32 anni, di cui quasi 20 passati ai fornelli e 8 sotto i riflettori. Per tutti noi Lorenzo Cogo è una “vecchia” conoscenza, eppure gran parte dei cosiddetti emergenti è passata all’anagrafe prima di lui. Fiamme e luci che non invecchiano, date le sembianze da ragazzino, mercuriale e imponderabile come le sue ricette. “Sono cresciuto sotto il tavolo della cucina di mio padre, nel Bistrò dal Cogo di Thiene”, racconta mostrando una foto che lo ritrae in divisa a tre anni, abbracciato a Mariano, suo sosia nel tempo. Un nativo culinario cresciuto in fretta, protagonista di un miracolo anche imprenditoriale.
Il locale multifunzionale che ha aperto a Vicenza quasi tre anni fa protende verso la Basilica Palladiana il dehors con vista dello storico caffè Garibaldi. Gli interni sono stati rimaneggiati creativamente, in modo da riprendere linee e colori delle architetture rinascimentali, straniate da sculture in sospensione e collage di quadri: passati i tavolini, coperti o meno secondo la stagione, dietro il bancone la cucina, modernissima, è a vista. Durante il pranzo vi si destreggia Lorenzo in persona che, pinza all’occhiello e walkie talkie nel taschino per comunicare con gli altri piani, rifinisce i piatti del bistrot.
Non c’è infatti un unico punto di ristoro: sulla sinistra la vetrinetta ospita la pasticceria della casa e, subito dietro, si accede allo shop con gelateria artigianale; mentre a destra la scala sale verso il ristorante gourmet, anzi no, visto che l’accesso è sbarrato. L’ingresso vero è a lato, sulla piazza, attraverso un portone dedicato da cui si accede a un ascensore. Nel complesso un locale unico e impegnativo, fra i più belli d’Italia, esteso su oltre 600 metri quadrati. Eppure fino a qualche anno fa Lorenzo era solo il bravissimo chef di un ristorantino da 5 tavoli. “Come ho imparato a pilotare una struttura del genere? Da solo. Mi sono chiuso qui dentro, dormendo in ufficio, perché sono il superstite di un modo di lavorare che sta scomparendo: la gavetta. Ho cominciato da piccolo, a 14 anni in una pasticceria della zona, poi in diverse trattorie. Tutte esperienze che mi sono tornate utili, insieme all’amicizia di chi mi ha aiutato. Quando mi è arrivata la proposta, ero già innamorato di questo posto, perché volevo cogliere la sfida del territorio, che non aveva grandi ristoranti, mentre oggi siamo tanti. L’essenziale è capire cosa desiderano le persone: ci vuole soprattutto l’intuito”.
Ogni cosa viene prodotta internamente, nelle due cucine del bistrot e del gourmet, e nel laboratorio di pasticceria sotterraneo, dalla croissanterie alle monoporzioni. E il ritmo è incalzante: alla colazione seguono l’aperitivo, poi il lunch, il servizio del tè o degli aperitivi serali e infine la cena.
Il luogo è tornato patrimonio della città: il caffè, griffato Giamaica, è fra i più economici di Vicenza e può essere sorbito in un luogo unico al mondo. “Poi c’è la sfida del bistrot, perché ho sempre sognato di tornare al format di famiglia, facendo qualità. Oggigiorno viviamo tutti in una bolla, attaccati al telefonino, ed è solo a tavola che stiamo insieme: è la cucina che ci salva. Quindi l’informalità è più che mai un’esigenza: questi spazi rappresentano il futuro della gastronomia, mentre tutto ciò che è gourmet resterà sempre una nicchia. Non c’è niente di più bello che stare in mezzo alla gente, vedere le persone che si divertono e portano con sé i figli o i genitori. Ci ho investito tantissimo, e non solo perché rappresenta la base strutturale dell’azienda. Mi ha impegnato in un cambio di mentalità, dove la priorità non sono più l’identità e l’esclusivismo. Anche se alla fine l’ospite cerca ovunque le mie proposte autoriali. Per questo io ci sono sempre, in prima linea: non è l’ennesimo bistrot fatto per finanziare altro, dove lo chef è assente”.
La geografia variabile della cucina è rimasta invariata: come uno slalom intorno al mondo, che schiva con accortezza la Francia. “Perché ho sempre pensato che un ristorante, per avere senso, ha bisogno di una propria identità. Ho sempre cercato di non essere la copia di qualcun altro, e la cucina italiana, per la mediazione di Marchesi, conserva una nitida impronta francese. Visto che adoro viaggiare, mi sono subito fiondato in un continente inesplorato, l’Australia, dove ho trovato livelli altissimi; poi in Spagna e in Giappone, Danimarca e Inghilterra”.
Il risultato è una cucina che Lorenzo definisce “istintiva”, ma solo perché la cultura si è convertita nell’impulso di una seconda natura. Ed è forse questo il lascito più profondo dell’esperienza orientale: una disciplina che è diventata grazia secondo il modello zen. Per il quale in qualsiasi ambito la tecnica va dimenticata e l’inconscio va lasciato solo di fronte alla situazione da affrontare: in quel momento allora la tecnica eseguirà i suoi prodigi in maniera automatica o spontanea, come uno specchio riflette involontariamente le immagini che lo circondano.
Ad appena 30 km di distanza, anche i fornitori sono gli stessi di sempre, compresi gli orti di famiglia; ma l’asse della cucina si è spostata, per così dire, dalla natura alla cultura.
