Ha quasi cinquant’anni, ma non li dimostra. E per prepararsi a celebrare degnamente la ricorrenza, il Fojaneghe di Bossi Fedrigotti, primo bordolese prodotto nel nostro paese, ha provato a rifarsi il trucco, appoggiandosi alle competenze e alle abilità dei tecnici di casa Masi, con i quali l’azienda trentina ha avviato ormai da un anno un rapporto di proficua collaborazione.
Era il 1958 quando quello che allora si chiamava Comitato Vitivinicolo della Provincia di Trento organizzò un viaggio-studio nel Bordolese. Era l’epoca in cui i vignaioli italiani sentivano prepotente la sudditanza psicologica e tecnica rispetto ai loro colleghi francesi, quando i prodotti d’oltralpe si potevano permettere quella certa albagia perché non c’era ancora chi aveva provato a metterla in discussione, quella presunta superiorità. Tra gli invitati c’erano anche il conte Federico Bossi Fedrigotti, patron dell’omonima cantina di Rovereto, e il suo giovane enologo, Leonello Letrari. Quello che voleva essere un corso di aggiornamento si dimostrò per loro, alla resa dei fatti, una mezza delusione: “Mio padre – racconta Giampaolo Bossi Fedrigotti, che oggi gestisce l’azienda di famiglia insieme alle sorelle Isabella e Maria Josè – ritornò a casa mediamente impressionato, soprattutto sulla situazione delle cantine: le nostre non avevano nulla da invidiare a quelle assai più rinomate dei cugini francesi”. Ma fu quel viaggio a insinuare nel conte e nel suo enotecnico il tarlo del bordolese: si chiesero se non fosse possibile riprodurre anche dalle loro parti quel vino straordinario che avevano avuto l’occasione di assaggiare e di veder produrre in Francia. Fu così che iniziarono le sperimentazioni, in concomitanza con un progetto simile avviato dall’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, con il quale l’azienda Bossi Fedrigotti iniziò a collaborare attivamente. Finché, nel 1961, non vide la luce la prima bottiglia di Fojaneghe, uvaggio merlot cabernet che funse da apripista a moltissimi altri epigoni. Era stato prodotto il primo bordolese italiano, che peraltro per sostanza e qualità fin dalla sua prima apparizione potè permettersi il lusso di confrontarsi a testa alta con i suoi modelli di riferimento. Nonostante i francesi potessero contare all’epoca su cabernet Franc e Sauvignon, mentre nelle vigne roveretane si poteva raccogliere solo il Carmener, più adatto ai nostri climi ma decisamente più ruvido rispetto alle altre varietà. Eppure il Fojaneghe, chiamato con il nome della tenuta in cui erano coltivate le viti, fu un grande successo e dimostrò ai vignaioli italiani che la strada dell’emancipazione era più che praticabile.
E come si faceva quarantasette anni fa, maturazione in barrique compresa, si fa ancora oggi, seppure con qualche minima variazione. La vinificazione, nonostante i grossi rischi legati a questa operazione, si continua a fare in simultanea, lavorando l’ultimo merlot e il primo cabernet. “C’era stato un tempo – ricorda Giampaolo Bossi Fedrigotti – in cui si era provato a vinificare separatamente, in modo da non rimanere vittime dei capricci del tempo. Ma quel vino, decisamente più razionale, era privo di qualcosa, gli mancava quel quid necessario a garantirgli il rispetto della sua storia e della sua nobiltà”. Così in azienda si decise di tornare alle origini e di correre il rischio naturale connaturato alla vendemmia. Il bordolese più quotato e più vecchio del panorama enologico italiano era tornato ad essere quello di tanti anni prima, anche se nuove sperimentazioni si stavano già profilando all’orizzonte.
L’ultima è legata alla collaborazione con Masi, allacciata da un anno e ufficializzata nel corso dell’ultimo Vinitaly con la presentazione dei primi vini frutto della partnership. “Abbiamo deciso di unirci alla nota cantina della Valpolicella – spiega il conte – sia perché convinti della bontà del progetto elaborato da Sandro Boscaini, sia per la competenza dei suoi tecnici, sia per poter sfruttare i loro straordinari canali di distribuzione: ci eravamo resi conto ormai che di bordolesi in Italia se ne cominciavano a produrre ovunque e comunque. Abbiamo pensato dunque che fosse giunto il momento di rilanciare il Fojaneghe, se non altro per le sue indiscutibili peculiarità. E il rilancio abbiamo creduto opportuno impostarlo sulla sua territorialità, celebrando le qualità vinificatorie di un territorio, quello trentino, unico rispetto agli altri”. È stato per questo che al merlot e al cabernet, sia Carmener che Franc che Sauvignon, i tecnici hanno deciso di aggiungere un 15% di uve Teroldego, vitigno autoctono trentino dalle spiccate qualità.
Un’operazione che è piaciuta a Masi, da anni alla ricerca di elite enologiche in grado di qualificare le Tre Venezie come territorio vinicolo per antonomasia. Per questo Boscaini ha avvicinato Bossi Fedrigotti, per questo i suoi enotecnici hanno iniziato a frequentare la cantina di Rovereto: “Il Fojaneghe – sostiene Sandro Boscaini – deve tornare ad essere il sogno che è stato negli anni Sessanta e Settanta: vogliamo fare di quel vino il punto di riferimento del bordolese italiano, ovviamente reinterpretato alla trentina, un vino di grande rappresentatività dell’enologia prealpina, una perla storica del Triveneto che deve ricominciare a brillare come si conviene. L’idea è quella di mantenerne l’integrità tradizionale conferendovi un tocco di indispensabile modernità”. Non una banale operazione di marketing, dunque, ma la volontà di tornare ad attribuire ad un vino dalla storia straordinaria il posto che esso merita. In attesa di festeggiare degnamente il suo cinquantenario.
Di Gianluca Ricci