Passione e Business per commercializzare meglio il vino
La nostra è l’epoca in cui gli sceneggiati si chiamano fiction, il fine settimana è il week end, il seminario si chiama workshop, la riunione di lavoro briefing, il piano di progettazione del lavoro è diventato il business plan.
Poteva presentarsi impreparato il mondo del vino?
Negli ultimi anni il termine wine maker si è fatto strada con prepotenza. Il giornalista che scrive di vino oggi si chiama wine writer. Sempre negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita della figura del wine selector (ws).
Che cosa è in realtà il wine selector? Un assaggiatore? Un selezionatore tout court? Un uomo di marketing? Segue le regole spietate del business o può avere anche una reale passione per il vino? E’ qualcuna di queste cose insieme o nessuna di queste?
Che cosa ne pensano i professionisti del vino? Hanno una linea comune oppure le loro convinzioni sul wine selector differiscono? Mettiamo a confronto le loro opinioni.
Chi è dunque e che cosa rappresenta la figura del wine selector nel mercato vinicolo italiano?
L’ espressione selezionatore di vini probabilmente non rende giustizia a questa professione: “A mio avviso oggi è molto trendy denominarsi wine selector” sostiene Gioia Gresti, presidente della commissione d’assaggio di Enoteca Italiana di Siena (www.enoteca-italiana.com) organizzazione che, dal 1900, promuove vini di qualità italiani.
Per lei, in realtà, “in Italia al momento non esistono strutture che possono reggere soltanto questa figura: la distinzione fra assaggiatore e wine selector (ws) è una linea molto sottile ed è molto difficile dividere le due professioni, anche se non impossibile”.
Il primo quindi, l’assaggiatore, è un degustatore in senso assoluto, il secondo, il wine selector, ha una funzione di scelta per uno scopo commerciale primario.
“E’ logico che il wine selector deve avere un’alta conoscenza del prodotto vino e di tutte quelle che sono le caratteristiche che differenziano un prodotto medio da uno di alto livello”, sostiene Cristian Donini, wine selector di Eterea (www.eterea.info) società milanese di wine selecting and consulting. “A tutti gli effetti – continua Donini – il wine selector rappresenta una figura di consulente commerciale, specializzato nel settore vinicolo. Ha una rete di contatti importanti nel territorio italiano che permette alle aziende vinicole di poter iniziare o migliorare la commercializzazione dei propri prodotti, attivandosi su attività commerciali e di pubbliche relazioni”. Il lavoro in questa direzione si è sempre fatto, ma “wine selector definisce meglio la cosa e, soprattutto, suona meglio”.
Il ws quindi si occupa della commercializzazione del prodotto vino sui vari mercati di riferimento, che possono essere canali distributivi per mezzo di grosse distribuzioni organizzate (CDO) oppure canali tradizionali diretti che creano un rapporto cantina cliente (HORECA).
I compiti del wine selector
Il ws deve avere la capacità e la lungimiranza di capire il collocamento sul mercato di quel prodotto, la potenzialità distributiva che deve andare a coincidere con quella produttiva. Poi deve valutare i listini di vendita e le varie condizioni commerciali proposti dall’azienda. Quindi capire se sono coerenti con la tipologia e la qualità del prodotto proposto: immagine e packaging adeguate “al target di mercato che si vuole andare a colpire – riprende Donini. Lui pensa infatti a volte che il wine selector sia come il dottore. Viene chiamato quando c’è un paziente che sta male, deve capire dove sta il male e curarlo.
Per fare questo allora ti serve appunto una grande conoscenza di quelle che sono le medicine commerciali”.
La passione deve o dovrebbe avere spazio o si debbono seguire solo regole commerciali in questa professione?
