Passo passo, il racconto appassionato di come vivere in modo diverso
Cavoli, che paradiso!
Un’esclamazione spontanea per molti di noi che, passo dopo passo, abbiamo raggiunto quota 200 metri di altezza sul livello del mare. Un’occhiata inevitabile è caduta verso la piccola baia sotto di noi. Siamo nella zona sud ovest dell’Elba, quella che offre, in lontananza, anche visioni delle montagne innevate della Corsica. Là sotto, dell’estate isolana agli sgoccioli, scorgiamo frotte di turisti che arrivano sulla spiaggia che dall’alto dominiamo. è quella di Cavoli, dove i bagnanti sono “condannati” alla missione quotidiana fatta di bagni di sole e di mare.
Sono le 8,30 e noi camminiamo già da un’oretta.
L’aria è tersa e ci pare di toccare quella gente sul mare se solo allunghiamo una mano; riusciamo a intuire perfino i movimenti dei bagnanti che si adagiano mollemente sui loro lettini o sul bagnasciuga, sotto i raggi solari già cocenti.
Una brezza opportuna entra dalla baia a forma di mezza luna, posta ai piedi delle colline granitiche che calpestiamo. Alzando lo sguardo, in lontananza, Pianosa fa di tutto per non farsi vedere confondendosi con l’orizzonte, mentre Montecristo spunta prepotente come una montagna in mezzo al blu.
Questo lo scenario che si presenta ai nostri occhi, quelli di un plotoncino di escursionisti che stamani si è alzato presto – testimone una splendida luna, per godere del refrigerio del primo mattino – e che ora batte i sentieri appena accennati, sopra il dirupo che porta alla riva del mare.
Frughiamo con i piedi e con gli occhi i tracciati in terra battuta e pietra che attraversano la Storia, portandoci ai tempi dei Romani che intorno al 200 d.C. lavoravano la grigia pietra naturale di cui è fatta tutta questa parte di Elba: il granito, l’ideale per fare colonne e innumerevoli strutture edilizie.
I bagnanti non sanno cosa accade quassù, ma insieme ci godiamo, in modo differente, quella che si annuncia una piacevole mattinata. Sul mare si alternano bagni, parole incrociate e chiacchiere, noi spaziamo con gli occhi sull’incantevole paesaggio ed i ricchi dettagli archeo-floro-faunistici del nostro percorso. Facile essere appagati stando in paradiso!
Poco più su da quelle meravigliose spiagge, oltre che apprezzare l’Eden chiamato Elba, è possibile, camminando senza fatica, mettere mani e occhi sui reperti storici, antichi di millenni, circondati da fichi d’india, corbezzoli, mimose, erica e molto altro. Siamo catturati dai profumi che vengono dalla macchia mediterranea che ci fa prigionieri, avvolgendoci. Elicriso, lavanda, rosmarino, finocchio selvatico: il naso, come gli occhi, riceve una moltitudine di gradevoli informazioni, in questo caso odorose. Un paradiso di profumi nel regno del granito. La sua lavorazione è probabilmente iniziata già con gli Etruschi ed è proseguita con i Romani. Indubbiamente anche loro non potevano fare a meno di ammirare quei panorami sconfinati, che culminano con la costa della Corsica, contemplata, forse con nostalgia, anche da Napoleone nel 1814, durante il noto esilio elbano. E’ facile immaginare che abbia lanciato più di uno sguardo verso ovest, per respirare aria di casa sua. E’ questa, per molti, la zona più bella dell’Elba. Se a tante parti dell’isola si possono dare voti tra l’8 e il 9, al sud-ovest si può dare un 10 pieno.
Naturalmente elbano
Immersi nell’esperienza, procediamo guidati da Fausto Carpinacci, presidente della Circolo Culturale di San Piero: Le Macinelle. Fausto è un ingegnere in pensione, che ha messo in archivio calcoli e sistemi fisico-matematici per rituffarsi nella natura e nella storia sconfinata del suo territorio. Il circolo, che dirige da anni, cerca di investire nel passato per migliorare il futuro. Lo fanno in pochi. Da anni punta a far riscoprire i valori delle vicende secolari ai milioni di turisti che approdano all’isola d’Elba, ma innanzitutto agli elbani stessi, spesso inconsapevoli dei tesori di cui sono custodi. L’Elba romanica, pisana, quella degli antenati: ricchezze da ricapitalizzare.
