Valpolicella a rischio estinzione? Al momento la prospettiva non preoccupa, ma il trend fatto registrare negli ultimi anni nella terra che ha dato i natali all’Amarone lascia ben poche speranze persino al più inguaribile degli ottimisti. Il Valpolicella doc, magica mistura di Corvina, Rondinella e Molinara che ha reso quel vino veronese uno dei più amati dagli appassionati, non “incontra” più: o comunque molto meno dei suoi fratelli maggiori, l’Amarone e il Ripasso, che per molti consumatori rimangono gli unici prodotti targati Valpolicella degni di essere bevuti.
I numeri ufficiali parlano chiaro: i quintali di uva destinati alla produzione di Amarone sono passati dai quasi 23mila del 1976 ai 236mila e rotti dello scorso anno, dieci volte tanto. Per produrre il Valpolicella “normale”, invece, le quantità sono rimaste pressoché invariate: 408mila quintali erano allora, 425mila oggi. Per un totale di 300mila ettolitri di vino circa, la metà soltanto dei quali però finisce imbottigliata ed etichettata come Valpolicella. L’altra va invece ad alimentare quel mercato parallelo che da qualche anno sta rivitalizzando le esportazioni da Negrar e dintorni, il tanto osannato Ripasso, capace di modificare fin nei gangli amministrativi anche la più piccola cantina del territorio. Il Ripasso, un’invenzione commerciale elaborata negli anni Settanta dalle cantine Masi e messa un paio d’anni fa ufficialmente a disposizione di tutti i produttori, permette, con un minimo di applicazione in più, di nobilitare il semplice Valpolicella, facendolo ripassare appunto sulle vinacce dell’Amarone, e di trasformarlo in un vino che di quest’ultimo ricorda la robustezza senza intaccare con la stessa esuberanza il portafogli.
La quadratura del cerchio, per molti. Al punto che nello scorso settembre il Ministro delle Politiche Agricole ha dovuto modificare il disciplinare della doc della Valpolicella aggiornandolo con i correttivi legati alla produzione del Ripasso. Ma per fare Ripasso bisogna sacrificare – si fa per dire – un corrispondente quantitativo di vino base. Che non finisce più sugli scaffali o nelle cantine con il marchio che lo ha contraddistinto per anni, ma ci arriva con un’etichetta e un contenuto nuovi. E un prezzo decisamente più remunerativo. Ecco perché di Valpolicella basic ce n’è poco e sempre meno se ne troverà. Lo spiega a chiare lettere anche Carlo Boscaini, piccolo produttore di Sant’Ambrogio recentemente premiato con le cinque stelle (“best value buys”) dalla prestigiosa rivista inglese “Decanter” per il suo Valpolicella Ca’ Bussin: «I margini di guadagno sul prodotto base sono davvero risicati, soprattutto per i piccoli produttori, che non possono pensare di competere su questo terreno con le grandi cantine, capaci di spuntarla con offerte all’ultimo centesimo. Inoltre non si può ignorare che gli appassionati si stanno volgendo con sempre maggiore convinzione verso prodotti più morbidi o colorati, mentre il Valpolicella, vino tipico che più tipico non si può, è tendenzialmente duro e aspro». A tre euro la bottiglia i margini evidentemente si assottigliano: se lo stesso vino, con qualche passaggio in più, può essere venduto a più del doppio, perché asserragliarsi a difesa dell’indifendibile? «Molto più conveniente venderlo in cisterna – ha riconosciuto Boscaini – e farlo imbottigliare da altri, anche fuori provincia, come accade al 50% del Valpolicella che si vende all’estero. Anche perché impegnarsi a promuovere adeguatamente un vino incapace di regalare soddisfazioni economiche adeguate risulta a tutt’oggi impossibile». Con la conseguenza che trovare qualche bottiglia di Valpolicella in qualcuna delle poche cantine che ancora si ostinano a produrlo è diventato sempre più difficile. Acqua sul fuoco la getta invece Emilio Pedron, presidente del Consorzio di Tutela del Valpolicella, convinto invece che il vino che ha gettato le basi per il successo planetario dell’Amarone non si estinguerà. «Al contrario – ha detto – fra un anno o due, quando Amarone e Ripasso si assesteranno dopo queste stagioni di sovraesposizione, il Valpolicella tornerà ai livelli di produzione di un tempo. Non possiamo certo lamentarci se oggi si vende molto Amarone, ma non sarebbe giusto sacrificargli un prodotto che ha comunque un mercato preciso e degli appassionati convinti. L’optimum sarebbe cercare di migliorare qualitativamente il Valpolicella responsabilizzando i produttori e stimolandoli a curare con eguale attenzione sia i filari destinati a produrre Amarone sia quelli che daranno vita al prodotto base: l’unica strada per crescere è quella di produrre un vino più pregiato, confortato da prezzi meno penalizzanti. Una soluzione che tra l’altro permetterebbe di rivedere l’intera politica commerciale del Bardolino, cugino di primo grado, che oggi invece soffre di una crisi alla quale non si intravede fine».
