Fra i ristoranti degli chef emergenti in Italia, quelli intorno ai 30 anni che cominciano a scalciare dietro i big, il Lux Lucis di Forte dei Marmi si distingue per l’intesa fra la cucina e la sala. Nessuna struttura così giovane può vantare un sommelier come Sokol Ndreko, professionista albanese che colpisce per l’eleganza nelle coreografie e l’originalità nell’abbinamento, fuori dai sentieri già battuti ma nella scia della cucina.
Non è facile, infatti, affiancare Valentino Cassanelli, suo coetaneo, allievo di Nobu, Cracco e Baronetto. Il quale a sua volta ha sempre mostrato uno stile originale, con il suo dressage decorativo e quasi liberty nel gioco ipnotico di colori e volute. In cucina non rinuncia a un’impronta decisa sull’ingrediente, brandendo a tratti il timbro fusion del grande chef giapponese, sfoderando altrove trouvaille degne dello chef del Cambio. Talvolta con risultati entusiasmanti.
L’inquietudine in questa primavera 2016 sembra avere squarciato il velo estetico, mettendo a nudo innanzitutto il gusto, più diretto e meno cosmetico, prossimo alla sensibilità di tanti coetanei, con la consueta attenzione per consistenze sempre originali. Ecco quindi il risotto ai fasolari e verde, portato a cottura nella sola acqua di pomodori verdi e mantecato all’olio di oliva e acqua di fasolari, con uno squarcio frizzante di clorofilla dall’estrazione dei baccelli dei piselli: il sentimento della primavera tradotto in acidità, col contributo dei semi di pomodoro, più la polpa cruda dei molluschi per la mineralità e la masticazione. In abbinamento, a cercare la morbidezza, senza uscire dal registro del piatto, Kracher Auslese 2011, per un basso titolo alcolometrico associato a residuo zuccherino, sapidità e freschezza; il ricordo è quello classico di un Sauternes sulle ostriche.
Oppure il rognone servito crudo, marinato per due giorni in salsa tamari, olio di nocciole e colatura, in modo da mitigarne l’odore, poi lasciato asciugare per un giorno, per raggiungere la consistenza di un carpaccio, con una spolverata di nocciole tostate al Microplane, che metaforizzano la cottura. Dove la tendenza dolce è bilanciata dall’amaro delle cime di rapa spadellate e in forma di kefir, una miscela di latte di capra e centrifugato di cime di rapa crude, lasciata fermentare con gli enzimi per una leggera acidità. Un piatto soave, contrariamente alle aspettative, abbinato da Sokol al succo di rabarbaro Van Nahmen, che riprende la dolcezza e il cromatismo della frattaglia, con un finale acidulo per ripulire. Il bicchiere è una coppa Asti, in modo da favorire il contatto laterale e un afflusso generoso, che compensi attraverso la freschezza la mancanza di alcol.
Soprattutto il piccione marinato (tecnica prediletta di Cassanelli) nel suo jus miscelato a succo di litchi per un giorno, in modo da mitigarne l’ematico, poi cotto ad appena 45 °C per 30 minuti, per rassodare la polpa e fare penetrare gli aromi, grigliato al momento del servizio sulla pelle e glassato al jus di polpo, per la sapidità marina e un ricordo di brasato; guarnito in ultimo con una cascata di spinaci sfumati al centrifugato di zenzero, la coscia brasata nel suo sugo e il filettino cotto a 45 °C. Archiviati i nascondimenti attraverso veli e cialde, un piatto diversamente schivo, en travesti tra Oriente e Occidente, che dietro sembianze rassicuranti nasconde una trama esotica, non senza un ricordo di Adrià nell’associare il frutto ai molluschi. Il partner è georgiano: il rustico Tsarapi Rkatsiteli 2011. Appena aperta la bottiglia, per ovviare alla riduzione indotta dal metodo di produzione, Sokol procede a un travaso energico fra bicchieri, che aiuta a sprigionare il potenziale. Ed è la rottura del tabù del bianco sul piccione, con il vino che riprende tutta la complessità del piatto: ferrosità, frutto, freschezza.
(e seguire alcune immagini – ph Lido Vannucchi)