Carpinacci e gli altri del circolo culturale, tutti volontari, hanno ben capito l’importanza di tutto ciò e hanno un programma pluriennale da portare avanti, cercando anche l’aiuto di Enti pubblici e privati. A loro occorrono almeno 2000 euro a stagione per garantire la salvezza dei reperti e dei percorsi in mezzo al granito, ai profumi vegetali e alla storia. Una goccia nel mare dei fiumi di danaro che vediamo circolare tra Enti, ma che al Circolo Le Macinelle consente di fare molto!
Storia, botanica, fauna e geografia fatte con i piedi, attraversando le colline che scendono al mare nelle zone circostanti S. Piero, il paese che ha poi dato origine a tutte le altre frazioni come Seccheto, Vallebuia e altri siti caratterizzati tutti da un glorioso passato legato, oltre che alla viticoltura, alla lavorazione del granito.
Di quella pietra naturale, come detto, è costituita tutta la parte occidentale dell’Elba la quale ha avuto origine in seguito allo scontro di due placche continentali. Successivamente, tra i 5 ed i 7 milioni di anni fa, la risalita di corpi magmatici costituiti da granito e detti plutoni, una volta liberatisi dai depositi sedimentari che la coprivano, hanno costituito, sul versante occidentale dell’isola, il massiccio del Monte Capanne, oggi alto 1018 metri.
Da pochi millenni l’uomo ha compreso quanto il granito sia un materiale adattissimo alla costruzione di un’infinità di manufatti indispensabili soprattutto per l’edilizia: dal semplice bordo dei marciapiedi, ai moli con cui sono fatti i porti elbani, ad altri oggetti di arredo casalingo.
L’isola e i suoi nemici
Il Circolo Culturale Le Macinelle gestisce, annualmente, varie escursioni. Un modo per dire alla gente “ma vedete un po’ cosa abbiamo tra la nostra macchia mediterranea”. Questi volontari curano di persona i percorsi per raggiungere i reperti storici. Hanno messo anche segnaletiche, bacheche con le spiegazioni sui 14 siti che costituiscono la meta delle escursioni lunghe circa 9 chilometri. Un lavoro che non avrà mai fine. C’è da fare i conti, infatti, con i cinghiali che imperversano nella zona e rovinano costantemente i sentieri e le opere dell’uomo. Gli animali cercano le radici per cibarsi e rompono e scavano come meglio credono. A loro la storia non interessa, perciò danno sfogo ai loro istinti ed arano sentieri, giardini, campi e vigneti.
Una piaga che si sta diffondendo da anni a causa della prolificità del cinghiale. Un “grazie” si deve dire ai cacciatori che circa 30-40 anni fa importarono questo animale, diventato un flagello sull’isola. Il cinghiale non è originario di qui.
Ma non solo gli ungulati sono avversari del Circolo Culturale: ci sono anche i proprietari dei terreni dove giacciono i reperti storici delle varie epoche. I padroni delle aree, come gli animali, non hanno molto amore per la cura della storia, ma del loro appezzamento sì.
Non vedono di buon occhio questo pellegrinaggio di persone in mezzo alle loro colline. Allora, ogni tanto, spariscono le indicazioni dei viottoli poste dai volontari o qualche bacheca informativa. Ma il gruppo di San Piero non demorde: va avanti senza conoscere ostacoli e senza deprimersi.
Carpinacci & C. sono sempre più convinti della bontà del progetto: ” Chi la dura la vince”, dice un vecchio proverbio. E più duro del granito che c’è?
