il richiamo della terra dai fornelli alla zappa
Lo avevamo lasciato nell’atto del suo gran rifiuto, Damiano Donati, quando subissato dai riconoscimenti quale migliore chef emergente (en plein mai visto, dal Gambero Rosso al Touring Club, praticamente l’intero arco gastronomico) aveva deciso a sorpresa di bloccare tutti con la forchetta a mezz’aria e l’acquolina in bocca. Come un Cincinnato della giovane Italia, dagli allori pubblici al ritiro anticipato. Troppo forte il richiamo della terra, da cui come cuoco sentiva di avere tutto da imparare, in cerca di un contatto intimo con la materia; o forse la pressione psicologica del giudizio martellante, sempre sul punto di schizzare fra l’attaccatura della toque e il bavero bianco della divisa. Dai fornelli alla zappa, allora; dal clangore massmediatico ai silenzi degli orti toscani, arati e concimati per un anno e mezzo. Oggi di nuovo con il grembiule allacciato, finalmente: ed è questa la notizia. Damiano Donati è tornato con un concetto su misura di ristorazione.
Sono andirivieni che possono ricordare le turbolenze di Paolo Lopriore, tormentato da una passione culinaria capace di divorare in ultima istanza anche il cuoco, per forchetta il demone creativo e per coltello il bisturi affilato di una critica sempre in cerca di cavie. Eppure il cuoco torna sempre sul luogo del delitto, magari in vesti nuove. Ripiegando panneggi e lustrini della ristorazione gastronomica in favore di una mise giovane e informale. Nel caso di Donati è stata la volta dell’esercizio inaugurato il 15 maggio da una coppia di amici, Tommaso e Jacopo. Un locale giocato sul tema dell’officina, punzecchiato da viti e bulloni affondati in materiali rough, fra mobili di recupero scovati in vecchie fabbriche e calzaturifici. Elegantemente clochardiste, come direbbe qualcuno, forse un pizzico modaiolo. In sintonia, ed è quel che conta, con una cucina antisettica per pulizia e millimetrica nelle esecuzioni, popolare nel target e nelle ispirazioni. Il cui spazio fisico si lascia ammirare oltre le finestre in una luccicanza d’acciaio.
Si chiama il Punto, per una prima forma di understatement, ed è ubicato proprio di fronte allo svirgolare esterno di piazza dell’Anfiteatro, con i ruderi inglobati suggestivamente nelle abitazioni. Pieno centro di Lucca, quindi, il portone sotto l’affresco di una Madonna che la borsetta tradisce prostituta e icona di un bordello. All’interno una quarantina di coperti su tavoli grezzi e nudi; appena un rettangolo di pietra a sostenere le posate e un disco per il pane (ciclopica pagnotta da lievito madre a base di mosto d’uva), al centro il tovagliolo con l’effigie di una forchetta-tenaglia. Si sparpagliano in parte nella grande sala con cucina a vista e banco bar in cartongesso, ferro e cemento; in parte nel cortile, che fino a qualche anno fa fungeva da parcheggio. Il locale, infatti, è stato allestito completamente ex novo, canna fumaria compresa.
Umiltà intesa come vicinanza al suolo (humus)
Un progetto cucito su misura per Donati, nato a Lucca 27 anni fa e a Lucca ritornato dopo una serie di avventure formative, compiute sui banchi dell’Università di Scienze Gastronomiche come nelle cucine del Butterfly e delle Bollicine di Lucca, dell’Henri di Viareggio, di Villa Maria Luigia (fondamentale per le paste ripiene) e delle Calandre; propedeutiche al triennio 2009-2012, speso trionfalmente al Serendepico, prima di cercare dell’altro. “Alla Ceretta, dove coltivavo con metodi biodinamici, quando mi trovavo a dover tritare una carota provavo un sincero dispiacere”, dice. “Perché avendo collaborato alla sua nascita, che impiega 3 mesi di tempo, la sentivo come una violazione”. E dai palleggi fra le zolle Donati ha contratto ben più di una spolverata di terra sulle suole: piuttosto un impulso etico fatto di grande umiltà, nel senso etimologico della vicinanza al suolo, e rispetto per il prodotto, mai costretto entro giochi preordinati ma lasciato libero di esprimersi in perfetta autonomia. I comprimari diventano spesso protagonisti, nel ribaltamento delle gerarchie di cucina. Soprattutto cade quella reductio ad unum, o meglio reductio ad coquum, che faceva dello chef il demiurgo del creato. Donati la chiama “cucina oggettiva” ma la personalità non ne scapita affatto. Si esprime piuttosto nell’esaltazione dei lineamenti dei singoli ingredienti, come una sorta di caricatura che qualcuno ha paragonato alla cucina bruta di Nicolas Le Bec. Vi collabora un grande, fidato secondo: Ernesto Della Santa.
