Non è una novità, per la Germania, la cucina meticcia. Forse perché priva di una forte tradizione propria, la ristorazione, pur lussureggiante, ha da tempo rivolto lo sguardo verso est, in cerca di nuove alchimie che hanno propiziato esiti di tutto rispetto. Lo stile di Tohru in der Schreiberei, tuttavia, è in questo quadro singolare: qui non si assaggia la consueta cucina contaminata del genere “cook local, think global”, che applica tecniche internazionali a ingredienti e gusti locali.
Se l’insegna col suo contrasto fonetico già preannuncia un orizzonte multiculturale, a interpretarlo questa volta è uno chef cui la dialettica scorre letteralmente nelle vene. Cosicché il gioco si fa al tempo stesso più profondo e più naturale. Senza schemi nel suo fluire libero oltre le categorie. La scena è un suggestivo palazzo del centro storico di Monaco, cinquecentesca “Schreiberei” dove i clerici vergavano le loro pergamene di leggi e atti pubblici.
Dietro la porticina, subito si impenna a sorpresa la Himmelsleiter, ripida “scala del paradiso” tipica delle architetture medioevali, che conduce al bistrot e sopra al fine dining, salottino soffuso e colorato sui toni dell’arancio e del verde smeraldo, scaldato dai tappeti e dalle poltroncine in pelle, dove ci si accomoda dopo aver salutato in cucina lo chef e il suo storico secondo Dominik Schmid.
Tohru Nakamura, allora. Figlio di un ingegnere giapponese e di una consulente tedesca, questo chef classe 1983 sembrava destinato alla carriera diplomatica, se solo il demone della cucina non lo avesse tentato quando vedeva la madre approntare specialità esotiche apprese dalla suocera.
Così, a dispetto delle aspettative familiari, a quattordici anni era già apprendista nel ristorante stellato di Léa Linster in Lussemburgo, poi i gradini della carriera lo hanno condotto su su in un girone di tre stelle: Vendôme a Colonia, Oud Sluis in Olanda, dove è diventato sous-chef, e per finire Kagurazaka Ishikawa a Tokyo, dove ha chiuso il cerchio con le radici durante uno stage intensissimo.
“Quindi non parlerei di un singolo mentore: ogni chef mi ha ispirato diversamente. All’inizio si trattava di apprendere le basi della cucina classica; poi da Wissler ho scoperto il massimo rigore abbinato alla creatività e al perfezionismo, in un tentativo perenne di migliorarci, e da Sergio Herman una cucina emozionale e personale, dove si trattava di essere se stessi e centrare il gusto definitivo”.
Tornato a Monaco in veste di chef patron del ristorante eponimo, nel 2014 era già stella Michelin, raddoppiata nel 2016 e mantenuta nel trasloco post-pandemico del 2020 (inizialmente in forma di pop-up), anno in cui ha anche vinto il titolo di cuoco dell’anno per Gault & Millau.
“Omakase” etimologicamente significa mettersi nelle mani del cuoco, esperto di prodotti, stagionalità e trasformazioni, ed è quello che accade agli ospiti di Tohru, cui è destinata una sequenza di dieci assaggi iper stagionali e spesso irripetibili, tuttavia mai improvvisati, articolati in base alla filosofia kaiseki. Tohru preferisce parlare di “avvenimenti culinari” piuttosto che di piatti, senza per questo lasciare spazio al caso.
“Quando si parla di creatività, ci sono due aspetti da considerare. Innanzitutto la stagionalità: abbiamo un ingrediente come il riso o la trota, che arriva da fornitori che ormai sono amici. Allora ci chiediamo quale sia il modo migliore per lavorarlo, anche secondo la stagione.