Una storia granitica
Le colonne romaniche che giacciono sulle colline sembrano fatte ieri e le spiegazioni del Carpinacci sono molto interessanti. Di tanto in tanto, di fronte ad un reperto, ci stringiamo attorno a lui per ascoltarlo e per riposarci un pochino. Stamattina siamo partiti da San Piero e, passeggiando, abbiamo appreso che l’antico borgo si vuole edificato all’epoca della dominazione longobarda (VIII secolo d.C.) su uno sperone di roccia ai piedi del monte Calanche. Il paese è stato per molti secoli la capitale del granito elbano, forse già nel I° secolo d.C. i Romani vi avevano stabilito una base operativa per gestire le grandi cave di Seccheto e Cavoli. Ciò si dedurrebbe dalla presenza, secondo alcuni, di un insediamento con relativo tempio dedicato al dio Glauco protettore dei naviganti, dove oggi sorge la chiesa di San Niccolò. Certamente San Piero è stato un presidio importante durante la dominazione Pisana, come testimoniato dalla imponete chiesa romanica di San Niccolò e dalle fortezze adiacenti costruite in epoca successiva. La presenza del granito caratterizza il paese intero con le piazzette ed i vicoli del centro fortificato lastricati, il fonte battesimale e gli altari della chiesa parrocchiale, i portali di cui il più imponente è quello del “Palazzo”, edificio nel quale risiedeva il governatore e si riuniva il consiglio degli anziani. Lasciato San Piero, in località Pozzondoli abbiamo trovato le ultime due cave in attività. Dotate di moderne attrezzature per l’estrazione dei blocchi ed il taglio, producono lastre, cordoni, acciottolati ma anche manufatti dì pregio quali soglie, scalini, caminetti, portali. In queste cave, insieme all’impiego di mezzi meccanici e moderne tecnologie, si può ancora vedere qualche anziano scalpellino che lavora nel modo antico, usando esclusivamente subbie e mazzuolo come i Romani due millenni fa.
Superate le cave si imbocca l’antica strada vicinale delle “Grottarelle” e si raggiunge “II Sasso”, imponente massiccio granitico che fu sede di un insediamento dell’Età del Bronzo, riferibile alla cosiddetta cultura subappenninica (1100-900 a.C.). Queste genti, che costellarono di piccoli villaggi il Massiccio del monte Capanne, erano dedite alla pastorizia e alla tessitura. Alcuni rinvenimenti (pietre laviche, ossidiana sarda) confermerebbero tuttavia scambi commerciali con la penisola italiana e le isole maggiori. Le strutture abitative erano rappresentate da capanne a pianta ellittica con copertura di frasche intonacata con argilla; spesso, comunque, venivano utilizzati ripari naturali adattati con piccoli muretti. Tutti i siti hanno restituito frammenti ceramici dal caratteristico impasto grossolano, appartenenti a vasellame di uso domestico. Dal sito del Sasso era possibile comunicare visivamente con gli altri abitati della zona, secondo una strategia riscontrata in tutti gli insediamenti subappenninici dell’Elba occidentale. Il sentiero, a tratti lastricato in granito e delimitato da bassi muretti, risale versi i siti di Sassiritti e Casevecchie, testimonianza del Megalitismo riconducibile, per analogia con Corsica e Sardegna all’età del rame e primi secoli del bronzo, III/ II millennio a.C.
Una piccola sosta vicino ad un generoso albero di fichi ci rigenera mentre ascoltiamo le parole di Fausto, la nostra guida speciale con la quale è stato facile entrare in confidenza. II sito dei Sassiritti ospita una serie di quattro menhir ritti (altri inclinati od abbattuti si trovano nelle adiacenze) che danno il nome al luogo. I sassi ritti potrebbero avere una funzione rituale, analogamente a quanto avviene nei siti megalitici della Sardegna meridionale (Pranu Mutteddu) e nel sud della Corsica (Cauria e Palaggiu), dove questi allineamenti di menhir vengono chiamati filarate. E’ questo uno dei più suggestivi luoghi di culto e delle espressioni della spiritualità delle popolazioni che abitarono l’isola durante l’età dei metalli.
