Per cucina ebraica si intende quella che risponde alle regole dei Sacri Testi: la Torah, cioè la Bibbia in primis, le cui regole principali riportiamo in seguito. La cucina ebraica si è adattata, in seguito alla diaspora, alle cucine delle nazioni con le quali è andata nel tempo a convivere, rispecchiandone prodotti e ricette. Abbiamo così la cucina giudaico romana, quella degli ebrei del Centro Europa, e via dicendo. La cucina d’Israele, sulla quale maggiormente ci soffermeremo, è nata come la semplice addizione delle varie cucine che gli ebrei portavano insieme ai loro flussi migratori, con i loro usi e costumi e con le loro tradizioni. Ancora oggi, in molte case, le famiglie continuano a cucinare i piatti secondo i propri ricordi. Ma è indubbio che, con il passare degli anni, una certa unificazione si è man mano andata creando e a farla da padrona è stata ovviamente la cucina degli ebrei del nordafrica per via della comunanza con i prodotti e il clima del nuovo Stato. Questi ebrei, detti saphardi per la loro origine perlopiù spagnola, furono cacciati via dalla Spagna ai tempi dell’inquisizione e da qui si diffusero in tutta la sponda meridionale del Mediterraneo. Ci si consenta un commento: a quei tempi l’intolleranza era cristiana, mentre ad accogliere e a convivere con gli ebrei furono i paesi musulmani ben più tolleranti!… Cucina vincente quella safardita perché più vicina ai prodotti del luogo e alla forte influenza dei paesi arabi che circondano la giovane nazione. Differenze, però, si sono andate formando con il tempo, anche perché il nuovo popolo ebraico ha rivelato doti agricole sorprendenti. La necessità aguzza l’ingegno e la tensione morale dà la spinta decisiva. Ecco crescere nel deserto non solo i prodotti tipici del luogo, ma oggi le migliori pesche mai assaggiate finora, ottime mele e pere, verdure a volontà e, come vedremo, grandi uve da vino. Un tempo impensabili, ora l’export vanta dei primati singolari, come il foie gras eccellente che rivaleggia con il migliore francese (chiedete al nostro grande chef Vissani che ne fa da tempo largo uso specie della varietà moullard, un incrocio tra l’oca nostrana e quella selvatica dei berberi), e l’agnello ovunque eccellente. Nasce così una nuova cucina che tiene conto del passato, ma che ovviamente i conti li fa poi con quanto si produce in loco. Alle ricette tradizionali se ne affiancano di nuove e forse uno dei piatti più caratteristici è proprio il foie gras alla griglia, spesso sotto forma di spiedini, a costi tutto sommato contenuti. La cucina kasher: siamo sempre diffidenti nei confronti di coloro che impongono regole alimentari, ma certamente ogni religione ha le sue. Può sembrare assurdo dividere gli animali in proibiti e non, considerarne alcuni puri e altri impuri e, a farne le spese, chissà perché, è quasi sempre il maiale che noi metteremmo invece al primo posto. Comunque sia, le regole di comportamento alimentari hanno svolto l’importantissima funzione di tenere unito il popolo ebraico anche durante la diaspora, evitandone la facile contaminazione e la perdita di identità. Le regole dunque derivano direttamente dalla Torah (la Sacra Bibbia) e fanno parte del Talmud, la raccolta delle norme rabbiniche. Anche qui le cose non sono così semplici nemmeno per rabbini. Il progresso porta nuovi prodotti e nuove forme di cotture e le interpretazioni spesso non coincidono. Con il tempo si sono creati dei “distinguo”, cioè c'è kasher e kasher, quello, diciamo, tollerante che segue le regole con una certa flessibilità e quello superortodosso, che raccomanda, ad esempio, di lavare a lungo con una macchina speciale le verdure per assicurarsi che non rimanga nemmeno un insetto (animali impuri), o mette al bando certi prodotti difficili, come i cavolfiori, per evitare sul nascere possibili sorprese. La differenza è stata in una parola: cucina kasher quella dei primi e glatt kasher per i secondi. La regola forse più importante è quella riguardante la carne e il latte. Gli ebrei amano ambedue gli alimenti e ne fanno anzi grande uso, ma la Bibbia raccomanda: non cuocere il capretto nel latte di sua madre! Le conseguenze sono importanti: non solo non si possono mischiare questi ingredienti nel piatto, ma c’è l’obbligo del cambio di posate e di stoviglie e in cucina