Ci sono ristoranti che possono essere scambiati per qualcosa di molto diverso da quello che sono. Ci sono ristoranti che sembrano batterie di polli, altri che ricordano laboratori chimici. E ancora mense di ospedali, lavanderie e vecchi musei impolverati. Ce n’è addirittura uno a Singapore, l’Aurum di Edward Voon, arredato per sembrare una sala operatoria, con tanto di bisturi al posto dei coltelli.
A Londra, invece, c’è Sketch’s Lecture Room & Library. Sketch’s rientra nella categoria “luna park”.
Chiamarlo glamour è un po’ riduttivo. A me è capitato di incrociare la regina Elisabetta all’entrata del locale, con tanto di scorta e gruppetto di anziani amici avvinazzati.
Il che significa che è un buon punto di appostamento per fare vip-watching. Di solito questo dato stride con la bontà della cucina. E’ come incontrare donne bellissime e intelligentissime allo stesso tempo: molto raro. Dietro ai fornelli c’è Pascal Sanchez, allievo di Pierre Gagnaire. Capace di non farsi influenzare dal maestro, tanto da portare la sua cucina in una direzione nuova. Un ibrido British-mediterraneo, creativo quanto basta per stupire anche i lord e le lady che frequentano queste opulente aule tutto design. Si diceva luna park. Perché questo è il regno incontrastato di Marcus Lawson Bell, architetto di fama nella City. A lui è stata data carta bianca, all’epoca del restauro del palazzo vittoriano di Conduit Street. E lui non si è posto limiti. Colori shocking, toilette a forma di uovo da cui si sprigionano lampi e musica inquietante, divagazioni nel kitsch che mescolano l’austera britannicità delle mura originali alla bizzarra ricercatezza dell’oggettistica.
Il concetto fondamentale è che la cucina è un’arte parificata alle altre. Musica, pittura, cibo e scultura convivono da Sketch. E hanno raggiunto la parità, come fossero vecchie suffragette. Difatti il cuore pulsante del locale è la Gallery, che ospita tavoli in mezzo a mostre d’arte – ultimamente una retrospettiva sui film astratti di Mary Ellen Bute.
Il problema è che lo sfarzo e la grandeur di sale come The Parlour o la Lecture Room distraggono dall’arte di Sanchez. E questo la critica inglese non lo perdona. Periodicamente scortica vivo lo chef, che ha la sola colpa di lavorare in un luogo troppo bello per essere anche buono.
In realtà, è-buo-no. Base francese, solidità. Elementi mediterranei, leggerezza. Ingredienti britannici, sapore.
Sulla tavola atterrano classiconi come l’Angus beef in salsa di Borgogna con gnocchi di patate, scalogno brasato e carote al burro di salvia. Ma anche escursioni visionarie come il Gazpacho caldo con sorbetto di tamarillo e fragola. Quando vuole stupire, in bocca, Sanchez sceglie piatti complessi, intricati. Come il Cinque modi di preparare l’aragosta: tartara con Bok choy croccante, e sciroppo d’uva speziato. Mussolata con cardamomo e cubetti di fragole. In padella con burro alle nocciole, polvere di guscio e salsa Soubressade. Gelatina di aragosta in coppa con fagioli e biscotto al peperone. Infine, alla griglia con foglie di agria e pancetta affumicata. Questo è un unico piatto, piccole deliziose tapas che onorano il crostaceo.
C’è anche molta ironia nella ricerca di questo 35enne trapiantato a Londra, come dimostra lo “starter” intitolato France. Zuppa di cipolle, Mela con crema Tarragona, Terrina di coda di bue con cetriolini freschi, Selezione di tagli di maiale alla Colette Sibilia, Gelatina di papavero e chutney di stagione, Potpourri di lumachine in vino di Rasteau. La cura del dettaglio è maniacale, le idee sono molte, tanto che devono essere liofilizzate e concentrate in piatti ricchissimi, molteplici, dai molti volti. Il minimalismo è lontano, ma il mondo è bello perché non è detto che chi lavora per accumulazione sia peggio di chi percorre le vie dello Zen. A Londra ci sono molte gallerie, mostre e musei da visitare. In fondo, lo Sketch è uno di questi.
Arte post-moderna che sconfina nel glamour, quando si visita l’East Bar del locale, quello aperto solo la sera, o The Glade, forse l’area più particolare. Ma in un momento in cui gli atleti diventano starlette televisive e gli artisti producono vino, che c’è di male?
Di Samuele Amadori