Sulla via dei tratturi
Ci lasciamo alle spalle i Sassiritti e proseguiamo in direzione Vallebuia attraversando un territorio un tempo costellato di vigneti affacciati sul mare. Fino agli anni 70 vi si potevano vedere coltivatori impegnati nei lavori della vigna; in settembre ed ottobre poi il paesaggio si animava per la presenza di donne e bambini intenti alla vendemmia, mentre gli uomini facevano la spola verso il paese con i somari carichi di uva stivata nei tinelli. Oggi sono rimasti i terrazzi in muro a secco degradanti verso il mare ormai ricoperti dalla macchia e dai rovi. Di questi ultimi, i maturi a portata di mano contribuiscono a soddisfare la nostra necessità di energia per proseguire, altro che barrette e bevande isotoniche! Stiamo camminando al limite della zona dei pastori che un tempo custodivano le greggi nella Chiusa di Casevecchie appena sopra di noi. Quelli davanti a noi calpestano dell’elicrisio ed il suo odore dolciastro ci arriva alle narici prepotente. Di questo mondo antico, che sfioriamo appena, possiamo ammirare un magnifico demolito pastorale, ai margini del sentiero. Ha pianta circolare, la copertura è una falsa cupola realizzata con giri di sassi progressivamente aggettanti verso l’interno, è provvisto di un finestrino e di una piccola porta sapientemente orientata in modo da non essere esposta ai venti prevalenti. Spesso adiacente era un recinto per gli animali costruito con un muro a secco basso. L’insieme del demolito e del recinto costituiva il caprile. Ve ne sono oggi ancora oltre 30 quasi tutti nel massiccio del monte Capanne specialmente nel versante sud. Questa concentrazione insieme ai ritrovamenti di fornelli, bollitoi per il latte, nonché di attrezzi per la filatura testimoniano la vocazione antica alla pastorizia degli abitanti di questa parte dell’isola. Più avanti sul percorso, all’interno del comprensorio delle cave antiche, troviamo un interessante demolito realizzato sfruttando una particolare formazione geologica, il tafone, chiuso nella parte anteriore da un imponente muro a secco.
La macina non macina più
Proseguendo lungo il sentiero scorgiamo sopra di noi la mole del mulino di Moncione. È il più grande e bel mulino dell’Elba. Originariamente di ridotte dimensioni, possedeva una ruota idraulica orizzontale (ritrecine) il cui asse era solidale con l’elemento superiore della macina, che scorreva con moto circolare sulla sottostante porzione fissa. È ancora visibile il locale a volta dove era collocato il ritrecine (carcinaio) e l’ambiente soprastante con le macine. Tra il 1880 ed il 1890 il mulino fu ampliato con l’introduzione dì una grande ruota verticale a cassette ed un complesso sistema dì ingranaggi per moltiplicarne la velocità; in tal modo la produzione fu incrementata fino a 4 quintali all’ora. Gli ingranaggi vennero trasportati a dorso d’asino, mentre l’asse della ruota – un solo pezzo da 12 quintali – fu condotto in parte sopra un carro e in parte trascinato a braccia.
I Sampieresi che avevano collaborato all’impresa furono poi invitati ad una grande festa tenutasi a Moncione per l’inaugurazione del nuovo impianto. II grano si trasportava al mulino a dorso d’asino e nel percorso di ritorno si riportava a casa la farina, il frutto di tanta fatica.
II mulino ha cessato dì funzionare intorno al 1910. Nel 1935, in occasione della guerra d’Africa, le parti in ferro (ingranaggi ed asse) furono rivendute per 270 lire. L’edificio è tuttora integro: sono ancora visibili il bottaccio, la condotta forzata e i locali per la macinatura del grano. Per raggiungerlo attraversiamo il fosso omonimo e poco oltre incontriamo un quadrivio: un sentiero ci porta in alto verso il mulino, ma noi giriamo a sinistra prima del molino per visitare una magnifica tomba a cassetta.
