistrato di manzo podolico con maionese alla senape e cipolla all’Aglianico, i raviolini con le ortiche, i petali di baccalà con cavolfiore, papacelle e chips di patate violette, la zuppa di castagne di Montella con i fagioli quarantini di Volturara nel periodo autunnale, la trota invece è presente tutto l’anno.
Ancora, vi è l’utilizzo del tartufo nero con l’uovo fresco cotto a bassa temperatura, su fonduta di provola affumicata e sale Maldon.
Anche la carta dei vini presenta tante proposte tipiche dell’Irpinia: questo è infatti l’areale del Taurasi DOCG e, grazie alla posizione geografica del Comune di Castelfranci, è una zona ricca di vigneti che producono un eccellente Aglianico, essendo questo uno dei diciotto Comuni del Terminio-Cervialto, i due monti più alti della catena Picentina, all’interno del Bosco Baiano, con un’altitudine media contenuta tra i 400–600 m.
Sono ben quattro le cantine interamente di Castelfranci che producono vini DOCG, DOC e IGP tra i quali Taurasi, Aglianico, Irpinia coda di volpe, tant’è che periodicamente si svolge il “Castelfranci Wine Festival”, in collaborazione con il Forum Giovanile, articolato in due manifestazioni durante l’arco dell’anno, una prevista nell’ultima settimana di agosto presso il Bosco Baiano Basso (“Palata”) e un’altra durante il ponte dell’Immacolata con la Notte de la Focalenzia (“Notte dei Fuochi”), di indubbio fascino.
E in genere, all’interno del Mulino vengono presentati i vini, accompagnati da assaggi e abbinamenti di piatti tipici, a base di cinghiale, castagne, tartufo, funghi e carni provenienti da allevamenti locali.
Quale occasione migliore, allora, per assaggiare le preparazioni dello chef Vazza!
La Corte dei Filangieri
Nata come vineria, dal 2006 La Corte dei Filangieri, per le incessanti richieste dei clienti, si è trasformata in osteria con lo chef Antonio Petrillo.
Si trova all’inizio del centro storico, non lontano dalla piazza principale di Candida, piccolo borgo distante circa 10 Km da Avellino, raggiungibile facilmente con l’autostrada. Il locale è stato ricavato in un’antica cantina del ‘700; le pareti sono state lasciate a pietra viva, sapientemente illuminate da luci soffuse, nell’interno si ritrovano oggetti antichi di vita contadina, l’atmosfera ottenuta è piacevole, calda e conviviale, accompagnata da una gradevole musica di sottofondo.
Qui si trova la vera cucina dell’Irpinia, fatta di sostanza e qualità, senza compromessi e scevra di inutili orpelli, perché è quella della tradizione contadina, proposta con materie prime fresche e scelte con cura.
A dominare nel menù è il baccal.: famosa è la versione alla pertecaregna, piatto semplice della tipica cucina irpina, presente sulle tavole soprattutto nel periodo natalizio, realizzato con i peperoni cruschi, ossia i saporiti peperoni croccanti che però non sono piccanti.
Il nome secondo alcuni deriva da “perteca’ ovvero l’asta di legno messa sotto ai balconi, sulla quale erano appese le “nzerte” di peperoni essiccati con i quali veniva poi condito il baccalà, secondo altri, invece, deriverebbe da “pertecara” che stava a indicare l’aratro e le donne preparavano questo piatto ai “gualani”, gli uomini che lavoravano nei campi con i buoi.
Il baccalà si può trovare anche come antipasto, servito in insalata, accompagnato da quella di rinforzo o ancora come primo piatto, a condire gli ziti spezzati, nella versione alla puttanesca, o ancora alla brace oppure fritto. Tra le varietà più pregiate e costose, quello adoperato per la pertecaregna è il Gaspè San Giovanni, conosciuto come il re dei baccalà: la sua lavorazione è fatta esclusivamente in Canada da ricetta segreta ed è in parte essiccato e in parte sotto sale.
Ma in tutte le varianti proposte da Petrillo, il baccalà presenta una callosità importante e una carne che si sfoglia in modo omogeneo senza sfaldarsi, grazie alla maestria dello chef nel trattarlo, con accorgimenti propri della semplice cucina contadina, in grado di donare ai piatti grande eleganza.
Oltre al baccalà, nel menù non mancano le carni, i formaggi, i salumi, la pasta e le verdure di stagione, tutto elaborato con cura e attenzione nel rispetto della tradizione popolare, rimanendo coerente con la creatività contadina del passato.
A suggellare la proposta gastronomica ci sono degli ottimi vini, e non poteva essere diversamente, data l’originaria destinazione del locale a cantina.