Secondo la Gresti di Enoteca Italiana: “se si scende a compromessi col business il nostro lavoro viene meno e si svaluta tutto quello che abbiamo costruito”. Il vino quindi è una grande passione che consente di viaggiare: “Sono un uomo di marketing e stampo squisitamente commerciale – prosegue Donini di Eterea – ma il contesto in cui vivo e lavoro su molti aspetti ha dello spettacolare, faccio per lavoro quello che in genere le persone normali fanno per divertirsi”. Il ws che svolge seriamente il proprio lavoro visita cantine giornalmente e vive situazioni di contesto paesaggistico di grande effetto: “Pranzo in ristoranti di buon livello dove per dovere professionale sono costretto a degustare tutti i migliori piatti che il cliente mi propone – continua Donini. Dal punto di vista commerciale il ws incontra persone tutti i giorni e stabilisce con loro programmi di lavoro sulla base di ragionamenti anche creativi e cerca di svilupparli assieme al cliente – quando fortunatamente fai quello che ti piace, nei posti dove vorresti essere, con le persone che ti sta bene di frequentare, allora si’ che il lavoro diventa la tua vita e il modo di trascorrerla nella maniera migliore. Sì, a volte mi sembra di non lavorare proprio”, conclude su questo punto. Secondo la Gresti è semplice unire passione e business: “Basta essere onesti con se stessi e con le aziende. Quando un vino non è idoneo non si riesce neanche a promuoverlo”.
Per Luciano Pignataro, responsabile Vino per Slow food Campania (www.lucianopignataro.it) “si può avere passione e non riuscire a fare soldi, ma i soldi, quelli veri e tanti, si fanno solo se c’è passione e totale dedizione al lavoro”.
Quindi esperienza, passione e curiosità sono certo molto importanti. A volte, secondo Luigi Piacentini, direttore generale di Premium Wine Selection (www.premiumwineselection.it): “si punta su un prodotto di qualità che personalmente non piace, ma si è sicuri che piacerà al consumatore”.
Come fa allora un wine selector a capire l’anima del vino che deve promuovere?
Il ws deve “conoscere chi il vino lo produce, girare per vigne – secondo Pignataro. Comunque negli ultimi anni avviene sempre più spesso che siano i produttori a contattare il wine selector”, aggiunge Piacentini dalla sua azienda che ha base a Pedemonte (Verona) e che distribuisce vini di qualità italiani. Riprende la parola il ws di Eterea, Donini: “Per me, l’anima del vino è quello che rappresenta, a livello qualitativo, il vino e questo lo insegnano ai corsi di sommelier e varie specializzazioni. Si valuta la tipologia di vinificazione e l’affinamento, si fanno degustazioni organolettiche, olfattive e visive, si compone il puzzle e si valuta il vino nel suo insieme – ma, precisa – “qui il lavoro del ws ancora non è iniziato, queste valutazioni chiunque le può fare”. Certo giudicare un vino solo dal punto di vista organolettico “è stupido”, secondo Pignataro, “limitativo” secondo Piacentini. Per Gioia Gresti di Enoteca Italiana: “Bisogna conoscere l’interezza del vino che si degusta, ma spesso è difficile e allora è più facile e banale degustarlo organoletticamente”.
Esistono quindi percorsi diversi per diventare ws: a volte capita, ad esempio, che un enologo con spiccate propensioni per attività commerciali possa diventare ws, ma per Donini: “solo a livello di segnalazioni nei confronti di altre figure, che magari collaborano in una dimensione di team strategico commerciale”.
Un altro esempio è quello di chi si forma sul campo e questo gli dà occasione, giorno dopo giorno, di approfondire e imparare. Ad esempio è il caso di Marco Terminiello: “Nel 1898, quando nacque il nostro ristorante O’ Canonico a Sorrento, vendevamo vino e all’epoca lo ‘selezionavamo’ localmente dai contadini locali”. Dopo l’esperienza del ristorante Terminiello ha fatto un corso di sommelier nei tre livelli e ha aperto una enoteca online (www.italianwineselection.com). A suo avviso: “Non è stupido giudicare un vino organoletticamente, anzi il contrario”. Per lui è quello che trova nel bicchiere che gli deve piacere “non importa il nome del produttore o la sua fama”. Per lui il sommelier è la persona che ama davvero il vino nei suoi vari aspetti e “si diventa wine selector solo per business: a volte, il rischio di farsi prendere la mano è piuttosto alto”.