Arrivati infatti in località “Lo Spino”, su un piccolo pianoro sovrastante il sentiero n°17 alla pendici di Pietra Murata, si trova una tomba a cassetta attribuita al periodo villanoviano (circa 900 a.C.). Solitamente queste necropoli erano costituite da recinti circolari o rettangolari di lastre di granito, nel cui settore centrale si trovavano piccole tombe a cassetta destinate a contenere le ceneri dei defunti. Al loro interno veniva posta un’urna cineraria biconica protetta da una ciotola-coperchio, insieme al resto del corredo funebre formato da vasellame ed oggetti appartenuti agli inumati (monili, armi). Esempi di simili sepolture a casetta si trovano anche in area ligure ed apuana.
Il lavoro nelle cave
Ritorniamo all’incrocio da poco superato e scendiamo a sinistra in direzione delle cave antiche. Lungo il percorso siamo vediamo ed annusiamo altri profumi caratteristici dell’isola: rosmarino e salvia, i cui fiori sono gioielli di natura. Fausto ci racconta che, sparse sul territorio, lungo le valli di Cavoli e Seccheto, si estendono dal mare fino ai 250 m. delle Grottarelle. Qui si può visitare la cava meglio conservata, forse grazie alla mancanza di strade che hanno impedito il riuso di sbozzati e manufatti; si ha infatti l’impressione che le attività si siano interrotte all’improvviso per un evento traumatico.
Vi si possono leggere facilmente le successioni delle fasi di lavorazione: le caesure (cuniere) preparate per il taglio dei blocchi, lo sgrosso e la finitura delle colonne. Si può immaginare la complessità del trasporto a valle dei grossi manufatti anche di 15-20 tonnellate caricati ed assicurati sulle grosse lizze e fatti scivolare fino al mare. Sulla spiaggia le colonne erano imbarcate su zattere o su navi onerarie con destinazione Roma e successivamente Pisa.
Da qui sono partite alcune colonne del Pantheon (secondo il Vasari), le 24 colonne della navata centrale del duomo di Pisa, le colonne di San Michele in Borgo, di San Frediano, di San Sisto, di San Zeno, di San Paolo a Ripa d’Arno, di San Piero a Grado.
Non proseguiamo verso il basso, riservandoci di visitare gli altri siti di Cavoli durante il ritorno da Vallebuia verso la quale ci incamminiamo dopo aver riguadagnato l’incrocio.
Ci inoltriamo in un mondo di vigneti ormai sepolti dalla macchia bassa, di fronte oltre la vallata, scorgiamo la Piana alla Sughera, sito megalitico analogo ai Sassiritti ricco di sepolture e di menhir. In alto a sinistra il monte Cenno con i suoi caprili e più giù Grottavallecchia dove si spingevano gli ultimi vigneti. Sulla sinistra in basso la costa con la vista dall’alto di Seccheto con la sua spiaggia ed in lontananza la punta di Fetovaia con la sua stupenda spiaggia. Ora che il sole è un po’ alto alcuni di noi si vorrebbero trovare laggiù e tuffarsi in mare. Adesso il sentiero scende ripido verso Vallebuia, intravediamo sulla destra il bigo della Cava delle Lecce abbandonata e raggiungiamo una strada prima sterrata, poi asfaltata che si dirige verso Seccheto. In prossimità della località ”La Cavallina”, sulla destra, un breve sentiero segnalato dall’indicazione “Sito Archeologico” ci porta alla colonna nel fosso di Vallebuia.
Lavorata per 2/3, giace di fronte al masso dal quale fu distaccata; sono chiaramente visibili i segni della caesura utilizzata per il taglio, con le tracce lasciate dalle traiettorie curvilinee della vacena usata per lo scavo della trincea. Le dimensioni del manufatto sono imponenti (6,35m di lunghezza per 0,92m di diametro), e una volta ultimato avrebbe raggiunto un peso dì circa 10 tonnellate Non si conoscono i motivi per i quali la colonna rimase incompiuta.