Difficile però che fra i produttori si trovi l’accordo necessario ad un rilancio in grande stile. Anche perché le differenze di margine fra Amarone e Valpolicella, o anche solo fra Ripasso e Valpolicella, sono tali da scoraggiare qualsiasi intervento in tal senso.
A sostenerlo è anche Sandro Boscaini, patron della cantina Masi di Gargagnago, paese della Valpolicella recentemente insignito – giusto per dire – del titolo di “borgo dell’Amarone”: «Non possiamo permettere – ha dichiarato – che l’Amarone cavalchi il suo momento di consenso modaiolo cannibalizzando, come di fatto sta avvenendo, il marchio collettivo più importante, il Valpolicella. Oltretutto lo fa non solo perché ne riduce la potenzialità produttiva, ma anche, ed è un paradosso, perché spesso si colloca in fasce di prezzo dove il Valpolicella dovrebbe essere, e in certi casi è, posizionato». Una questione economica ma non solo. «In realtà – ha aggiunto Boscaini – si tratta di una questione più culturale: se è vero che tra Amarone, Barolo e Brunello, le tre bandiere dei grandi vini rossi italiani, solo il primo comincia con la A, è altrettanto vero che il nostro colosso ha i piedi di argilla. Un vino che dovrebbe qualificarsi come nobile non può sopportare atteggiamenti di piccola furbizia, di sotterfugi, di compromesso. E tali problemi si ripercuotono a cascata su tutto l’ambito Valpolicella, creando nom poco imbarazzo ai produttori.
Basti pensare al Ripasso: è un ottimo vino, quando prodotto secondo i crismi, ma è altra cosa dal Valpolicella, al quale si deve riconoscere il carattere, non indifferente, dell’originalità. Eppure se ne produce sempre meno.
Il problema vero è che nessuno è in grado di proporre soluzioni condivise per questo territorio unico, in grado di dare vita a quattro distinti livelli di vini di qualità (Valpolicella, Ripasso, Amarone e Recioto). Ma se si tira troppo la corda, questa rischia di spezzarsi: occorre riportare la produzione alla sua originaria normalità. Fisiologicamente le bottiglie di Amarone prodotte non possono superare i sette milioni di pezzi». Peccato però che quest’anno siano state messe a riposo uve per dodici milioni di pezzi, che saranno pronti fra due anni. Sempre che la bolla non scoppi prima, come paventa Tommaso Bussola, un altro che il Valpolicella insiste a farlo ancora, e a farselo pagare come merita, visto che continua a produrlo con elevati standard qualitativi: «Se il mercato richiede più Valpolicella Superiore e più Amarone – ha affermato – i produttori non possono fare altro che assecondarlo. Anche perché oggi vendere il Valpolicella semplice è diventato un’impresa, soprattutto per me, che insisto a farmelo pagare quanto alcuni vogliono per i loro Superiori. Il problema vero è che finché il grosso della produzione del Valpolicella rimarrà nelle mani delle grandi cantine, sarà difficile riuscire ad imporre il necessario cambio di mentalità». E le possibilità di valorizzazione del prodotto si ridurranno al punto da portare alla scomparsa di una lavorazione tradizionale sì, ma sempre meno remunerativa.
Ecco perché quello dell’estinzione è un rischio che nessuno in Valpolicella può permettersi il lusso di sottovalutare.
Ripasso, un business poco chiaro
L’occasione fa l’uomo ladro, questo si sa. E proprio perché si sa, bisognerebbe non indurre in tentazione, ma eventualmente liberare dal male. Una lezione che in Valpolicella non tutti hanno assorbito fin negli intimi recessi dell’anima, soprattutto in questi ultimi anni di vacche altro che grasse, fin quasi bulimiche, a detta di molti. Con l’approvazione delle modifiche al disciplinare in tema di Ripasso, poi, le occasioni si sono moltiplicate: e con le occasioni anche i vignaioli che probabilmente si sono fatti tentare. Perché la carne è debole e i soldi sono soldi. Soprattutto quando sono tanti.
Non è un caso che i produttori della Valpolicella si siano accapigliati per anni prima di fermare le bocce e sottoscrivere un accordo di massima che permettesse al legislatore di fissare alcuni paletti alla produzione di Ripasso. Quel vino, per i pochi che non avessero ancora ben chiare le coordinate, che da Valpolicella semplice semplice si trasforma, in virtù di una ripassatina su vinacce pregiate, in quello che gli anglosassoni hanno definito “Amarone baby”: dell’Amarone ricorda solo qualche profumo, limitandosi ad un vigore di cartapesta, quanto basta però a coloro che si accontentano di un buon surrogato godibile a prezzi decisamente meno impegnativi.