È inevitabile che accada in una delle piazze più belle del mondo. “Qui respiro la storia, che significa proporzioni palladiane e via delle spezie.
E questo propizia un nuovo approccio. Non è più come a Marano, dove raccoglievo le erbe spontanee andando al lavoro e fiutavo i minimi cambiamenti stagionali. Qui non vedo niente: in evidenza c’è il luogo”. Vicenza significa una piccola Venezia asciutta: basta percorrere le strade cittadine per rimarcare la mano degli stessi architetti della Serenissima. E, come a Venezia, l’identità è impermanenza e l’ubi consistam un perpetuum mobile: quello stesso viaggio che ha segnato la formazione di Lorenzo, oggi appassionato di spezie. È presso la biblioteca La Vigna che indaga la storia su testi di enologia e gastronomia, antichi o contemporanei, che lo sintonizzano ulteriormente sui luoghi.
I piatti del bistrot sono tanto straordinari quanto ecumenici, per uno scontrino medio che si aggira intorno ai 30 euro. C’è l’involtino di sfoglia di riso con kiwi fermentato, cavolo nero e radicchio alla brace, da intingere nell’olio allo shiso. Un gioco vegano di sponde amare, dolci, acide che rimbalza fra i continenti e Vicenza. Più pop il corn dog in stile street food a base di tastasal, la pasta di salame, impanata e fritta, servita con maionese al mais e senape e pop corn per variare le testure, sensibilissime, di un ingrediente identitario del territorio. Con altri divertissement, fa parte della linea della condivisione a centro tavola. Ma vanno forte anche i piatti di resistenza, carni e pesci sottoposti a cottura diretta nel forno.
Ci sono il galletto, il wagyu e anche la costoletta di cinghiale, con il fondo d’ordinanza, french style secondo gli insegnamenti di Heston Blumenthal, per dare un plus alla potenza, il radicchio e le patate sottoposte a tripla cottura, al vapore, fritte e infornate, in modo da conciliare la superficie vetrificata con il cuore arioso. La carta dei vini è forse meno personale di quella del gourmet, con il Veneto e tanti blasoni italiani in evidenza. Mentre al piano superiore il sommelier Stefano Grandi ha privilegiato bottiglie più impegnative, soprattutto vini naturali e artigianali, che seguono i viaggi della cucina, cosicché la Francia sta arretrando in favore del Nuovo Mondo, anche se il lavoro di scouting è più complicato.
Fra i due esercizi la parete osmotica ha fatto transitare un nuovo stile, più affabile ed elegante, forse perfino più maturo, al riparo di ogni autoreferenzialità, senza scapitarci in creatività e riflessione. Nei piatti del gourmet la tecnica è arretrata, ricondotta a gesto e palato, in un gioco contrastato di elementi integri e sensazioni primarie, che rimpalla gusti, aromi e testure: è l’istinto dell’ingrediente a parlare in prima persona. Con le note fumé del forno, le acidità non omologanti delle fermentazioni e la balsamicità del foraging e delle erbe aromatiche quali retaggio della gavetta internazionale.
E gli ambienti, ispirati al Teatro Olimpico, con il sipario di vetro sul boccascena della cucina e il tavolo dello chef in marmo verde, sono finalmente all’altezza dei virtuosismi culinari.
I menu degustazione sono due: Sostanza, con i signature anche di Marano, a 130 euro e il più contemporaneo Esperienza a 150, costata di rubia gallega compresa. La loro costruzione è felicemente sregolata, ora in crescendo, ora a zigzag secondo la moda kaiseki.
Descrive le evoluzioni di una trottola sul mappamondo, per esempio, il granchio reale, ingrediente iperboreo che schiocca le sue chele per la Spagna (il gazpacho di mandorle), l’Asia (la salsa piccante), il Mediterraneo (la foglia di cappero, le olive, l’origano). Sparando coriandoli di gusto. Me è elegantissima la cappasanta cruda, valorizzata nella sua dolcezza dalle sembianze e dalla struttura di pasticceria. Quindi il pandispagna all’elicriso, la bernese alla vaniglia, tipo crema pasticciera, l’artemisia e un estratto di capasanta essiccata a inzuppare che, con le erbe, sviluppa una sensazione di dessert al Vermouth. Sul filo di seta fra dolce e salato, con i semi di senape per bilanciare. “Un piatto nato assaggiando un mollusco, la sua dolcezza, la sua tessitura”.
Il nuovo Cogo non ha più niente da dimostrare, nemmeno tecnicamente. Lavora anzi in sottrazione di effetti, come prova la tartare di rubia gallega appena coagulata dalla sosta di 10 minuti sulla piastra di sale di Cervia, come un salume subitaneo, riequilibrata nella sapidità dall’acidità della polvere di pomodorini del piennolo e dai mirtilli svedesi, in gelée e in pickles, più la polvere di lenticchie per la nota tostata, il gorgonzola in gocce a ingrassare e la maggiorana balsamica.
Gusti primari anche nel risotto alla genziana verticalizzato con riduzione di peperone al naturale alla base e prugna fermentata in superficie: ficcante progressione dolce/amara/acida. Mentre torna all’eleganza il dessert di rosa e Pastis, con la meringa all’anice, la crema pasticciera al liquore, la polvere di levistico e i petali in agrodolce, più gelée all’aceto di rosa e gelato alla rosa per una multifreschezza che veicola profumo.
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