Nello scorso numero de La Madia abbiamo dato spazio alla preoccupata segnalazione del lettore Lunardi di Brescia, circa un possibile ridimensionamento delle voci “ambiente ” e “servizio” tra i criteri di valutazione dei ristoranti. I timori del nostro lettore nascevano da un fatto preciso: l’annuncio, da parte di una nota Guida, della riduzione, in percentuale, della componente “accoglienza” nel calcolo che poi sfocia nel voto. Come sapete, alcune Guide usano distribuire il giudizio sui vari aspetti che compongono la realtà del ristorante (cucina, servizio, ambiente ecc.), assegnando a ciascuno un diverso peso. Quella che genericamente si chiama accoglienza è in realtà la sintesi di almeno due delle tante sfaccettature di un’esperienza al ristorante: le caratteristiche “fisiche” del locale e i comportamenti del personale nei confronti dei clienti. In parole povere, l’accoglienza è la somma di ambiente e servizio. Sarebbe proprio questo insieme di fattori a passare in subordine, nelle future valutazioni di quella Guida, dal momento che ha deciso di cancellare del tutto la voce “ambiente”, a cui finora era stato assegnato un peso percentuale del 10%, per lasciare più spazio alla cucina, che sale dal 60 al 70%. Da questo nuovo assetto risulta in un certo qual modo penalizzata anche la voce “servizio”, perchè se è vero che resta ferma al suo 10%, è anche vero che mentre prima era subordinata alla cucina nella misura di 1 a 6, ora lo è nella misura di 1 a 7. Effettivamente si tratta di scelte significative, nella filosofia di una Guida. Se guardiamo la cosa con l’occhio dello storico, notiamo che questo ri-orientamento dei giudizi a favore della componente “cucina” non è una novità assoluta. Per esempio Gault e Millau avevano fatto qualcosa del genere, tra gli anni 60 e 70. Era un momento particolare per la società francese, di grandi cambiamenti, e anche la critica gastronomica doveva fare la sua parte. L’obbiettivo polemico degli innovatori era una certa ristorazione di lusso, ampollosa e ingessata, spesso più attenta alle scenografie che alla buona cucina. In un tale contesto, dire che la cosa più importante è quello che sta dentro il piatto suonava davvero come rivoluzionario. Inoltre, nella Francia di allora c’era anche un grande fermento sotterraneo tra i giovani cuochi, in cerca di nuove strade, e il dovere della critica era quello di tenerli d’occhio, a prescindere dal contesto in cui operavano (la grande Maison parigina o il ristorantino di campagna nella provincia più remota). Per inciso, questo approccio fu ripreso, in Italia, dalla Guida dell’Espresso, che al momento della sua nascita era “gemellata” con l’allora già famosissima Gault-Millau. Si trattava in realtà più che altro di indicazioni orientative, da applicare senza integralismi. Infatti non mi risulta che quelle Guide abbiano mai premiato con punteggi alti locali dove magari la cucina era buona, ma dove il cliente si trovava a disagio per qualche altro motivo. In Italia, a dire il vero, il giornalismo enogastronomico era ancora molto indietro, e l’imperativo di focalizzare l’attenzione su ciò che si mangia fu tradotto in un principio di semplice buon senso: non fatevi abbindolare da un bel paesaggio o dai begli occhi della cameriera…
Dunque storicamente abbiamo già vissuto momenti in cui, per una serie di ragioni, era diventato urgente riorganizzare i criteri di valutazione privilegiando la cucina. Ma oggi siamo di nuovo in una fase in cui il lavoro del cuoco dev’essere maggiormente valorizzato, magari a scapito dell’accoglienza? Io non lo credo. A questo punto è importante ascoltare le motivazioni di chi intende compiere un passo del genere, adducendo il motivo che i giovani ristoratori non hanno soldi per creare un ambiente importante.
