Gli Stati Uniti sono tra i primi consumatori di vino al mondo, ma anche un importante Paese produttore che si colloca al quarto posto dopo Italia, Francia e Spagna.
Il vino americano non è certo di moda nel nostro Paese, ma onestamente neanche in Europa. Anzi, per chi non conosce questa produzione (io per primo), la loro viene considerata la caricatura del prodotto di qualità: si tratta di vini molto alcolici, tannici, marmellatosi e stancanti.
Ora, non siamo qui per difenderli o giudicarli e non possiamo certo dire che non abbiano scopiazzato lo stile Francese di Bordeaux, questo è ovvio, ma consideriamo che i due padri dell’indipendenza americana, Franklin e Jefferson, si appassionarono così tanto ai vini francesi, che sognarono di produrre grandi vini in America. I vini americani sono quasi sempre prodotti da vitigni francesi vinificati in piccole botti di rovere.
Negli ultimi venti anni, sopratutto quelli californiani, sono stati vittima di un eccesso di pratiche vitivinicole, come del resto è accaduto a vini di Bordeaux.
Eppure, assaggiando tante annate degli ultimi 50 anni, non si può non ammettere che da queste terre siano usciti alcuni grandi vini, per quanto difficili da scovare.
Ora, riformulo la domanda: che ne sappiamo noi dei vini americani se li non li abbiamo mai bevuti e continuiamo a non berli?
Va bene, sono vini lontani geograficamente da noi, non esistono seri importatori che ci permettono di trovare il prodotto nel nostro mercato, ok, ma è come se avessimo una sorta di timore, di paura che qualcuno di così grande, “gli americani”, possano essere migliori noi.
Quindi cosa facciamo? Non li giudichiamo e li escludiamo da qualsiasi batteria di assaggio europea, come se non fossero all’altezza? Io credo non sia giusto.
La storia dei vini americani è lunga, molto lunga, ma sarò breve nel raccontarla, per quel che posso.
Se ne comincia a parlare intorno al 1879, quando Gustave Nybom, acquista terra a Rutherford in Napa Valley, e fonda la cantina Inglenook. Poi è la volta del francese George de Latour che fonda Beaulieu.
Dunque, due grandi nomi del vino californiano, grazie anche all’intervento del mitico enologo russo poi successivamente californiano Andre Tchelistcheff.
In Sonoma, in una regione più prossima all’oceano e più fresca di Napa, arriva il conte ungherese Haraszthy e fonda Buena Vista.
In Minnesota, il marchigiano Cesare Mondavi va in California, si innamora e decide di investire nel vino. Ha due figlie e due figli, Peter e Robert. Robert Mondavi sarà il simbolo del vino americano di qualità del ventesimo secolo (ricordo ancora recentemente di aver bevuto un Cabernet Sauvignon Riserva 1982 da urlo, tutt’altro che riconducibile ad un vino californiano).
Successivamente sarà la volta di Louis Martini ecc, ecc…
Ma attenzione, la svolta è sicuramente nel 1976 quando esce il primo numero di Wine Spectator e, sempre nel 1976, a Parigi, il mercante e appassionato di vini Steven Spurrier organizza il “Giudizio di Parigi”.
Ma cos’é il Giudizio di Parigi? All’Hotel Intercontinental si assaggiano, in comparazione e alla cieca, vini americani e vini francesi prodotti ovviamente da Cabernet Sauvignon e Chardonnay.
Tutti gli esperti sono francesi meno due, Steven Spurrier e Patricia Gallagher, ma dei loro giudizi non se ne terrà conto nella classifica finale.
E qui, a sorpresa, gli americani piazzano una doppietta: un vino al primo posto nei bianchi, con Chateau Montelena 1973, che nei rossi, con Stag’s Leap 73, un pò come la storia del nostro Sassicaia 1985.
Tutti in silenzio, tutti sbalorditi e tutti a casa.
Ma come? Questi americani sanno fare vini così buoni? Così eleganti, fini, longevi e profondi? Come si permettono?
La storia continua. Nel 1984 Robert Parker, un avvocato di Baltimora, pubblica il primo numero di “The Wine Advocate”. In breve tempo viene considerato l’uomo più influente in assoluto nel mondo del vino ed oggi è ancora così.
Grande naso, grande palato e persona incorruttibile.
A partire dagli anni ’70 – ’80 sono emersi nuovi territori ad alta vocazione, oltre a Napa, Sonoma, Santa Cruz: sempre in California, zone fresche della costa centro-meridionale (Monterey, Paso Robles, Santa Ynez), e poi l’Oregon, considerato giustamente, in alcune sue valli, una patria ideale per il Pinot nero, e alcune valli dello stato di Washington, più a Nord (la Columbia valley in particolare), con clima molto continentale ed estati secche.
Quindi questi vini americani? Perché ci spaventano tanto e li consideriamo sempre fuori corso o prodotti con stili a noi non riconducibili?
Soldera ha affermato che il “gusto americano”, viene considerato come una sorta di gusto inferiore e adolescente (cui però ispirare i nostri vini).
Un momento, ma gli americani sono anche tra i più grandi consumatori di vini italiani? Come possono consumare prodotti adatti ad un palato oramai evoluto e poi produrre vini così differenti? Qualcosa non torna. Non saremo noi a trarre ovviamente delle conclusioni, ma forse non siamo ancora pronti ad un vero confronto perché in fondo abbiamo paura che nel vino, forse, gli americani siano o possano diventare più bravi di noi.