
Non so se ce l’avete presente, il film. C’è quel momento in cui la protagonista, la povera Andy, colpevole di indossare sul lavoro un abbigliamento non intonato all’ambiente in cui si muove, viene letteralmente brutalizzata dalla crudele Miranda Priestly, che le spiega a modo suo come in realtà quel suo maglioncino azzurro (“ceruleo”, per la Mirandesca precisione) non sia altro che l’espressione a cascata di un mondo che muove milioni di dollaroni e di posti di lavoro, selezionato da persone come quelle che in quella stessa stanza si sdilinquiscono sulla diversità di due cinture apparentemente identiche eppure “così talmente diverse” da far sghignazzare la malcapitata stagista, mandando su tutte le furie la novella Crudelia de Streep.
Ecco, io in genere arrivato a quella scena cambio canale, perchè è esattamente il punto in cui la povera bruttacopia di Anne Hathaway vista fino a quel momento, cede di schianto al Demonio e si trasforma in superpatata alla stramoda, facendo prendere finalmente vita alla vicenda. In realtà quello è il momento esatto in cui – nel mio film ideale – anzichè piagnucolare e arrendersi al Lato Oscuro del fashion, spero sempre che la upcoming stragnocca si rivolti verso il puttanone tricoalbino di firme vestito, vomitandole in faccia che a lei non gliene frega un bel niente di quel mondo fatto di fuffa, gonfiato ad elio, che si regge principalmente sulla creazione di necessità inesistenti e sullo sfruttamento di manodopera sottopagata nei paesi più miseri del mondo, retto da un’oligarchia di ego drogati di se stessi.
Nel “mio” film Andy gira sui tacchi, se ne va alzando il dito medio; fine del film, titoli di coda.
Capisco, far finire un film dopo poco più di mezz’ora di narrazione non è il massimo, infatti per fortuna non scrivo soggetti per il cinema, né tantomeno faccio il regista ma mi è capitato, talvolta, di rileggere la stessa paradossale situazione nel mondo del food, popolato negli ultimi anni sempre più da personaggi di sedicente alto profilo, intoccabili soloni e venerabili maestri del karaoke collettivo in cui per uno che canta sul palco la solita – autocelebrativa – canzoncina già sentita mille volte, ce ne sono altri 100 in platea ad applaudire in attesa di salire su quello stesso palco a fare la stessa cosa.
Il comparto della ristorazione in Italia – a sentir dire loro – muove un giro di denaro considerevole e impegna un altrettanto considerevole numero di addetti al modico prezzo di stagisti paganti per lavorare, straordinari non retribuiti e “non ve lo ha ordinato il dottore, di fare questo lavoro”, al fianco di un carrozzone mediatico fatto di presenze televisive, onnipresenti chef a cinquanta pollici e una pletora di web magazine (non chiamateli blog, non lo sono) più o meno frequentati, ricchi di lanci quotidiani e poveri di sostanza, il cui obiettivo principale è quello di raccogliere clic da sventolare in faccia ai potenziali inserzionisti. Rewind. Play. Di scrivere di questo mondo, delle mie esperienze a tavola, nelle cucine o al fianco di chef più o meno quotati lo faccio per divertimento, ma lo faccio ormai da abbastanza tempo da potermi permettere, ogni tanto, di averne le palle piene. Piene di quei personaggi che mi fanno somigliare sempre più l’ambiente della ristorazione a quello della moda narrato nel film, popolato dalla medesima gamma di primedonne e comprimari, nani e ballerine, comportamenti al limite, ripicche e vendette trasversali. Lungi da me, per ora, l’idea di dargliela su, ma solo una considerazione su quanto fosse più leggero questo ambiente soltanto non più tanto lontano di dieci anni fa. No, non me ne vado, ma il mio dito medio è sempre mezzo alzato e purtroppo, negli stivali di vernice di Prada, non ci entrerei nemmeno se volessi.