si tengono le due zone di preparazione ben distante. Addirittura negli alberghi spesso ci sono due ristoranti diversi: quelli per la carne e quelli che offrono i latticini. Quanto al pesce e alla carne, sono entrambe ammesse, con non poche restrizioni. Sono puri i quadrupedi ruminanti con il piede diviso in due e l’unghia fessa, impuri quelli che non rispettano tali caratteristiche (ovviamente il maiale, ma anche il coniglio e il cammello e, ovviamente, tutti i loro prodotti succedanei); i volatili sono in larga parte ammessi, mentre per i pesci occorre fare attenzione. Non sono ammessi quelli senza pinne e senza scaglie, al bando quindi i frutti di mare e i molluschi e tra i pesci lo storione, ad esempio. La cucina ebraica è, ahimè, cucina senza ostriche e caviale e, per la regola precedente, senza lasagne e fettuccine alla bolognese (ambedue prevedono ragù di carne e parmigiano)! Anche sulla preparazione il Talmud è severo. L’animale va ucciso in modo diretto e rapido affinché soffra poco! E soprattutto la carne va accuratamente ripulita del sangue. Gli addetti (shochatim o shochet) devono controllare accuratamente tutta la preparazione. Il taglio viene fatto mediante un coltello affilatissimo recidendo l’esofago e la trachea. Le carni kasher vengono in genere sciacquate più volte, tenute sotto sale e rilavate ancora. Come se non bastasse arriva il Sabato, cioè lo Shabbat (Sabbath), che parte dal tramonto del venerdi fino a quello del sabato. Lo Shabbat porta altre regole. Non si possono accendere fuochi, quindi non si cucina ma non si fuma nemmeno e, ad esempio, non si usa l’auto perché i motori a combustione fanno scintille. Così non solo si va a piedi, ma tocca anche far le scale perché la maggior parte degli ascensori è fuori uso e per l’espresso bisogna a volte aspettare la domenica. Il perché delle regole alimentari Nella cultura ebraica l’alimentazione è considerata come un mezzo di espressione di idee, uno strumento educativo; le regole alimentari, la kasherut, diventano così sinonimo di rito sacro. Interessante sarebbe spiegare, o meglio tentare di spiegare, non tanto le leggi alimentari quanto i motivi che precedono la formulazione di tali leggi. La Torach (Antico Testamento) contiene un’ampia normativa che investe i campi più diversi; molte leggi sono perfettamente comprensibili (leggi contro l’omicidio, il furto, la falsa testimonianza), altre invece hanno un significato nascosto la cui comprensione è spesso ardua. Nel caso della scelta tra animali proibiti o permessi, una delle teorie vede nel disgusto un motivo di proibizione di alcuni alimenti, in particolare insetti. La proibizione, invece, di mangiare uccelli rapaci si riconduce al rifiuto della violenza che caratterizza l’esistenza di questi animali. Infine certi attributi degli animali permessi caratterizzano le virtù (i ruminanti perché ruminare è sinonimo di ricordare; i pesci con squame e pinne perché queste ultime rappresentano la resistenza e l’autocontrollo). E’ innegabile, inoltre, che l’astensione dal mangiare alcuni cibi è una valida difesa da certe malattie, si pensi per esempio ai pericoli di epatite e gastroenterite che si corrono mangiando mitili o a quello dell’aumento di colesterolo generato dall’assunzione di carne di maiale o di insaccati in genere. Il pasto tipico Il buongiorno si vede dal mattino e la colazione in Israele è generosa e in genere concede largo spazio ai formaggi, allo yogurth e soprattutto ai formaggi freschi e leggeri come il cottage cheese. Il pane fa subito capire che le razze sono tante: la pita turca convive con i bagels americani, il lahuhua morbido yemenita con i pretzelns tedeschi. Il pasto in tutto il Medio Oriente inizia con le “mezze”, una serie di delicatezze che in tante varianti si ritrovano lungo l’arco della sponda meridionale del Mediterraneo e che in Spagna si tipizzano nelle locali “tapas”. Sono piccoli assaggi come: pinzimoni con le loro salsine, cubetti di formaggio, verdure e legumi in varie semplici preparazioni, tahini (crema di pasta di sesamo), hummus (pasta di ceci con aglio e tahini), panzerotti rustici salati e piccanti di carne o formaggio, falafel (polpette fritte di ceci e spezie), kibbeh. Molti accompagnati da salse colorate e tipiche come l’harissa (salsa piccante al peperoncino