Dal Miami di Milano Marittima all’Enoteca Pinchiorri di Firenze e ora da sette anni in sala da Cracco a Milano.
Campione italiano nel 2004, europeo nel 2009, ora è campione del mondo dei sommelier WSA.
Non viene da un istituto alberghiero, Luca Gardini, 29 anni da Cervia (con la e di Empoli come la pronuncia lui da romagnolo verace). E’ perito agrario per formazione e sommelier per vocazione…
Però la frequentazione con il settore alberghiero e la stagione estiva al mare sono praticamente un obbligo per i ragazzi come me, non credi?
Una specie di obbligo di frequenza per i giovani della riviera romagnola?
Esattamente. La mia prima stagione l’ho fatta all’Hotel K2 e quelle successive, le più importanti, all’Hotel Miami di Milano Marittima, il quattro stelle della famiglia Soldini.
Una passionaccia fin dalla prima adolescenza, la tua.
Dici bene. Papà maitre d’Hotel, il vino sempre in giro per casa, il primo corso con l’Ais a quindici anni. Fin dal primo momento capii di avere una decisa inclinazione per il vino: i miei compagni di corso dicevano che il mio è un talento naturale.
Ma, tra il lavoro in albergo e le serate in riviera, la scuola di agraria e la tua esuberanza adolescenziale, cosa pensavi di fare nella vita?
Sai che credo di avere sempre pensato solo al vino? Tutto il settore enologico mi appassionava, le esperienze di degustazione erano per me la cosa più importante e divertente.
Tanto è vero…
Tanto è vero che tra un concorso e l’altro nel 2004 – non avevo ancora 23 anni – sono diventato il migliore sommelier d’Italia.
Per molti sarebbe stato un punto di arrivo. Per te fu invece un trampolino di lancio…
Alla grande! In poco tempo mi ritrovai alla corte di Giorgio Pinchiorri e quella fu per me l’esperienza lavorativa più significante: lavorare in una delle migliori cantine del mondo, in una città come Firenze, all’ombra delle 3 stelle Michelin: non avrei potuto immaginare di meglio.
Come ricordi il tuo rapporto con Giorgio Pinchiorri?
E’ stato senz’altro il mio primo vero maestro. Mi è rimasto nel cuore e credo ci rimarrà sempre perché mi ha trattato come un figlio ed è stato per me una guida determinante. Mi ha dato la possibilità di assaggiare i più grandi vini del mondo, mi ha seguito nella loro interpretazione, mi ha chiarito le idee.
Da Pinchiorri a Cracco: momenti diversi nel corso della tua maturità professionale?
Se Pinchiorri mi ha fatto comprendere l’intima essenza del vino, Carlo Cracco è stato (e lo è anche adesso) il mio maestro di vita. Con lui ho imparato a gestire gli aspetti più difficili del mio lavoro. Lui è riuscito ad interagire con il mio cervello, la mia anima, il mio cuore: io con lui e lui con me.
Parole grosse…
Forse. Ma ci sono cose che a volte non si capiscono. Come la mia capacità di comprendere il vino: un’ossessione, un’inclinazione naturale, un dono di dio?
Parole sempre più grosse…
Te l’ho detto. Ci sono cose che sento e forse non le capisco fino in fondo…
Dopo queste avventure, nella tua esperienza formativa ti senti più grato alle persone o felice per il tuo successo?
Io mi sento soprattutto Luca Gardini. Per la mia volontà e l’impegno che ci metto ad esserlo.
E come vivi questo tuo momento di celebrità?
Come prima. Anzi: con un peso in più! So che ora tutti si aspettano di più da me e devo affrontare il mio lavoro con una responsabilità più grande di prima, se appena è possibile. Un concorso dura un paio di giorni, ma è nell’attività di tutti i giorni il vero concorso.
Ti senti giovane o già abbastanza saggio?
Non sono né giovane né saggio. Sono ancora al punto di partenza, con tanta voglia di confrontarmi con gli altri e di mettermi in gioco. Voglio essere un punto di riferimento per il vino: ho dei pensieri che voglio espandere e definire meglio, delle idee che voglio trasmettere al settore. In fin dei conti, nonostante la mia età, sono già quindici anni che faccio il sommelier e mi sento già tra i vecchi del mestiere.
Tra consulente e guru?
Comunicare il vino, svolgere consulenze per le aziende, esportare il Made in Italy: questo voglio che sia il mio futuro.