Servono nuove guide basate su nuovi criteri
A Piacentini di Premium Wine Selection è capitato di dovere valutare o promuovere un vino dal vitigno addomesticato per raccogliere il gusto della gente e “penso che mi capiterà ancora in futuro”. Anche a Pignataro di Slow food è capitato “ma si è trattato di episodi non nella regola. Capita che un vino in degustazione faccia una media alta perché riesce a prendere diversi aspetti delle sensibilità in campo. Quando lo scopri, se davvero è piaciuto non puoi respingerlo perché ti è antipatico”.
Sul fatto dei vini non degni selezionati in degustazione, per Pignataro esiste la categoria dei “furbetti del trebicchierino che cercano di capire cosa ci si aspetta da loro, invece di essere orgogliosi del loro progetto produttivo”. Tuttavia questa fase gli sembra finita perché “oggi servono anche nuove guide per vini veri: non è più possibile restringere il campo del giudizio in sedute autoptiche in sale ospedaliere”. Per Donini, il ws di Eterea, dentro “questo grande circo che è il mondo del vino ci sono persone che hanno interesse a mantenere anonima la loro identità in fase di valutazione, ma spesso sono orientati o pilotati da altre situazioni: purtroppo, essendoci molti interessi, a volte si assiste a situazioni comprate o pilotate da parte di tanti soggetti che lavorano nel nostro ambiente>>.
Qual è allora la reale situazione del vino nel nostro paese?
Per Piacentini la salute del vino in Italia “oggi è di una leggera influenza. Alcune regioni stanno molto bene, vedi Veneto, altre soffrono molto, vedi Toscana e Sicilia”. Secondo la Gresti di Enoteca Italiana invece si sta lavorando nella direzione giusta, valorizzando vini che anche la stampa internazionale elogia (Brunello, Barolo, Chianti Classico, Nobile, Bolgheri) e comunque ci vuole anche la quantità.
Le Doc inutili
Secondo Marco Terminiello di Italian Wine Selection la salute “è abbastanza buona, anche se la scelta di valorizzare la quantità a dispetto della qualita` è stata deleteria”. I vitigni comunque “sono tutti buoni ed è la lavorazione che li può snaturare: per ottenere un gusto internazionale si perde il legame con il terroir”. Per Pignataro di Slow Food oggi in Italia “Il mercato è maturo, si produce più di quanto si consuma. Bisogna cercare valore aggiunto in mercati stranieri per chi lavora sulle grandi quantità, oppure valorizzare il territorio se si producono poche migliaia di bottiglie. Le cose vanno male quando i grandi fingono di essere piccoli (effetto Mulino Bianco) o quando i piccoli imitano i grandi”. A suo avviso: “Molte denominazioni sono inutili in Italia perché frutto di sole scelte politiche: in Molise c’è una Doc con nessun imbottigliatore e non è l’unico caso”. Poi, quale criterio ci può essere ai controlli se usi vitigni francesi, metodologie produttive australiane per avere a volte vini di gusto internazionale? Secondo lui i vitigni internazionali “non dovrebbero mai avere la Doc, a meno che non si tratti di bollicine in Lombardia e Trentino, dove queste uve ci sono da secoli”.
Anche Piacentini di Premium Wine Selection ritiene che “ci siano troppe Doc senza alcun significato, a volte ottenute per merito del politico “X”. Questa frammentazione soprattutto sui mercati esteri è una grande limitazione”. Lui non crede “che il problema sia usare vitigni o metodi francesi o australiani. Penso sia importante produrre vini con una personalità, un’anima che solo il terroir può dare”.