portata dagli ebrei del Marocco) e lo zhoug (simile alla precedente ma yemenita, con l’aggiunta di molto coriandolo). Dopo gli assaggini iniziali si passa al pesce e alla carne. Le preparazioni sono in genere ridotte al minimo e si fa grande uso della griglia. Un pesce tipico per tradizione è la carpa, sia intera che in forma di polpettone (gefilte fish, polpette cotte e servite in uno spesso brodo) e una preparazione che esce dalla semplice griglia è quella di coprire il pesce con una salsa gelatinosa di zucchero e mandorle, usanza importata dagli ebrei polacchi. Ambedue sono pietanze tipiche dello shabbat, come anche il consommè di pollo con le matzah (specie di canederli). Quanto alla carne, la cottura più diffusa è lo spiedo, come in tutti i paesi arabi. Parole come shashlik (pezzi di agnello allo spiedo marinati), shish kebab (fatti con carne tritata con spezie) shawarma (spiedo verticale con carne di montone pressata) sono di uso corrente. Tra i piatti che si possono collegare alle tradizioni più importanti citiamo quelli della “casseruola”, piatti che richiedevano lunghe ore di cottura ma che miglioravano con il tempo e si potevano magari mangiare il sabato quando è proibito cucinare. Il più famoso è forse il cholent, tipico degli ebrei Ashkenazi, gli ebrei di origine dell'Europa dell' Est. E' uno stufato di carne e patate che viene posto in genere al centro della tavola dove tutti possono attingere. Versioni similari sono il dfeena marocchino e il tabyeet iraqeno. Al cholent spesso segue il Kugel, un pudding agrodolce di vermicelli (ricorda vagamente la frittata di maccheroni). Come dolci, i più diffusi sono quelli di importazione araba, fatti in genere di pasta fillo, con mandorle, pistacchi e miele come le bakiava, i ma'amoul, e altri ancora. Un kibbutz Ci interessava vedere come vive un kibbutz nel duemila. Abbiamo fatto una puntata verso il deserto per visitare il kibbutz Maghev. I kibbutz sono nati nel dopoguerra, hanno svolto una grande funzione e costituito un interessante esempio originale di comunismo religioso. Vita in comune senza stipendi, ognuno metteva il proprio lavoro e riceveva in cambio i servizi sociali, scuola, vitto, alloggio, assistenza sanitaria. Tutto ha funzionato bene per i primi tempi, quando era forte la carica di ideali di coloro che per libera scelta avevano seguito questa strada. Oggi, con la nuova generazione che diventa adulta, l’istituzione è in crisi e sta cercando di aggiornarsi alle nuove esigenze. Figli che vogliono fare altre esperienze e altre scelte, figli che non vivono più tutti insieme. E anche il lavoro fa nascere dei problemi: c'è chi lavora di più, chi di meno e chi certi lavori non li vuole fare più. Molti kibbutz sono falliti e altri cercano, come dicevamo, nuove strade. Rimane comunque un’esperienza singolare vedere questi villaggi dove la moneta ancora non è quasi entrata nell'uso corrente. I formaggi dell’eremita Nelle grotte di Gerusalemme nasce una produzione casearia eccellente Vive su impervie colline sassose alla periferia di Gerusalemme, nel Parco Naturale di Safat, come un eremita. Dell’eremita ha l’aspetto un po’ ieratico e il comportamento sostanzialmente asociale, eppure per molti in Italia è un volto noto: i cultori dei grandi formaggi sanno infatti che dal radicalismo delle sue scelte esistenziali nascono formaggi di capra tra i migliori al mondo. Ineguagliabili. Che trascendono gusti omologati e paragoni. Sono gli atavici formaggi di Abramo, prodotti in tutte le stagioni dell’anno con le caratteristiche gustative di ciò che mangiano le capre in quel periodo specifico, secondo il ritmo del tempo e della natura. Come riesce a realizzare formaggi così straordinari? “Sprecando tanto latte e facendo tante prove”, risponde Shay Seltzer, molto divertente e amabile nella conversazione, brusco e scontroso invece se gli si chiede come mai lui, biologo universitario, abbia deciso di vivere da 34 anni, solo con il figlio e 150 capre, in una specie di stazzo costruito in modo approssimativo. Spiega brevemente che dopo la guerra dello Yokipur (1973) ha scelto la vita isolata del pastore. E se la gente vuole i suoi formaggi, è qui che se li deve venire a comprare, in due specifici giorni della settimana. Come scelta di marketing non c’è male. Anche perché