Pochi altri ristoranti italiani rappresentano “l’istituzione” come il Don Alfonso. La famiglia Iaccarino ha infatti realizzato negli anni una vera fabbrica del gusto e dell’ospitalità che include l’azienda agricola “Le Peracciole” a Punta Campanella, miniera di favolose materie prime, un relais di charme e ovviamente il ristorante, cuore nevralgico intorno al quale ruota tutto l’impero Iaccarino. In un ambiente solare e raffinato nel quale respirare il contesto autentico della costiera amalfitana, l’esperienza ad un tavolo del Don Alfonso è davvero totalizzante. E’ in questo sfavillante gioco estetico che si assapora una cucina di vigoroso stampo mediterraneo, dove sentire gridare nel piatto i tesori di questa terra ricca di sapori e colori.
Una cucina inchiodata al territorio, ma che sa guardare oltre e proporsi in maniera evoluta senza mai tradire, però, la sua origine. Solo un nucleo affiatato come quello della famiglia Iaccarino è riuscito a costruire senza stonature un’orchestra, dove gli orchestrali passano ma la musica resta sempre un piacere da ascoltare. Certo, a volte, si avverte qualche piccola stecca (i pani, ad esempio, non ci hanno meravigliato), alcune preparazioni non convincono tutta la critica, le guide si divertono a togliere e aggiungere frazioni di punto, ma il Don Alfonso resta un riferimento per l’italianità gastronomica e per gli appassionati che da mezzo mondo vengono qui a Sant’ Agata a farsi coccolare dalla famiglia Iaccarino. In cucina Ernesto, figlio di Alfonso e Livia, ha raccolto l’eredità diretta dal padre e tiene le redini della brigata con piglio sicuro e capacità; in sala l’altro figlio Mario garantisce un servizio e un calore che non hanno eguali. Alfonso e Livia, tuttavia, sono sempre ben presenti: non lesineranno un saluto e un ringraziamento per la visita e magari si intratterranno a parlare del successo del loro ristorante di Marrakesh nel prestigioso resort Momounia. Tornando al Don Alfonso, appena aperto il menù e scorse le portate, non possiamo fare a meno di registrare la presenza di quel file rouge che lega sempre mozzarella, basilico, cipolle, olive, arance, spinaci, limoni, zucchine, ortiche, fagiolini, melanzane, patate e così via in una sequela di tutto ciò che il territorio può offrire e che è alla base delle preparazioni. Così la celeberrima zeppola di scampi fritti con salsa in agrodolce viene accostata ad un infuso agli agrumi con dei tagliolini di ortaggi, mentre i veli di cipolla cotti sotto la cenere ripieni di gamberetti, lardo d’Irpinia, prosciutto tostato con la farina di crostacei sono arricchiti dalla menta e dalle olive nere. Ernesto dimostra poi lungimiranza e audacia nei commoventi spaghetti gragnanesi con ostriche, cipollotto, tartufo bianco all’infusione di tè verde: uno scontro fra sapori titanici che in bocca sortiscono un effetto sorprendente di rara piacevolezza.
Apprezziamo poi l’estrema delicatezza e i tratti quasi eterei dei nudi di ricotta (ricetta storica) in ristretto di cappone di mare con infusione di verbena, bucce di limone e ortiche. A seguire due portate di pescato di gran livello, a cominciare da una di quelle che lasciano il segno – cernia ai sentori di vaniglia e limone, bietola, crocchette allo zenzero e zabaione alla colatura di alici – dove la sferzata dolce della vaniglia provoca immediati brividi (e forse non ci convince subito), ma poi il piatto scivola via in una compiuta mescolanza dei sapori.
La seconda invece – triglia di scoglio con polvere di capperi, rucola selvatica e riduzione di Aglianico – ci ha colpito per la sua schiettezza e perfezione tecnica: un piatto minimalista (anche nella presentazione), potremmo dire pierangeliano per creare un parallelo, ma ci sembra giusto definirlo donalfonsiano. Citiamo anche l’eccellente benvenuto della cucina: salsiccia, gnocchetti di zucca, tartufo nero su un letto di peperoni verdi dolci. L’ampio menù propone inoltre una serie di portate per chi, non volendo avventurarsi nelle proposte più ardite, desidera godersi piatti come gli gnocchetti di patate con scamorza affumicata, basilico e pomodorini; i ravioli acqua e farina ripieni di caciotta con pomodorini e salsa di mozzarella, la riscoperta dell’acqua pazza e così via, a significare che la grande cucina parte sempre dalla semplicità e dalla selezione delle migliori materie prime. I dolci, in conclusione, rappresentano fedelmente la tradizione e la classicità, come la sfogliatella napoletana al profumo di vaniglia e cannella (struggente) o il collaudatissimo impressionismo di crema e zabaione al caffè (goloso e giocoso).
Dolci che, inclusi i sorbetti al cedro e al limone, sono la perfetta conclusione di un’esperienza gastronomica che sancisce una sintesi ideale fra eleganza e territorio. Un’esperienza che terminerà nell’imperdibile viaggio nei meandri sotterranei di un antico cunicolo romano dove sono ricavate le cantine, nelle quali vedremo scorrere davanti ai nostri occhi le migliori bottiglie da ogni angolo del pianeta e che saranno la cartolina da conservare a lungo fra i ricordi di una giornata indimenticabile.
Di Simone Rosti