Il mercato italiano non è strutturato
Come già sottolineato il vino non degno selezionato per fare business è quindi una cosa di tutti i giorni e rappresenta purtroppo per tante aziende fonte importante di sostentamento. Per Donini di Eterea il vino in questi anni “purtroppo o per fortuna” è stato un grande businesss in Italia e ha portato una serie di opportunità e guadagni a tutti i livelli: “L’improvvisazione è una grande arte di noi italiani; da contadini a imprenditori agricoli, da semplici agronomi ad enologi wine-maker, da venditori rappresentanti di se stessi a wine selector”. Tutto questo porta confusione di ruoli e ha contribuito alla “crisi che stiamo vivendo data proprio dal fatto che in questi anni tutti hanno fatto di tutto senza avere forse le adeguate conoscenze. Ed oggi la fragilità di un mercato costruito senza solide basi, tutto quanto basato sul produrre e rivendere investendo pochissimo sulla costruzione di un mercato solido e strutturato, capace di reggere momenti di recessione crisi di consumi”.
Per Pignataro “certo spesso si crea una conflitto di interesse” che nasce da “confusione di ruoli”, ma non bisogna sottovalutare il fatto che “anche se un vino non degno viene selezionato, la sua esistenza sul mercato dipende anche dalle scelte del consumatore”.
D’altronde i prezzi delle uve nell’ultima vendemmia sono crollati e per i vigneti il futuro è a rischio. I costi italiani sono proibitivi rispetto a quelli di Australia, Argentina, Cina. “Il nostro vero competitor infatti è e deve essere la Francia”, ricorda la citata Gresti di Enoteca Italiana e continua: “Ricordiamoci inoltre che l’ Italia e’ il secondo produttore del vecchio mondo e che le tecniche di vinificazione in alcuni paesi del nuovo mondo, ad esempio in Australia, le abbiamo portate noi italiani e i francesi”.
Meno di 5 ettari di vigneto: handicap o risorsa?
E’ forse un handicap il fatto che 60% delle aziende viticole italiane possieda meno di 5 ettari di vigneto?
Gioia Gresti crede che “questa sia l’essenza italiana e che non si possa svalorizzarla. Il piccolo imprenditore avrà sempre e dico sempre, una cura diversa del suo vigneto e dell’espressione del territorio. Spesso lo intendiamo come un difetto, ma ricordiamo la Borgogna, dove la proprietà media è di 1,5/2 ettari”. Anche secondo Pignataro questo fatto “è una grande ricchezza, la specificità italiana da difendere e tutelare. Il gigantismo nel vino non è roba per noi, non lo è mai stato dai tempi della caduta dell’Impero Romano”.
Per incrementare la produttività spesso le zone sono state incentivate a livello statale e europeo: “si è cercato di valorizzar la zona in questione, ma in realtà si è ottenuto l’opposto”, secondo Donini di Eterea. Per lui: “Hanno solo esasperato certe situazioni che oggi vivono momenti di crisi di identità proprio per il grande numero di microaziende presenti in un territorio, che non fanno altro che disperdere la vera forza e la produttività della zona in questione”. Le piccole aziende vinicole spesso sono delle vere e proprie aziende agricole, con concetti produttivi corretti – continua – “ma poi peccano dal punto di vista commerciale e comunicativo”. Il produttore spesso alterna la sua attività di produttore vitivinicolo a quello di allevatore e produttore ortofrutticolo e “questo provoca grandi produzioni di qualità, sicuramente, ma grande confusione poi nella fase di impostazione e di vendita dei prodotti stessi in un mercato sempre più evoluto e attento alle varie sfumature”. Allo stesso modo la varietà vinicola italiana rappresenta una risorsa per presentarsi al mercato mondiale infatti “figure, come quella del wine selector, portano sul mercato piccole aziende, con standard produttivi molto alti e attivano processi produttivi anche nelle maggiori aziende. Il livello qualitativo del vino italiano è salito negli ultimi anni anche per questo motivo”.