sempre ciò che è così irraggiungibile diventa più appetibile. In realtà – lui dice – la scelta consente di praticare prezzi giusti, non gravati dai costi di intermediazione. Fatto sta che anche noi abbiamo fatto una esclusiva degustazione nel suo rifugio isolato, in un anfratto roccioso confinante con la grotta di affinamento dei suoi formaggi. E non la dimenticheremo mai. In foglia di vite, sotto le vinacce, imprigionati nei legni che ne plasmano la forma, scuriti dal tempo di stagionatura e disegnati dalla muffe nobili, ecco i formaggi stagionati da 1 mese a 4 anni. Assomigliano a pyramide, brie, tomini, bitti, ma l’omologazione finisce qui. Profumi e sapori sono sorprendentemente lontani dagli standard e dalle tipologie di riferimento. Persino quel certo sentore di capra tipico di queste produzioni, qui è assente e il sapore ha una purezza ancestrale. Tutti i formaggi hanno il nome di una donna: Shaye sarà pure misantropo ma non sembra affatto misogeno e i sorrisi più maliziosi li fa proprio quando pronuncia i nomi che lo hanno ispirato. Gerusalemme Nota: moneta locale lo Shekel (nis), valore circa 0,1832 euro. Siamo convinti che gli dei sappiano scegliere bene. Gerusalemme è un posto eletto fin dalla localizzazione: pochi chilometri a est ed è subito deserto, di quello vero; nell'altra direzione si arriva sulla piana costiera, dominata dal caldo umido. Qui invece sulle colline è aria serena e leggera che dà i brividi: anche chi non crede si emoziona. In pochi metri si passa dal quartiere armeno a quello ebraico, dal quartiere cristiano a quello musulmano. I passaggi sono segnati dalla consuetudine, gli orari dei bazar dalle festività delle varie religioni. Il Muro del Pianto (il luogo più sacro al popolo ebraico) fa da confine al Grande Tempio della Roccia da dove Maometto è salito al cielo. La chiesa del Santissimo Sepolcro (il punto più sacro al popolo cattolico) è a fianco della Moschea di Omar, ma conserva la sua intimità, nascosta nelle viuzze del quartiere cristiano, umile come la Via Crucis (via Dolorosa, come viene qui chiamata) con le sue stazioni sparse nell' intrico del suk. In tre giorni vedrete santificare Dio in tre lingue diverse. Con le famiglie musulmane che, vestite a festa, passeggiano e pregano il venerdì nei giardini e nei larghi spazi della Grande Moschea, con gli Ebrei che si raccolgono in pentimento di fronte al Muro del Pianto (foto a sinistra in alto), con i Cristiani che seguono la messa al Sepolcro. La Chiesa del Santo Sepolcro è un mondo nel mondo: in poco spazio e allo stesso tempo si svolgono più riti: il cattolico romano, il copto, l’armeno e così via. Ogni rito con i suoi colori e costumi per uno spettacolo di fede senza uguali al mondo. Al centro della città commerciale è un brulicare (salvo il venerdì sera) di giovani e clienti di ogni tipo e religione che affollano mille e una trattoria. Molte sono per i turisti, altre risentono degli influssi americani, tanti pubs, qualche pizzeria. Tra i ristoranti più celebrati l'Eucalyptus, 7 Horkanos St. – 02.6244331. Qui scoprirete una delle grandi cucine del mondo: quella biblica. Moshe Basson sta riproponendo antichi sapori e nuovi abbinamenti. La tavolozza dei suoi prodotti è straordinaria, usa di tutto, dall’issopo, più volte menzionato nei sacri testi, alle foglie di salvia e ciclamino e malva, dal silan (uno sciroppo di datteri simile al miele) alla khubeiza (mallow fruit), alle foglie di garofano, ai bulbi di orchidea usati per i dolci. La sua composizione di foglie di vegetali farcite è un viaggio gastronomico emozionante come la sua ma’aluba (considerata la prima antenata della paella). l suoi fichi ripieni di pollo e glassati con salsa al tamarindo non sfigurerebbero alla tavola de El Bulli, il suo silan con il burro di sesamo è un’ambrosia degli dei. E a fianco dei prodotti citati dalla Bibbia, la curiosità di Moshe si estende anche ai prodotti nuovi: la cucina non è una finestra su un mondo morto, ma su quello vivo e deve vivere il presente. Venitelo a scoprire in questo locale semplice e senza pretese, sentitelo parlare e descrivere le gioia di mille abbinamenti e scoperte che spesso non sono che antiche riletture, approfondimenti religiosi, creatività gioiose di uno chef sconosciuto al mondo intero. Due menù: il grande Salomone (Shir Hashirim) a soli 200 nis, il piccolo King David a 150 nis. Merita la visita il Cavalier, elegante ristorantino di tendenza nel cuore nuovo della città (1 Ben-Sira). Ampie vetrate a quadri con un arredamento di design essenziale come essenziale è lo spazio in cui si muovono le doverosamente esili, belle e giovani cameriere. Esigua nelle metrature è anche la cucina che serve alla carta un massimo di 30 persone e al banco bar che occupa l’ingresso alcune proposte del menu. Come tutto il personale, giovane è anche lo chef Shlomi Ben-Shimol, 32 anni, qui da un anno dopo esperienze in Giappone, Australia e Israele che si ritrovano in piatti attuali nelle presentazioni e fusion nelle ispirazioni: da provare il suo fegato in salsa di vino rosso con tortino di melanzane e il tonno al tartufo (francese). Tel Aviv Il nome significa Colle di Primavera E dal colle di Tel Aviv si vede il panorama di una città giovane e molto vitale: nel 2008 lo Stato di Israele ha compiuto 60 anni È il punto di arrivo di ogni viaggio in Israele e forse il meno interessante. Nella città grande, relativamente moderna, convivono palazzoni moderni e il degrado della miseria. I turisti per mangiare si spostano a Jaffa, con le stradine del centro storico fin troppo ben restaurate, ogni pietra al posto giusto, tutte boutiques e negozietti agghindati. L’indigeno è raro come un idraulico a Roma. Bella è invece la spiaggia, tutta libera e ariosa, che permette una bellissima passeggiata tra la sabbia e il verde dei prati. Di charme indefinibile, tra kitsch e chic, il ristorante Cordelia e il suo chef Nir Zuk, inquietante giovane trentenne dall’aspetto di marinaio marsigliese, cicatrici e catena girocollo incluse. Di ispirazione francese abilmente mixata con oggettistica etnica l’arredamento del locale, in pietra arenaria con soffitto a vetri, tavoli in ferro e vetro apparecchiati con sottopiatti in ottone moresco, posate vecchia Francia, antichi calici alti, candelabri in argento e statuette in bronzo. Oltre alle entrée tipiche di ogni ristorante locale, questo chef noto anche in TV – talmente attivo da aver già aperto nello stesso complesso anche il Noa Bistro, il Jaffa Bar e il Whisky Club – propone una cucina di matrice francese: il menu degustazione costa 180 nis. Cordelia – 30 Yefet St, 03-5184668. Gli contende i favori del pubblico lo chef Daniel Zach in quello che si può definire il ristorante più romantico ed elegante della città, dove consumare un menu degustazione rigorosamente per due. Qui abbiamo trovato i piatti migliori sotto il profilo tecnico e gustativo, frutto dell’esperienza dello chef presso importanti cucine degli Stati Uniti, del Canada, del Sud Africa. Molto eleganti le presentazioni, mai debordanti, mai eccessive o poco misurate come spesso ci è capitato di incontrare in una cucina di contaminazione che sembra non avere una precisa identità. Ristorante Carmella BaNachala Bistrot, 46 Ha Tavor St., Tel Aviv – 03.5161417. Di tendenza il Nana, ristorante aperto da dieci anni nel quartiere dove cento anni fa è nata Tel Aviv. Specializzato in carne, ha 40 posti e apre dalle 12 alle 17 e dalle 19 all’una. Di fronte è stata inaugurata due mesi fa una elegante enoteca dove si svolgono degustazioni e vendita di tutte le migliori etichette nazionali; questa struttura fornisce al ristorante oltre 12.000 bottiglie l’anno, sintomo di quanto il vino anche non kasher si stia diffondendo nelle abitudini degli israeliani. Ristorante Nana, 1 Echad Haam St, Tel Aviv – 03.5161915 Tra locali più apprezzati, sempre quelli di espressione francese, forse perché seguono meglio le regole dell'etichetta e del buon bere. (Moul Yam al porto 03-5469920 – chiuso il sabato, prezzo sui 300 nis). La cucina italiana, specie negli ultimi anni, gode di un successo crescente dovuto alla naturale leggerezza, alla comune matrice mediterranea e allo scarso utilizzo di derivati del latte cotti con la carne (salvo qualche ragù, come già detto). Il miglior indirizzo è l’Osteria da Fiorella, 148 rehov Ben Yehuda 03-5248818 diretta dalla famiglia Fornari che offre forse la miglior cucina giudaico romanesca della città. Info: www.visitisrael.gov.il – Guida turistica professionale e servizi turistici in Israele VITTORIO DI CESARE – www.vittoriodicesare.it
Di Luigi Cremona