
Lo spunto viene – manco a dirlo – da quella che è stata la notizia del mese, cioè la scomparsa di Anthony Bourdain. No, non è mia intenzione spendere più parole di quante non ne siano già state versate per celebrare un personaggio controverso, innovativo e rivoluzionario quale è stato lo chef statunitense, che nel 2000 con il suo “Kitchen Confidential” sollevò il sipario sui vizi, le contraddizioni e gli eccessi di un mondo – quello dell’alta cucina – che di lì a poco sarebbe stato investito da un’onda di rilevanza mediatica di cui anche e proprio proprio in questo preciso momento probabilmente stiamo surfando la cresta dell’onda.
Un’immagine su tutte, tra quelle riproposte nei giorni del cordoglio per la scomparsa di Bourdain, mi è rimasta impressa: il bianco e nero in compagnia di Iggy Pop. Aldilà dell’amicizia tra i due, della similitudine tra gli eccessi che ne hanno costellato le rispettive vite, ho sempre trovato quell’immagine emblematica dell’evoluzione nei modi di comunicare l’alta cucina a partire dall’inizio del nuovo millennio, cioè da quando gli chef internazionali hanno avuto accesso a quote di popolarità un tempo appannaggio dei divi della tv e del cinema, o più similarmente alle rockstar. Il fatto che quel momento coincida più o meno con l’anno della pubblicazione di “Kitchen” non è del tutto causale e rende quell’immagine ancora più significativa: “Uno di noi”, sembra voler comunicare all’obiettivo il caro, vecchio, immortale Iggy-Iguana.
Red carpet e presentazioni, vernissage e apparizioni televisive, una classifica $Best_Chef e Top_Restaurant alla settimana, pubblicazioni di guide senza soluzione di continuità, ognuna con l’intento di assurgere a novella Billboard dei tempi odierni e la pretesa di decretare quale sia il migliorissimo dei migliori tra gli artisti in campo, il più creativo, quello che maggiormente stupisce, quello per cui – anche per il povero squattrinato appassionato – varrebbe la pena di prendere a martellate il famoso porcellino salvadanaio e aprire due finestre del browser: una sulla lista delle prenotazioni del ristorante e una su quella dei voli low-cost. L’isteria collettiva dei foodies ha trasformato il mondo della cucina in una specie di spettacolo al Colosseo, dove il pubblico assiepato sugli spalti acclama, rumoreggia, tifa e scommette su quale sarà il verso del pollice espresso da una giuria di privilegiati, (sedicenti) esperti di food, arbitri a rischio zero delle fortune e delle sventure di imprenditori e relativo bagaglio di collaboratori, dipendenti e in linea di massima bocche da sfamare, solitari frontman su cui grava la responsabilità del lavoro di decine di invisibili bassochitarrabatteristi.
Soleva dire Frank Zappa, uno che come Bourdain era avanti almeno trent’anni rispetto ai contemporanei: “Buona parte del giornalismo rock è fatto di gente che non sa scrivere, che intervista gente che non sa parlare, per gente che non sa leggere”. Dice il Furio vostro: trova le differenze. Viviamo tempi in cui chiunque – nessuno escluso, nemmeno il sottoscritto – può decidere di saltare da un lato all’altro della barricata e da pubblico che era, atteggiarsi a giornalista di food, sia esso di penna, di tele, di web, in favore di un pubblico che se proprio non è completamente ignorante in materia, di sicuro non ha elementi a sufficienza per un riscontro reale su quanto sta leggendo / vedendo.
Il 90% del pubblico di qualsiasi trasmissione di cucina di grido della Tv (sì, quella, dai…) messo di fronte a un piatto dei Roca, di Redzepi, di Blumenthal, non saprebbe nemmeno da che parte prendere la forchetta e anche dopo averlo assaggiato non saprebbe andare oltre il “Bè, sì buono”, senza probabilmente aver capito nulla di ciò che ha ingerito. La stessa persona si ritiene comunque sufficientemente preparata da essere d’accordo o meno col terzetto giudicante a schermo piatto 50”, solo guardando il piatto preparato da un concorrente.
Come novelle rockstar gli chef del secondo decennio del secondo millennio, si ritrovano incatenate al proprio personaggio, acclamate in pubblico, sovente sole e frustrate in privato, schiave dell’ansia da prestazione e di un mondo che esige l’eccellenza ma spesso restituisce in cambio poco più che una sopravvivenza risicata, accompagnata da una condanna a lavorare ancora più duro, “che vedrai che l’anno prossimo la Stella arriva”. È buffo. No, anzi non lo è, è qualcosa di più che buffo: è grottesco. E noi ci meravigliamo ancora se qualcuno ogni tanto si rompe le palle e se ne va sbattendo la porta.