Ragione per cui, chi ci sa fare ai fornelli andrebbe incentivato dalle Guide, con voti migliori, anche se il suo locale al momento non possiede tutti quei requisiti che di solito concorrono ad un’alta valutazione. Ma è giusto esonerare alcuni, seppur temporaneamente, dall’obbligo di profondere i propri sforzi anche nella cura dell’ambiente, quando ci sono – sullo stesso mercato – soggetti che hanno lavorato una vita per ottenere certi risultati? Questo si chiedeva il nostro lettore, il quale avanzava anche il sospetto che troppe agevolazioni fossero controproducenti proprio sul piano educativo e formativo (visto che si dice di farlo per i giovani). Io vado oltre, e sposto il discorso su un piano più generale. Siamo sicuri che al ristorante sia davvero possibile scindere in modo così netto l’assunzione del cibo da tutto il resto? Vi sembra possibile riuscire a fare una corretta esperienza gastronomica in un luogo dove gli arredi sono approssimativi, i colori delle pareti sono improbabili, le luci sbagliate, il sottofondo musicale troppo alto e magari arrivano odori di vario genere dalla cucina? Per non parlare poi del servizio, le cui inefficienze possono riflettersi sulla qualità stessa del pasto. Capisco la ragione che spinge alcune Guide a separare nel giudizio la cucina dall’ambiente, e ne condivido gli intenti di trasparenza, laddove si spiega al pubblico quali sono le nostre priorità. Ma se si radicalizza la separazione, e si mettono addirittura le due componenti in antagonismo tra loro, si commette un grave errore. Se si dice che l’ambiente può anche contare meno perchè tanto quel che conta è la cucina, non si manda un segnale utile per la crescita del settore, che spesso – ricordiamolo – guarda alla critica per avere un indirizzo, o quantomeno delle conferme. E se poi rispetto alla cucina si riduce, in proporzione, anche l’importanza del servizio, in pratica si uccide un uomo morto, poichè l’impreparazione del personale di sala è già oggi uno dei punti deboli di tutta la struttura. E quasi sempre sono proprio i ristoranti che devono farsi carico della funzione formativa, raccogliendo ragazzini senza arte nè parte e trasformandoli in bravi camerieri. I quali poi andranno ad arricchire con la loro professionalità altri locali, facendo da traino ad un miglioramento generale. Se snobbiamo il servizio, anche solo concettualmente, rischiamo di danneggiare questo circolo virtuoso, con ripercussioni negative per tutti. Un altro tema generale su cui occorrerebbe soffermarsi è quello relativo alla nozione di “lusso”. Non siamo più nell’Ottocento, e se una volta i locali d’alto bordo dovevano somigliare a delle regge, ai giorni nostri ciò che viene richiesto ad un ristorante di livello è più che altro buon gusto ed equilibrio.
Abbiamo visitato locali bellissimi, seppur con arredi estremamente asciutti, di un’eleganza contenuta e senza sfarzo. Per fare questo, più che investimenti da capogiro ci vuole intelligenza. Per quanto riguarda infine la valorizzazione del cuoco e l’affermazione della sua centralità nell’universo del ristorante, credo che rispetto ai tempi di Gault e Millau oggi il discorso possa essere letteralmente ribaltato: non è certo la figura dello Chef creativo e innovatore che ha bisogno del sostegno della critica (lo ha già oltre misura!), ma casomai occorre migliorare tutto quel complesso di cose che svolgono un ruolo di mediazione tra lui e il cliente. Tra l’altro, è proprio questa nuova figura di professionista che abbisogna maggiormente di comunicare in modo integrale la propria filosofia, coinvolgendo l’ospite in un’esperienza a tutto tondo.
Un’esperienza che sia il più possibile multidimensionale e “multisensoriale”. In questa chiave, una grande cucina senza un ambiente e un servizio che le corrispondano e le facciano eco, appare – oggi più che mai – impensabile.
Di Elsa Mazzolini