Infine, per chi vuole visitare la zona, collegate all’osteria sono le Camere de La Corte dei Filangieri, recente b&b nel cuore del borgo antico.
La Locanda della Luna
Percorrendo idealmente a ritroso le strade pubbliche e i tratturi – al bordo dei quali venivano lasciate pascolare le pecore, sulle colline di San Giorgio del Sannio con Trevico di fronte, Monte Fusco a destra e Ariano Irpino a sinistra – si scorge, in cima a Via delle Oche, La Locanda della Luna che, perfettamente inserita nel contesto naturalistico, domina la vallata sottostante: si tratta dell’ultima in provincia di Benevento e qui, dall’alto, si può vedere Avellino e, in fondo, la Puglia.
Particolarmente suggestivo è cenare in terrazza d’estate, letteralmente sotto un cielo di stelle, con la luna sovente a fare compagnia. Il nome del locale però non si deve all’astro, ma all’unione delle iniziali dei due proprietari, coppia consolidata nella vita e nel lavoro: Daniele Luongo, lo chef, e Teresa Nardone, a cui è riservato il compito di accogliere gli ospiti, occupandosi di loro per tutto il tempo della permanenza, con attenzione e discrezione
Tutt’intorno al casale ci sono gli orti di famiglia, curati dallo stesso chef Daniele che, fiero della sua origine contadina, ama dedicarsi personalmente alla campagna insieme al suocero Giorgio Nardone: è infatti di sua produzione l’olio, come la maggior parte degli ortaggi che poi i commensali ritrovano nei piatti.
La sua è una cucina del territorio, mai estrema, lui stesso la definisce “giusta e accomodante, che deve fare stare tranquillo chi viene a mangiare”, così come serena e rilassante è l’atmosfera che si respira nel locale, che si vuole in armonia con la natura circostante, tant’è che le decorazioni, al pari del menù, cambiano ogni mese. Le proposte di Daniele partono dalle ricette tramandate oralmente, ad esempio, dalla mamma che gli ha insegnato a fare la pasta fresca – i cavatelli, i ravioli, gli spaghetti alla chitarra e le orecchiette – per adattare poi i formulari ai nuovi criteri nutrizionali, pur mantenendo intatti i sapori di una volta, perché, dice, “bisogna privilegiare il gusto”.
E lui lo fa selezionando tra le tecniche moderne, quelle che definisce costruttive, non distruttive degli alimenti: è infatti convinto che gli ingredienti vadano trasformati e rielaborati il meno possibile perché mantengano intatto il valore nutrizionale e quindi il sapore; per questo, dal 1986, lo chef ha abbandonato la cottura a bassa temperatura, tornando alla classica al cartoccio e in generale a quelle di una volta, che garantiscono anche un risparmio energetico, perché la sostenibilità passa anche per metodi e tempi del cuocere.
Nel menù si trova il fusillo avellinese alla carbonara e tartufo nero, lo scialatiello di borragine al ragù di agnello e menta, le costolette di agnello al miele di castagno e cicoria con millefoglie di polenta.
Daniele Luongo, del Trentino dove, arrivato all’età di quattordici anni, è rimasto fino ai ventitré sotto la guida dello chef Tiboni, ha fatto sua la carne salada tradizionale, il ragù bianco di coniglio e i talleri di patate. I suoi piatti esprimono la sincerità e schiettezza degli irpini, tant’è che il mantra suo e di Teresa è: “Qui si fa quel che si sa e si sa quel che si fa.”
Osteria dei Briganti
Sono circa 22 anni che i fratelli Maurizio e Mario Lo Russo gestiscono l’Osteria dei Briganti a Scampitella, in provincia di Avellino, da quando, nel 2001, entrambi hanno deciso di tornare a casa dopo avere vissuto esperienze anche all’estero.
A guidarli la passione e l’amore per l’Irpinia e il desiderio di proporre i piatti tipici realizzati con una materia prima di qualità, ove possibile locale. Offrono un menù tradizionale in cui vengono esaltati i sapori naturali e dove sono sempre presenti i ravioli col tartufo – scorzone d’estate e nero d’inverno, ma in zona si trova anche quello bianco – un paio di zuppe che a seconda della stagione, potranno essere di zucca o di fagioli e castagne o solo di fagioli: il tipo utilizzato è il Quarantino di Volturara Irpina, Presidio Slow Food.
Fagiolo irregolare, bianco cenere, tenero e leggermente farinoso, coltivato senza pali o altro sostegno nei terreni dell’altopiano irpino, ai piedi del monte Terminio, è detto “quarantino” per la durata del suo ciclo di maturazione. Nel febbraio del 2022 in particolare, l’Osteria ha partecipato alla giornata dedicata ai legumi come membro dei cuochi dell’alleanza Slow Food e dell’Associazione Chiocciola, con un crostone di pane cotto a legna con il fagiolo quarantino condito con origano selvatico e olio extravergine d’oliva Marinese, quest’ultimo riconosciuto dal 2021 come prodotto agroalimentare tradizionale, diffuso soprattutto nella media valle del Calore in Irpinia.
