Di La Madia
Molto spesso i lettori/ristoratori mi prendono per il donchisciotte dei mulini a vento o per la giovannadarco che si immola sul rogo delle ingiustizie, chiedendomi di fare la paladina di quelle che sappiamo tutti essere le cause perse in partenza: la mancata politica di sostegno al settore, l’informazione faziosa, distorta o clientelare, il trash televisivo ai danni della gastronomia.
Vabbé, grazie per la fiducia, ma siccome mi sono stufata di mettermi sulle barricate mostrando indomita il petto nudo al nemico, incurante del pericolo e delle frecce avvelenate (anch’io c’ho un’età…) preferisco la politica dell’approccio culturale ai problemi.
Dunque, cosa i miei fedeli lettori/ristoratori lamentano maggiormente?
Nell’ordine: 1) i ristoratori si sentono vittime degli aumenti spropositati di beni e servizi e quindi a loro volta carnefici nei confronti dei propri clienti, a loro volta già vessati dall’eurotruffa; 2) leggi e leggine penalizzano, invece che aiutare, un settore in palese difficoltà; 3) la cucina è creativamente ipertrofica e, nella globalizzante “confusion”, perde ogni identità e valore storico/culturale per diventare merce di facile deperibilità semantica; 4) i giornali e le guide continuano a glorificare un tipo di ristorazione (e di vino) economicamente alla portata di pochi e sono distanti dal “paese reale” fatto di migliaia di esercizi “gastronomici” e “commerciali” che fanno i salti mortali per restare a galla; 5) i soliti chef e/o comunicatori in televisione fanno i propri interessi invece che quelli dell’agroalimentare e dell’enogastronomia.
Di cosa dovrei farmi portavoce, ancora?
Per i punti 1 e 2 non posso che prendere atto della realtà insieme a voi, nel contempo sostenendo che fino a quando, con una mentalità un po’ piú corporativistica, non vi farete sentire davvero, diventando soggetto politico e usando strumentalmente l’arma del voto, potete anche smetterla di lamentarvi. Per il resto occorrerebbe riflettere su cosa è diventata oggi l’enogastronomia, dopo anni di colpevole oscurantismo: nient’altro che un fenomeno da baraccone, che la televisione, in particolare, coltiva ed alimenta solo nei suoi aspetti piú banalmente pulp.
A questo punto è lecito chiedersi quando la comunicazione sul cibo è dunque buona e quando invece è trash.
Difficile stabilirlo senza il rischio di cadere nei sofismi e nelle astrazioni.
Di sicuro c’è un fatto: la stampa e la critica di questi ultimi anni, nel prendere ossessivamente le distanze dall’arte popolare delle lasagne e dei supplì, ha finito per incensare una cucina che difficilmente riuscirà a farsi ricordare per un piatto o uno stile particolare. Quindi, se in qualche modo non è trash ciò che, superando la dimensione del quotidiano e dell’effimero, è in grado di entrare stabilmente nella memoria collettiva, quali creazioni culinarie di oggi hanno un futuro?
Se un neo-classico di Marchesi, ossia, per esempio, la costoletta alla milanese a cubetti, altro non è che una rivisitazione di una ricetta tradizionalissima, il dubbio è che per allontanarsi culturalmente dal trash delle mille ricette senza identità e senza futuro, sia necessario riprendere i contatti con tutto ciò che storicamente appartiene al patrimonio gastronomico delle nostre regioni. Come succede per l’attuale rivalutazione dei film di Pierino e della Fenech (in quanto simboli fenomenologici degli anni ’70), forse si dovrà ripensare alla riproposizione culturale dell’ossobuco alla milanese (mucca pazza permettendo) e del pollo alla maceratese…