Riguadagnata la strada asfaltata, dopo un breve tratto, sulla riva sinistra del fosso, segnalata da apposita freccia, possiamo osservare una grande caesura (cuniera come la chiamano i vecchi scalpellini) di epoca romana. Il taglio, mediante l’inserzione di cunei di legno messi in tensione e bagnati avrebbe consentito il distacco di un blocco di m 1,4 x 1,4×20 adatto alla costruzione di una colonna monolitica di dimensioni imponenti. Ce ne parla un illustre geologo Carlo De Stefani nel suo: Le Cave di granito al Seccheto nell’Isola d’Elba, 1907 – “ … un taglio a sinistra del Rio di Vallebuia, … è lungo 20m in roccia uniforme, e vi si vede sbozzata una colonna del diametro di m. 1,40”
Proseguiamo verso Seccheto, svoltiamo verso “via della cavallina”, oltrepassiamo l’abitato percorrendo prima un sentiero, poi una strada sterrata e raggiungiamo la ripida salita che porta al campo sportivo. Qui possiamo fare una breve deviazione, segnalata, per visitare le cave marittime. Sulla parte sinistra dell’insenatura del Seccheto, in località Le Conche, sono visibili le tracce di una cava antica, forse di età romana, oggi sommersa. Si possono osservare i gradoni risultanti dall’estrazione di blocchi granitici che sì spingono fino a 1,5 metri di profondità e numerose caesure a pelo d’acqua, approntate per il taglio di altri blocchi. La particolarissima posizione di questo sito estrattivo fu evidentemente scelta in funzione di un ottimale e rapido carico dei manufatti a bordo delle naves lapidariae.
Ritorniamo sui nostri passi e, superata la salita, costeggiamo il campo sportivo fino ad imboccare la strada vicinale Seccheto-San Piero, un tracciato antichissimo probabilmente già utilizzato dai Pisani per raggiungere dal presidio fortificato di San Piero le grandi cave di Seccheto e Cavoli. Fino agli anni 60 è stata la via di comunicazione principale tra Seccheto e San Piero utilizzata per i normali collegamenti, per il trasporto dei morti al cimitero di San Piero e per i trasferimenti di massa in occasione delle feste, quando molti con masserizie ed animali al seguito rientravano per un breve periodo nel paese di origine.
Risalendo verso Bollecaldaie (Cavoli) possiamo fare una breve deviazione per “La colonna Pisana”.
Di mole imponente (7,80m di lunghezza e 0,90m di diametro, con un peso dì circa 13,5 tonnellate) fu abbandonata lungo il pendio, pressoché ultimala, probabilmente a causa di una vistosa sfaldatura verificatasi durante la lavorazione. Sulla superfìcie sono incise delle lettere con ductus specchiato, tra le quali si leggono O PE, verosimilmente a significare Opera pisana, committente della colonna.
Il manufatto potrebbe far parte di un lotto di colonne destinate al Duomo di Pisa, commissionate per sostituirne otto poste nella navata centrale irrimediabilmente danneggiate a seguito dell’incendio avvenuto nel 1595, le notevoli dimensioni, del resto, corrispondono a quelle indicale dalle cronache. Sulla parete rocciosa dietro la colonna sono ben visibili le tracce del taglio che provocò il distacco del blocco da cui essa fu estratta. Rientriamo sul sentiero ombreggiato dal lentisco (Pistacia lentiscus L.), le cui foglie se schiacciate rilasciano una gradevole fragranza verde, e proseguiamo verso San Piero. Attraversato un tratto di strada asfaltata, anziché riprendere il sentiero segnalato che sale verso San Piero, proseguiamo tenendo la sinistra finché raggiungiamo “la nave”. E’ forse il manufatto più celebre, citato in tutte le cronache dei viaggiatori che hanno visitato l’Isola nei secoli.
Dal “Zibaldone di memorie” di Coresi Del Bruno (1729): “ … et in una valle distante cinque miglia dalla terra di S. Piero, vi è ancora un abbozzo di nave in figura antica dell’istessa pietra lunga braccia 6 … ”
Da “Voyage a l’Isle d’Elbe” di Arsene Thièbaut de Berneaud (1808): “Più in alto ho trovato un grande vaso che gli elbani chiamano la nave: è il bacino di mezza fontana. Il lavoro non è che abbozzato; intanto l’occhio sco¬pre già tutto il disegno che mi è sembrato leggero per quanto corretto.”
