Sono 88 milioni gli ettari di terra fertile comprati o affittati da Stati, colossi economici o multinazionali. I due terzi dei terreni sono situati in Africa, ma 17 milioni di ettari si trovano, per esempio, in Ucraina e tanti di più nel Sud-est asiatico e in America Latina.
Il fenomeno si chiama Land Grabbing, qualcosa come “grattamento della terra” ossia accaparramento di enormi estensioni di territori in Paesi poveri o sottosviluppati.
Fanno allegramente la spesa mediante contrattazioni opache e farraginose – il più delle volte non trascritte nemmeno sui registri delle nazioni occupate e comunque con indicazioni numeriche molto lontane dall’enormità degli spazi effettivamente sottratti alle popolazioni locali – in primis Usa, Cina, Regno Unito ed Emirati Arabi, ma anche Brasile ed Egitto che si allargano acquistando vasti terreni dagli Stati confinanti più poveri.
Ce ne vogliamo fregare? Difficile, visto che la cosa ci riguarda ormai da vicino.
Quella della Land Grabbing è una delle prime cause della desertificazione delle foreste, soppresse a favore delle coltivazioni intensive (di biocarburi, di alberi di gomma, di palme per olio…) e quindi dell’abnorme ed evidente aumento delle temperature del pianeta, ma è causa anche dell’esodo di milioni di migranti espulsi dalle terre che hanno sempre abitato o impoveriti da potenze che sfruttano le ricchezze dei loro Paesi sottraendo risorse senza redistribuire nulla.
Chi pensa che le vittime siano solo loro, gli ultimi, quelli che non hanno diritti e accesso a nulla, si sbaglia: quello della sostenibilità ambientale, economica, sociale è un problema che sta colpendo anche noi, sempre più tangibilmente.
I ragazzi che sono scesi in piazza in 1.700 città del mondo con cortei, anche nelle città di nazioni tra le più inquinate al mondo come l’India, la Cina, la Russia e l’America Latina, hanno dimostrato una consapevolezza superiore a quella di tutti gli Stati “evoluti”che per opportunismo e interessi immediati non hanno mai voluto affrontare la situazione reale.