Nel frattempo, almeno per il momento, vivi come tutti noi nel presente. A proposito, dove vivi?
Qui a Milano in zona Duomo. Amo questa città che mi ha dato così tanto: Milan l’é un gran Milan!
E la Romagna?
In Romagna torno spessissimo e comunque ce l’ho sempre nel cuore: piadina e Sangiovese!
Il rapporto tra Luca e il vino di Romagna?
Tra la Romagna e la Toscana è nato il Sangiovese ma, mentre in Toscana s’è affermato il vitigno che fa il giro del mondo, in Romagna vanno forte solamente alcuni produttori come Castelluccio, Madonia, La Zerbina, Ferrucci, Drei Donà. Da noi non si riesce a fare squadra, a lavorare tutti insieme per il nostro vino di bandiera, che pure è buonissimo. Non so perché ma proprio nella mia terra, dove pure sono molto apprezzato, non mi chiamano spesso. Anzi mi interpellano molto raramente. Questo non lo capisco e mi dispiace molto.
Hai tempo, occupato come sei, per la dimensione sentimentale?
Preferisco tenerla un po’ per me: cerco di difenderla. Ti posso però dire che esiste la donna della mia vita: si chiama Alice, ha tre anni, è bellissima.
Torniamo al vino: in fin dei conti sei il miglior sommelier del mondo. Come è cominciato il tuo avvicinamento a questo concorso?
Ho sempre voluto diventare qualcuno nel mondo del vino, perché la gente sentisse parlare di me e della mia passione autentica, perché il vino italiano si ricordasse di me. Da ragazzino mi dissi: un giorno diventerò il campione del mondo dei sommelier.
Sì, va beh. Però… Raccontami come hai fatto.
Nel giugno del 2009 ho partecipato assieme agli altri campioni italiani alle selezioni per il campionato europeo e li ho battuti tutti. A novembre, sempre dell’anno scorso, a San Marino, ho vinto ancora contro tutti i campioni delle nazioni europee e come campione europeo, di diritto, ho avuto accesso alle semifinali mondiali.
E veniamo a questo 12 ottobre a Santo Domingo…
Il concorso è durato due giorni. Nelle prove di semifinale ci siamo cimentati in un questionario scritto di cinquanta domande che riguardavano tutto il mondo dell’enogastronomia: dall’acqua alla cioccolata, dalla birra alla chimica del vino. Poi degustazioni scritte in lingua inglese, abbinamento cibo-vino, per finire con la prova di servizio.
Una follia…
Il secondo giorno i tre che avevano avuto il punteggio migliore si sono sfidati in una prova aperta al pubblico: Milan KrejÄí della Repubblica Ceca, il dominicano Héctor García e io. E ognuno di noi tre ha avuto modo di dimostrare la propria stoffa, il proprio estro. Un combattimento a suon di degustazioni orali di vini e distillati, argomentazioni sulla carta dei vini, presa della comanda con l’aperitivo e gli abbinamenti, menù in inglese, decantazione, stappatura dello Champagne.
Raccontami la tua degustazione alla cieca.
Appena ho messo il naso nei tre bicchieri mi sono reso conto che quei vini li conoscevo. Acidità, note agrumate, il primo poteva essere un Sancerre 2008 e lo era. Il secondo era animale, pieno, un po’ terroso, polveroso, mascolino, bello concentrato, speziato. Poteva essere un Taurasi, un Montepulciano, era del Centro Italia. Ho detto Montepulciano d’Abruzzo e ho avuto ancora ragione. Il terzo era facile perché la sua inconfondibile nota di zabaione cotto mi guidava verso lo Sherry: ho detto Palo Cortado di venticinque anni. Ne aveva trenta, ma è andata bene ugualmente.
E con i distillati?
Ne ho indovinati quattro su cinque. La carta dei vini è andata benissimo, bene anche con lo Champagne e con la decantazione.
Dopo di che: the winner is…
E’ partita la musica, è salita la bandiera italiana accompagnata dall’inno di Mameli e io non ho capito più niente. Una vera ubriacatura di tutti i sensi, tutta in una volta.
Ma qual è per te il vino più facile da riconoscere?