Nel 2022, in chiusura del Festival Corto e a Capo in collaborazione con Slow Food Avellino Aps e l’Associazione IrpniaMia di Trevico, si è tenuta presso l’Osteria dei Briganti la cena cinematografica dedicata alle opere del Maestro Ettore Scola, un modo per assaporare, nel senso letterale del termine, le sue opere cinematografiche. Durante la serata sono state proiettate sullo schermo allestito all’interno del locale, immagini cult dei film del regista, interpretate in chiave gastronomica con i piatti creati e serviti dai fratelli Lo Russo.
Questo il menù:
– antipasto del rigattiere con fagiolo arracanato;
– spaghetti ballando con Mariù (spaghetti alla chitarra conditi con pomodorino del piennolo e pecorino);
– picchiapò dei Re della messa (bollito di muscolo ripassato con cipolla e ricotta);
– babà super tridimensionale tutto accompagnato da vino Aglianico Irpino.
La Pergola
In provincia di Avellino c’è un affascinante borgo medioevale chiamato Gesualdo, in onore del maestro della polifonia rinascimentale Carlo Gesualdo detto “Principe dei Musici”, dove, a poca distanza dal Castello a lui intitolato, si trova il casale che ospita il ristorante La Pergola, immerso nel verde.
Nato nel 1995 dall’evoluzione e trasformazione di un circolo culturale, è gestito dalla famiglia della chef Franca De Filippis e da Antonio Ferrante, che sarebbe in seguito diventato suo marito. Architetto lei ed economista lui, hanno scommesso sulla loro terra e per una scelta definita “ideologica: sono stati gli antesignani di quel fenomeno che Vito Teti, professore di antropologia culturale all’Università della Calabria, nel suo libro “Pietre di pane”, ha chiamato “restanza”.
Dopo l’Università a Firenze l’una, a Napoli l’altro e il lavoro in Umbria, hanno scelto di ritornare alle origini vedendo, nel passato, la possibilità di nuovi orizzonti attraverso la costruzione di un immaginario mutamento di vita, fatto di natura, condivisione, recupero e trasmissione della cultura e tradizione irpina, che passa per i campi, l’orto e finisce nei piatti.
Quella di Franca, infatti, è una proposta fortemente legata all’orto e al vegetale in generale, che cambia non solo con il mutare delle stagioni, ma quotidianamente in relazione a ciò che la natura stessa offre nell’orto che coltiva personalmente, oppure nei campi delle contadine sue amiche. Ciò che vediamo oggi, sia come struttura ricettiva che come offerta gastronomica, è frutto di un percorso di crescita personale e professionale lungo quasi trent’anni, dove il motore è ancora oggi la passione che ha portato la chef ad approfondire conoscenze e competenze, in origine affiancando la mamma e la suocera in cucina, e poi seguendo corsi ad hoc, uniti a esperienze con noti colleghi, ma soprattutto sperimentando le tecniche apprese con l’obiettivo non di ripetere il piatto, ma di utilizzarle per recuperare certe consistenze e sapori ancestrali della tradizione contadina e ingentilirli con nuove tecniche. Così è con il cosciotto di agnello cotto nel fieno, equivalente della moderna cottura a bassa temperatura: in particolare, il fieno appena raccolto a maggio è ricco di un’erbetta che insaporisce delicatamente la carne.
E ancora c’è ricerca nella parmigiana di borragine, dove al posto delle classiche melanzane viene adoperata questa erba spontanea dai fiorellini viola, presente in primavera e in autunno, che pastellata e fritta perde quella caratteristica pungente con il vantaggio, rispetto alla melanzana, di assorbire poco olio in cottura. Nel tempo i ristoratori hanno ricercato persone che potessero condividere la stessa ideologia, da qui la partecipazione all’Associazione I Mesàli, perché per loro la cucina è non altro che un modo di raccontare la propria terra, ancora, l’adesione all’alleanza tra cuochi e Presidi Slow Food che valorizza i prodotti dell’Arca del Gusto di Slow Food e le piccole produzioni locali, in quanto alla Pergola si vive davvero l’esperienza del buon cibo degustato nel giusto ambiente e nel giusto tempo.
Ne è un esempio il sedano di Gesualdo – Presidio Slow Food, appunto – che viene detto accio, diverso da tutte le varietà presenti in Italia per la sua forma e il suo colore: è utilizzato a La Pergola nella preparazione del famoso pancotto o nella vellutata con frittelle di baccalà.
