19/01/2010
I drammatici fatti di Rosarno hanno messo ancora una volta a nudo la precarietà del nostro settore agroalimentare, le fragili basi su cui poggia: interi comparti produttivi tenuti in piedi da una forza lavoro illegale, o ai margini della legalità. Un’economia basata sullo schiavismo: come in Virginia ai tempi dei campi di cotone. Mentre le pubblicità ci amanniscono eufemismi del tipo “prodotti con amore”, la cruda realtà mostra un popolo di dannati della terra che ai pomodori, all’uva, alle arance, mescola grandi manciate di rabbia, risentimento, odio. Ma nessuno vede, nessuno sente, nessuno parla. Ci vogliono le rivolte, le devastazioni, i feriti e magari i morti per spingerci a sollevare uno sguardo distratto sulla realtà. La ragione dell’oscuramento a cui sono condannate certe situazioni è del resto ovvia: tutti sembrano trarne dei vantaggi. Quei poveracci tirano su qualche euro, bene o male. E il loro sfruttamento intensivo serve per garantire al prodotto agricolo un prezzo all’origine appena appena accettabile dal mercato, il quale, visto che nulla osta, tira sempre più al ribasso. E’ una spirale perversa e senza fine. Poi di sicuro c’è anche la criminalità organizzata, a rimestare nel torbido, ed è altrettanto certo che a guidare quelle ribellioni non c’era Gandhi, ma delle teste surriscaldate. E tuttavia saremmo pazzi se attribuissimo alla presenza dei “negri” (come qualcuno si ostina a definirli) la responsabilità di una situazione paradossale ed esplosiva. Una situazione che ha radici profonde nel nostro mondo, e non nella lontana Africa. Una situazione che viene denunciata da tempo, ma sono voci che gridano nel deserto.Una minor frammentazione produttiva, una filiera molto più corta e trasparente, sistemi di distribuzione più efficienti: ecco sommariamente i rimedi necessari. E se i privati sono troppo litigiosi e non hanno la forza per fare certe scelte, che intervenga la mano pubblica, per coordinare e sostenere. Ma forse sono compiti impossibili per una classe politica inane, incapace di iniziativa e di incisività (a prescindere da chi governa). Stavolta lasciano un senso di inadeguatezza anche le dichiarazioni del ministro Zaia – che in molte altre occasioni abbiamo apprezzato – quando sembra invocare come soluzione possibile il marchio etico per i prodotti agricoli, o le parole di Petrini, che auspica l’aumento dei prezzi al dettaglio. Figurarsi, con questi chiari di luna… Vada a chiederlo a chi non arriva a fine mese. No. La battaglia va fatta a monte, e tutti devono contribuire. Certo, anche i consumatori dovranno assumere comportamenti più responsabili e più attenzione alla qualità, magari guardando un po’ più in là del proprio naso, a come i prodotti vengono realizzati. Le pessime condizioni di lavoro di chi produce, ad ogni livello, debbono interessarci non solo per puro spirito umanitario, ma anche per ragioni pratiche: un prodotto che nasce così, non potrà mai essere davvero buono. Ecco uno spunto interessante per i programmi delle Associazioni dei Consumatori e per future “class action”: altro che piccole beghe con le agenzie di viaggio e con i venditori televisivi…