Sono tanti, li ho come scritti nel cervello. I più facili sono i vitigni profumati come il Gewurtraminer, il Sauvignon. Il Nebbiolo è facilissimo. I vini dei paesi caldi come il Malbec, il Carmenère, il Tannat dell’Uruguay parlano da soli. Molto facile è anche distinguere lo Champagne da ogni altro tipo di bollicine del mondo.
E invece quello che ti sfugge?
I vini che ti sfuggono sono quelli costruiti, quelli dove la barrique vuole confonderti le idee e nascondere l’identità del territorio.
Come dovrebbe essere il vino secondo te?
Il vino dovrebbe essere come è la terra. Il vino attuale non esiste e non esiste nemmeno la standardizzazione del gusto. Come si fa a fare un vino che quando vai ad assaggiarlo in cantina è già rotondo e morbido? Se a Montalcino viene bene il Sangiovese perchè ci devono andare a piantare il Cabernet Sauvignon o lo Shiraz? L’Italia è il Paese con il maggior numero di vitigni autoctoni. Che vogliono dire tradizione, identità, emozione, senso del territorio. Se bevo un Gaglioppo che mi costa sette euro ma di quella terra lì mi ha dato il meglio, ecco che ho trovato un vero, grande vino.
Terroir o territorio?
Territorio, senza dubbio. Che contiene, assieme a tutto il resto, anche il terroir.
A questo punto fammi la tua top ten.
Più che volentieri. Partiamo con le bollicine: Giulio Ferrari Riserva del Fondatore e Cabochon di Monte Rossa in Franciacorta. Per i bianchi metterei: la Vernaccia di San Gimignano di Mattia Barzaghi, il Verdicchio dei Castelli di Jesi Riserva Stefano Antonucci. Grandi i bianchi della Cantina di Terlano sia lo Chardonnay che il Sauvignon che il Pinot Bianco. E il Carricante di Gulfi in Sicilia. Adesso cominciamo con i rossi che sono per me il punto di riferimento del nostro Made in Italy e dell’enologia mondiale.
Accidenti…
Sì, accidenti. Proprio così. E’ ora di ricominciare a fare come Gino Veronelli: nomi e cognomi, senza paura di dire come stanno davvero le cose e di manifestare il nostro pensiero con coraggio. Nei miei rossi di ferimento ci metto il Barolo Lazzarito di Fontanafredda, il Barbaresco di Bruno Giacosa, il Barolo Monfortino di Giacomo Conterno, il Barbaresco di Gaja e l’Amarone di Quintarelli. Più a Sud il numero uno dei Supertuscans è l’Ornellaia e un altro grande vino, che Wine Spectetor ha un po’ snobbato ma che invece si merita il meglio, è il taglio bordolese del Castello di Vicarello di Carlo Baccheschi nel Montecucco e sempre nella stessa zona, vicino all’Amiata, mi piace tanto il Sangiovese Grotte Rosse di Leonardo Salustri nonché l’ottimo Coevo 2007 di Cecchi.
In Sicilia non dimentico il Nerello Mascalese di Salvatore Geraci e il Nero d’Avola di Gulfi. Tornando un po’ più in su metto nella mia top ten i vini rossi della Valentina. E poi il Taurasi di Mastroberardino e il Gaglioppo di Ceraudo.
Possiamo inserire anche un paio di vini dolci…
Con piacere. Li trovo lontani tra loro: il Moscato d’Asti Valdiserre dell’azienda Isolabella della Croce e la Marsala di Marco De Bartoli.
Fine della classifica. Ora una constatazione: il migliore sommelier del mondo sono due.
Cosa pensi della querelle tra la WSA (Worldwide Sommelier Association) di cui fa parte l’Ais e che ti ha premiato, e l’ASI (l’Associazione Internationale della Sommellerie) che ha invece conferito il tuo stesso titolo, sempre per il 2010, all’inglese Gerard Basset?
Non ho proprio voglia di farci sopra delle polemiche. Le associazioni sono due e ognuna ha le sue proprie ragioni, più o meno valide. Il fatto che io sia nell’Ais e mi riconosca nella WSA già ti dovrebbe dire come la penso in fatto di numeri, qualità, storia delle associazioni e professionalità degli associati. E non penso che questa rivalità tra associazioni sminuisca il mio titolo. So di averlo pienamente meritato.
E con Gerard Basset come la mettiamo? Potremmo anche ipotizzare una sfida alla pari con un supertitolo in palio…
Basset è un grande, ma se lui vuole sono qui, quando vuole, anche domani.