Sempre secondo Donini: “Oggi il mercato domestico sta avendo grandi indici di consumo e questo costituirà, per le produzioni nazionali, una grande opportunità di conquista e di mantenimento dei consumi a cui le aziende si erano abituate”. Lui sostiene che “bisognerebbe, da parte di tutti, investire molto di più sul consumatore finale, cercando di diffondere cultura (anche se non trovo strano che, se il consumatore moderno gradisce vini morbidi, profumati e non tannici, un’azienda che ha la possibilità di aumentare vendita, popolarità e guadagni producendo vini con queste caratteristiche, rimanendo nel lecito, possa farlo) e cercando di fare crescere i consumi di qualità”.
Secondo la Gresti di Enoteca Italiana bisognerebbe conoscere al meglio “la nostra storia vitivinicola” per adottare strategie adeguate ai tempi e Pignataro di Slow food crede che l’aggiornamento, anche attraverso il canale di Internet, sia necessario per non uscire di scena dal mercato.
Per Piacentini di Premium Wine Selection vista la troppa frammentazione produttiva “sicuramente, come già avvenuto in questi anni avremo delle aggregazioni tra produttori”.
Educare i consumatori da un lato sembra essere allora una via possibile per l’Italia, regina dei i vini del vecchio mondo. Educare per allargare la schiera dei clienti pronti a spendere qualcosa in più: la strada della qualità, anche se tanti per tanti anni hanno seguito la quantità.
“Wine selector” non si traduce in italiano
L’economia italiana si regge sulle piccole e medie imprese e anche il mondo del vino rispecchia questo aspetto, senza dubbio. Riguardo le aggregazioni produttive si pensi allora ai vignaioli, ai wine maker. Tanti sostengono infatti di fare vini con anima, senza essere sommersi da vini inutili che vengono dall’Italia e dal resto del mondo. Troppo spesso questi soggetti, purtroppo, guardano ‘italianamente’ solo alla loro piccola produzione: i vicini di podere in genere non si parlano perché la concorrenza è forte: sono gelosi e invidiosi l’uno dell’altro. Non c’e’ quasi mai una linea comune, i pensieri differiscono. La diversità, la frammentazione italiana paga davvero? Se tutti questi professionisti invece si parlassero e avessero obbiettivi comuni, senza disperdere la particolarità dei vini, non sarebbe meglio? I vignaioli quindi ora spesso sono definiti wine maker, un tempo si era selezionatore ma ora wine selector, giornalista enogastronomico quindi wine writer ma non solo, assaggiatori o sommelier. Indubbiamente sul nostro territorio abbiamo professionisti eccelsi e uso di tecnologie avanzatissime. Diventa pero` difficile capire la differenza tra le professioni col nome italiano, che non sono certo scomparse, da quelle col nome inglese che sembrano quasi la stessa cosa, ma non lo sono. Ci si può confondere, anche tra professionisti. Esiste infatti chi definisce la propria professionalità col nome in inglese perché ha realmente una grande competenza: questo è il caso di molti . Altri utilizzano il nome straniero solo per darsi un tono, perché si vuole comunicare con l’estero o ancora per darsi un blasone internazionale. C’è anche chi provocatoriamente critica duramente questi nomi inventati dagli americani e arriva addirittura a negare l’esistenza di queste professionalità: questo per la verità è il caso di un responsabile commerciale che lavora per produttore molto piccolo, ma non è un caso isolato e si parlava appunto di frammentazione e dispersione produttiva.
Tutti questi soggetti che operano nel mondo del vino, spesso sono in scarsa comunicazione tra loro e conseguentemente si creano troppi giochi di ruolo tra i mestieri precedentemente citati. Si crea confusione e, pertanto, nuovi e sofisticati meccanismi di marketing, troppo di frequente, devono convivere con antiquate e radicate logiche di mercato. Per intenderci, basti pensare all’italianissimo non guardare al di là del proprio piccolo orticello/impresa. Si potrebbe a questo punto avanzare un paragone, un’ ipotesi. Si pensi a un treno, un Eurostar ad alta velocità che viaggia su una linea ferroviaria non all’altezza perché obsoleta: questo genera ritardi inspiegabili, ma spiegabilissimi. This is Italy.