Oggi Franca de Filippis è soddisfatta della scelta di conciliare la professione di architetto con quella di chef, perché, dice, la cucina l’ha resa libera e le persone tornano al suo ristorante solo perché hanno il piacere di farlo, per i suoi piatti e per l’accoglienza ricevuta.
Soprattutto, poi, la cucina è una forma di narrazione e lei racconta l’Irpinia, i suoi abitanti, i piccoli contadini che custodiscono il passato e anche il futuro di questa terra.
La Pignata
Nella Valle dell’Ufita – al margine Nord del centro storico della città di Ariano Irpino, ai piedi del Castello di origine longobarda, restaurato e ingrandito dai Normanni – si trova La Pignata, ristorante della famiglia Ventre.
Nato negli anni ’80 offriva soprattutto pizze e panini, come quelli che da un po’ di tempo spopolano sui social, fatti con la pagnotta casareccia tagliata a metà e farcita con prodotti artigianali. I primi anni ’90 hanno segnato la sua trasformazione, frutto di una ricerca familiare e collettiva volta a individuare le origini della propria terra, quindi della lingua, degli usi e, soprattutto, dei piatti della tradizione, che risultavano distanti dalle due regioni di confine, la Campania e la Puglia.
Ripercorrendo allora il Reggio Tratturo, ossia le antiche vie armentizie, quelle erbose della transumanza ovina che dalle zone montane dell’Abruzzo portavano al Tavoliere delle Puglie, i Ventre hanno compreso che il dialetto e la cucina irpina hanno ricevuto molte contaminazioni abruzzesi. Il locale nel frattempo si è evoluto, diventando a mano a mano quell’elegante sala di legno e pietra, con l’inserimento, da qualche mese, di elementi in ferro che conferiscono un tocco di leggerezza e modernità all’ambiente.
La cucina, invece, nelle mani di Guglielmo Ventre, ha iniziato a proporre piatti in continuità con la tradizione per offrire emozioni antiche, nel rispetto della stagionlità della materia prima, sempre di qualità, riservando solo alla fascia serale la pizza, gourmet però, ottenuta con impasti di farina 1 tendenti a 2, più vicina nella consistenza a quella casertana che alla napoletana.
Piatti sempre presenti in menù sono il pancotto che si rifà alla ricetta della nonna – classe 1934 – trasformato però in una sorta di polpetta arricchita con broccoli d’inverno e scarola d’estate, oppure con talli, fiori di zucca e avvolta nel lardo di maiale; ancora, i ravioli fatti in casa con ricotta di pecora oppure fritti al baccalà con due consistenze di broccoli, peperone crusco e paprika.
Per non parlare degli arancini, ottenuti dal risotto mantecato con funghi porcini, salsiccia e pecorino carmasciano nel periodo invernale, sostituiti dagli asparagi e la crema di piselli in quello estivo. Solo quando il clima si fa più rigido è possibile trovare la minestra maritata, la trippa al pomodoro che d’estate invece è accompagnata da patate, lime e limone disidratato, ridotto in polvere. Nel periodo pasquale non può mancare l’agnello, quello famoso di Laticauda, dal mantello bianco, con la caratteristica coda grassa e larga, che funge da riserva d’acqua: Presidio Slow Food, allevato allo stato semi-brado, il risultato è una carne sapida e priva dell’odore ircino degli ovini, mentre il latte, ricco di grassi e proteine, dà formaggi di consistenza burrosa e sapore dolce.
Dell’agnello lo chef utilizza anche gli intestini e le interiora (polmone, cuore, fegato, animelle e rete) per realizzare i mugliatielli, un piatto contadino destinato in origine agli agricoltori e ai pastori, dato l’elevato apporto calorico. Da non perdere, poi, l’anatra coraggiosa, ripiena del proprio fegato; interessante invece, è il cosiddetto sushi irpino, una sorta di California roll ma con capocollo, pecorino carmasciano, melanzane sottolio extravergine d’oliva, peperoni, patate, salsiccia.
Ad accompagnare i piatti, più di 1000 etichette di cui il 96% di piccoli produttori artigiani, non solo locali ma anche nazionali, molte provenienti dal Friuli Venezia Giulia e oltre confine, come dalla Slovenia, tutti accomunanti dal mancato utilizzo di additivi e di lieviti selezionati.
La cantina è curata dal giovane Ezio Ventre, laureato in Scienze e Tecnologie Alimentari in Molise, che predilige vini invecchiati solo in botti grandi e non in barrique, con una particolare attenzione, da più di 10 anni, per i vini naturali.
[Questo articolo è tratto dal numero di marzo-aprile 2024 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]