Perché una preparazione alla griglia può non essere sempre la più adatta. In secondo luogo io e Dominik cerchiamo di combinare gusti, profumi e consistenze nella testa attraverso una comunicazione molto fitta. Assaggiamo ogni nuovo piatto al ristorante il pomeriggio, prima dell’arrivo degli ospiti, insieme alle brigate, osservando le reazioni di tutti. In cucina prepariamo le singole componenti, che possono essere assemblate da diversi chef, cosicché la presentazione può cambiare, secondo come si intende fare assaggiare il piatto o variarne gli equilibri. Valutiamo diverse opzioni su supporti variabili e le proponiamo infine alla brigata di sala. Una reazione positiva può trasmetterci entusiasmo, ma continuiamo a cercare di perfezionare la ricetta prima di cambiare il menu”.
Se gli ingredienti sono quasi esclusivamente di prossimità (il pesce di acqua dolce della vicina fattoria Birnbaum, oasi di artigianalità e pazienza, i maiali di Hermannsdorfer, azienda bio ecosostenibile, i vegetali vivi di Johannes Schwarz), non c’è regola per le tecniche, che possono essere europee od orientali; le salse hanno spesso una tessitura francese, mentre la purezza, la leggerezza e lo squisito senso estetico sono indiscutibilmente giapponesi. Di fatto il metissaggio è libertà.
“La mia formazione è ben leggibile nei piatti, per esempio le basi classiche sono evidenti nelle nostre salse o nel modo in cui trattiamo pesce e carne, nella disciplina in cucina e nella tensione verso la perfezione. Quando poi si parla di kaiseki, il menu diventa questione di divertimento, stagionalità e dedizione al cliente, senza esibizionismi. La nostra cucina è rivolta agli ospiti, come un comfort food gustoso e salutare. Per esempio serviamo il pesce crudo dopo qualcosa che sia stato cotto al vapore, fritto o affogato; arriva come quarto o quinto piatto, non certo all’inizio, ed è molto meglio per il corpo. Si tratta inoltre di sentire il luogo e il momento del pasto, che sono importantissimi per la cucina kaiseki. In un ristorante di Kyoto, devi sapere dove sei e in quale microstagione. Cosicché siamo sempre in contatto con i nostri fornitori per capire se i piatti sposano il clima e l’atmosfera fuori dalla porta, venendo incontro alle aspettative degli ospiti. Li immagino spesso seduti al tavolo, chiedendomi quali sensazioni e umori possano provare”.
“Oggi è la norma che gli chef usino ingredienti come miso, dashi e yuzu, lo fanno anche gli ospiti a casa loro.” – prosegue Tohru – “Ma la grande differenza è che io tratto questi elementi ‘esotici’ in modo più rilassato, senza l’eccitazione della prima volta, perché ci sono cresciuto ogni giorno, sviluppando un palato asiatico. In mente ho l’uso tradizionale, senza mescolare troppo le cose”.
Il risultato sono delicate epifanie cariche di grazia e di gusto, come il chawanmushi al tartufo con cavolfiore e prosciutto di anatra, lo strepitoso riso koshihikari con caviale di trota, wasabi, fiori di sambuco e shio koji, la scenografica trota con ravanelli variopinti, crescione e olio di colza.
E da Tohru troviamo anche un po’ d’Italia: a farsi carico della cantina è arrivato da circa un anno Christopher Rainer, già sommelier del St. Hubertus, premiato da Michelin ed Espresso come migliore maître d’Italia.
La sua carta è composta per circa la metà di vini tedeschi, con l’amato Riesling sugli allori.
Tre i percorsi di pairing: due alcolici, con vini più o meno “speciali” e i calici che talvolta si sdoppiano per assaggiare divertenti rarità, e uno analcolico, che passa in rassegna tè, kombucha e dealcolati.
Senza dimenticare il sakè, il cui umami aromatico esalta non pochi piatti dello chef.
Tohru in der Schreiberei
Burgstraße 5, München
+49 89 21529172
www.schreiberei-muc.de/tohru
[Questo articolo è tratto dal numero di marzo-aprile 2025 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]