Da ”A Tour Through Island Of Elba” di Richard Colt Hoare (1814): “Ho anche osservato un grande blocco di granito lavorato in modo da ricavarne una vasca come quelle che gli antichi usavano per le loro fontane; lo scavo interno era già cominciato, come pure le forme dei due manici … Il diametro della … vasca chiamata «La nave», è di circa 6 piedi e 9 pollici” .
Non finito di lavorare ma già capace di raccontare la raffinatezza della lavorazione è chiamato “la nave” per la forma che potrebbe ricordare un’imbarcazione.
Vasca secondo alcuni (G.Manoaco 1965) o altare d’età classica secondo altri (M. Zecchini 1982) il manufatto è tuttora collocato nel piazzale di cava dove fu estratto e sagomato. Secondo un’altra ipotesi (H.W. Williams, 1820) si tratterebbe di un fonte battesimale d’età pisana; il duplice rilievo rappresentante due bucrani dalle corna stilizzate, insieme alla concavità interna non portata a termine, potrebbe confermare questa ipotesi (S. Ferruzzi, 2007), in quanto l’iconografia medievale spesso prevedeva che le vasche battesimali ad immersione fossero simbolicamente sorrette da dodici tori (in numero pari alle tribù d’Israele). Tale simbologia iconografica fu successivamente ripresa dalla setta dei Mormoni, i cui fonti battesimali erano interamente sorretti sul dorso di dodici tori disposti radicalmente rispetto alla soprastante vasca.
Proseguiamo oltrepassando un ponte in pietra, quindi in corrispondenza dell’elettrodotto che attraversa la strada, sulla sinistra imbocchiamo un sentiero che ci porta con una rapida discesa al “bacino”. Già visitalo dal viaggiatore Ser Richard Colt Hoare nel 1779, fu in seguito così descritto nel suo libro A tour through of Island of Elba del 1814: “In un altro grosso blocco di granito nel tetto del fiume, ed ancora unito alla roccia viva della montagna, ho notato la traccia di un altro cerchio, che era stato probabilmente scolpito per scavare un’altra vasca”.
Di dimensioni più grandi della cosiddetta Nave, è un bacino di circa 3,5m di diametro, appena sbozzato situato sull’argine del Fosso di Cavoli.
Probabilmente, come la Nave, era una vasca battesimale d’età pisana; anche in questo caso, il manufatto venne abbandonato sul sito di lavorazione.
Ritorniamo sui nostri passi ed oltrepassata la Nave ci immettiamo sulla destra in un piccolo sentiero che attraversa un luogo ricco di antichi reperti, tra gli altri una grossa colonna semi finita abbandonata sul pendio e dietro una cava con segni di numerosi tagli. Raggiungiamo rapidamente il sentiero che porta a S. Piero e dopo una breve ascesa ci ritroviamo al bivio delle Grottarelle dove il nostro itinerario ad anello si conclude. Sul ciglio alla fine del sentiero dove ciascuno di noi saluta con gratitudine Fausto per la sua grande competenza e disponibilità siamo attratti da un odore familiare. E’ la nepitella (Calamintha nepeta) un tipo particolare di menta selvatica dal profumo fresco e pungente.
Certo è che tutto il percorso era segnato non solo dal paesaggio e dai siti archeologici, ma anche da profumi, tant’è che qualcuno propone di segnare sulla mappa anche la posizione delle erbe aromatiche che abbiamo incontrato. C’è chi incomincia anche a declamare ricette nelle quali si potrebbero impiegare quelle erbe, a partire dalla nepitella che una signora ha raccolto per metterle nelle polpettine di pesce che farà per pranzo.
Ecco la parola magica: pranzo!
Dopo una passeggiata del genere ce lo siamo proprio meritato e non vediamo l’ora di assaggiare qualche buon piatto della tradizione elbana.