La carta è succinta: contempla 4 antipasti, 4 primi, 4 secondi e 4 dolci, rispettivamente al prezzo di 9, 12, 16 e 6 euro, con la possibilità di comporre le formule “assaggi d’officina” (una portata per categoria) a 40 euro e “assaggi d’etichetta” (con un antipasto e un primo in più) a 60; più qualche fuori menu per sondare la clientela e il futuro. Il tagliere di formaggi costa 10 euro; il coperto, l’acqua e il caffè 2.
Si comincia alla grande con la gallina in tempura, dove il più umile dei pennuti assurge all’Impero del Sol Levante. Riassorbe al suo interno la possibile salsa grazie alla marinatura in aceto di mele, che riporta sensorialmente in Oriente. Per antipasto vero e proprio la melanzana servita intera, come nella preparazione del famoso caviale, con “falafel” di lenticchie: una giustapposizione di testure dove l’ortaggio si converte naturalmente in crema, valorizzato nella sua integrità.
Stesso vitto pitagorico nella frittella di ceci con finferli, caviale battuto di melanzana, peperone confit e burrata, dove i singoli ingredienti, ciascuno dei quali è sottoposto a una preparazione indipendente, non cercano punti di contatto o affinità organolettiche ma mettono reciprocamente in risalto le loro differenze e individualità. Ortaggi che continuano ad arrivare due volte a settimana da un’azienda biodinamica, la Nico Bio, perché il cordone ombelicale con la terra non è stato reciso; mentre le erbe aromatiche sono colte dallo chef ogni giorno.
Stupefacente il riso mantecato al Parmigiano con agretto di more e bottarga, triangolo di grassezza, acidità e sapidità che origina un gusto nuovo; freschissima la ricciola appena scottata con pomodori confit, zucchine, capperi e acqua di pomodoro, simile e diversa dalla puttanesca di Uliassi. Il maialino, cotto per 48 ore a bassa temperatura, è forse l’unico lascito del Serendepico: imperfettibile nel contrasto netto fra la crosta biscottata e il cuore fondente al limite della burrosità; sul piatto lo scortano guarnizioni di stagione, come la melina tannica e acidula al forno, a compensare la grassezza, e le patate arrosto con la buccia.
Altro acuto in chiusura grazie alla torta di mele con crema pasticciera profumata al liquore del pastore, che dietro sembianze e blandizie del comfort food nasconde l’acrobazia di una sofficità priva di grassi animali (l’impasto contiene solo olio) e la seduzione degli aromi di pasticceria trasmessi dal caglio di vitello all’alcolico. Piatto personale e intimistico, a basso volume come l’eloquio di Donati, del quale condivide l’animo schivo e poco appariscente.
Singolare anche la carta dei vini, suddivisa in “vini d’officina” e “vini d’etichetta”, ovvero in bottiglie “operaie” scelte dalla casa quali “snodi perfetti e luccicanti per far pompare i pistoni” ed evergreen, “vecchi arnesi del mestiere che hanno dato, danno e daranno lustro e prestigio alla cucina italiana”.
I primi, selezionati in base al rapporto qualità/prezzo, sono minerali, dritti e dotati di buona acidità per valorizzare la pulizia dei piatti, spesso biodinamici secondo la scuola naturale impiantata a Lucca da Tenuta di Valgiano; i secondi blasonati e anche internazionali. In tutto fanno una cinquantina di etichette con una cospicua mescita al bicchiere.