Ebbene, nero su bianco oggi è scritto che chiunque produca, poniamo caso, dieci quintali di Amarone, automaticamente acquisisce il diritto a ripassare sulle sue vinacce venti quintali di Valpolicella, che si trasformeranno in venti quintali di Ripasso. Non una goccia in più, caso mai qualche goccia in meno. Il che sta a significare che se un vignaiolo scrupoloso e amante del proprio lavoro e del vino che produce si limita a “ripassare” solo dieci quintali di Valpolicella, perché punta ad una produzione di qualità indipendentemente dalle prospettive di guadagno, formalmente rinuncia agli altri dieci. Ma l’occasione, come si diceva prima, tende a traviare anche il più onesto degli uomini. Soprattutto se le maglie normative sono larghe come quelle di fresco elaborate. Nulla impedisce a costui, se non quelle inibizioni morali che dovrebbero costituire un punto di riferimento irrinunciabile se si vuole fare con coscienza questo lavoro, di “vendere” i dieci quintali non utilizzati, di mettere cioè a disposizione le carte a favore di chi ha qualche quintale di Valpolicella in più da valorizzare. Di solito si tratta di produttori che le loro quote le hanno sfruttate fino all’ultima vinaccia. Non sono pochi, detto per inciso, coloro che per questo insistono a ritenerle esagerate: «Tutti sanno – ha dichiarato un vignaiolo della zona classica che ha preferito rimanere protetto dall’anonimato – che le vinacce, soprattutto quelle dell’Amarone, non possono regalare profumi e sapori a tutto quel Valpolicella. La regola dell’uno a due è stata studiata apposta per quanti puntano ad arricchirsi senza arricchire il loro vino. Tanto più che, a fare bene, le vinacce sulle quali compiere l’operazione dovrebbero essere quelle del Recioto. Più forti e robuste, ma con il tremendo difetto di non essere disponibili in grande quantità».
I più furbi, poi, arrivano addirittura ad affittarle, le loro vinacce non ancora esauste. Senza doversi impelagare nel traffico di dichiarazioni, nuove e rischiose manovre burocratiche, si limitano ad aprire le porte delle loro cantine agli “affittuari” e a lasciare che il loro Valpolicella si trasformi in oro. Quando si approssima il momento, in Valpolicella è tutto un via vai di autobotti. Perché il mercato del Ripasso è ancora così effervescente che non sono pochi quelli che non sanno rinunciare al loro momento di gloria. Costi quel che costi.
Magari anche spingersi qualche chilometro fuori confine, raggiungendo le amene sponde del lago di Garda, là dove i disciplinari hanno previsto, per il vino prodotto con le medesime varietà del Valpolicella – ovvero Molinara, Rondinella e Corvina, autoctono più, autoctono meno – una denominazione differente: si tratta di Bardolino, che si è di recente tentato senza costrutto di rivitalizzare con la concessione di una incomprensibile Docg.
Si racconta che c’è stato chi, più prosaicamente, ha provveduto a procedure di rianimazione ben più incisive, arrivando a trasformare in Ripasso ciò che sarebbe dovuto arrivare sugli scaffali con la sua bella etichetta di “Bardolino”: gli è stato sufficiente allungare di qualche chilometro la strada dal campo alla cantina e scaricare le uve dal trattore nei serbatoi di qualche amico compiacente. Una bottiglia di Bardolino, ben che vada, rende un paio di euro: una di Ripasso almeno il triplo. Fantaenologia? C’è da sperarlo, anche se molti produttori, quando si affronta l’argomento, sorridono, senza aggiungere una parola. E indicano il supermercato più vicino. Dove qualche bottiglia di Ripasso fa bella mostra di sé a prezzi che si fatica a giustificare. A meno che…
Modifica al disciplinare di produzione del Valpolicella
Porta la data del 14 settembre 2007 il decreto con cui il Direttore Generale per la qualità dei prodotti agroalimentari La Torre ha provveduto a modificare il disciplinare di produzione della doc del Valpolicella. Modifiche dettate dalla necessità, finalmente ufficializzata, di allargare l’ambito anche a quel Ripasso rimasto a lungo ai margini delle procedure e, ciononostante, campione di incassi degli ultimi anni. Il Ripasso è diventato oggi ufficialmente riconosciuto, purché, ovviamente, rispetti i parametri previsti dal Ministro, elaborati dopo estenuanti tira e molla con i produttori. Scontata la rifermentazione sulle vinacce residue della preparazione di Recioto e Amarone, colpisce invece quanto riportato all’articolo 5: il quantitativo dei vini destinati alla produzione di ripasso non può essere superiore al doppio del volume di Recioto o Amarone prodotti. Il che significa che se un produttore imbottiglia mille litri di Amarone, non potrà poi immettere sul mercato più di duemila bottiglie di Ripasso. Una misura sulla quale i vignaioli della Valpolicella si sono confrontati a muso duro, ma che alla fine è stata condivisa per impedire che uno sfruttamento intensivo portasse ad una inevitabile decadenza qualitativa.
Per il Ripasso niente tappo a vite, però. Né bag in box, come reclamava chi punta ai mercati del Nord Europa. Il tappo a vite è stato ufficialmente ammesso, ma solo a chiudere bottiglie di Valpolicella “semplice”.