Era quasi scontato che il figlio di un famoso consulente enologo, cresciuto in cantine e vigneti di tutta Italia, potesse un giorno intraprendere gli studi e la carriera del padre. Meno scontato che lo facesse autonomamente, curando e mettendo in piedi, ex novo, una propria azienda per produrre vino con la grinta e con la passione di chi ci crede nelle propria capacità e, soprattutto, nel potenziale del territorio. E’ la storia di Francesco Monchiero, figlio del più famoso Marco che, invece, è navigato consulente enologo di aziende blasonate di mezza Italia e anche del mondo. Francesco, 33enne giovane intraprendente, ma maturo, dal ’95 – da quando si è diplomato – è proprietario dell’azienda dai due cognomi Monchiero Carbone (senza la e di congiunzione) di Canale, capitale del vino Roero. Qui produce vini di straordinaria fragranza e forte identità territoriale. L’azienda porta apposta i due cognomi di famiglia, quello del padre Monchiero e della madre Carbone come le due vigne e le due terre su cui si producono i suoi vini: vigneto Monbirone, ideale per conferire strutture potenza e regalità al barbera, dove la terra è dura calcarea quasi cretosa, (due gocce d’acqua già la rendono scivolosa come il sapone): lavorala è difficile e poco malleabile come i Monchiero; Vigneto Tanon, invece, sembra creato apposta per esaltare le fragranze e la piacevolezza dell’ Arneis: qui la terra è sabbiosa, sempre asciutta, leggera e nel lavorarla è subito amica e cordiale come i Carbone. Ma se questo è l’inizio della storia materiale dell’azienda Monchiero Carbone, diversa è la storia dello spirito che ne ha animato la nascita che si concretizza nella tradizione originata dal mestiere di viticoltori, che nel passato venne abitualmente svolto da molti componenti delle rispettive famiglie. Valente Clotilde, nonna materna del ramo dei Monchiero, sposò alla matura età di trentuno anni, Giovanni Raimondo detto Giobbe al suo ritorno dall’America, dove aveva trascorso i dodici anni della sua gioventù. Lo scoppio della grande guerra li divise quasi subito lasciando lei sola, ancora senza figli a vivere da vedova senza aver vissuto da moglie. Per riempire quella solitudine, che rischiava di divenire infinita, volle acquistare con la propria dote il vigneto di Monbirone, che poi coltivò per tutta la sua esistenza: in attesa del ritorno dello sposo, negli anni brevi della vita coniugale, nelle difficoltà della vedovanza. Quella stessa vigna fornisce ancor oggi l’omonimo vino, vanto delle produzioni di Monchiero Carbone. Sempre agli inizi del 900 Carbone Enrico detto Rico sposa la giovane Gioetti Lucia, bella slanciata e da tutti chiamata “la bionda” . Lucia, figlia del benestante mezzadro del Conte del paese, porta in dote un accurato corredo ed una buona somma di denaro, che viene ovviamente destinata all’acquisto di un terreno: questo sito sulla collina del Tanon (Tanùn) dove Ricù volle subito piantare un vigneto di Arneis per produrre , non senza difficoltà, quel vino bianco tenuto dolce, secondo il gusto del tempo, capace di allietare sia la mensa dei giorni di festa che i momenti furtivi da trascorrere con gli amici.
Se vi può sembrare strano voler legare quelle scelte non alla casualità degli eventi ma al carattere ed alle inclinazioni dei protagonisti, ricordate che per quelle generazioni di contadini la terra era tutto, tutto veniva dalla terra e tutto era nella terra. L’intera la famiglia si sentiva legata all’ideale scelta di un vigneto: per generazioni lo coltivava sospinta da un sentimento sospeso tra necessità ed orgoglio.
“All’inizio della mia avventura in azienda – ci racconta Francesco – la figura di mio padre è stata fondamentale…..penso al lavoro iniziale di impostazione, al confronto su alcune tecniche di produzione, su alcune scelte suelle tecniche di cantina, ma anche ai numerosi scontri. Alla fine sono andato per la mia strada e lo ringrazio per avermi concesso di farlo in modo autonomo”. Sì perché più che una sfida lanciata verso il padre, quella di Francesco, è stata da subito una sfida lanciata verso se stesso. Perché ha creduto fortemente nel patrimonio vitivinicolo del Roero: un territorio che con i suoi vini, appena Francesco prese in mano l’azienda di famiglia, era in notevole svantaggio rispetto alla fama internazionale della vicina Langa. “Non avrei mai fatto un Nebbiolo d’Alba nel Roero nonostante la Doc di quel tempo permettesse di chiamarlo così – mi dice – chiamarlo d’Alba, il nostro nebbiolo, di questa parte di terra alla destra del Tanaro, era concettualmente sbagliato: il nome Alba richiama un territorio e dei vini che non sono di qui. Noi siamo nel Roero e le nostre erte vigne, ricche di terreni sabbiosi e limo, danno un nebbiolo dalle caratteristiche organolettiche che, nei profumi e nel gusto, parlano di unicità di questo territorio”.
Per il Roero e i suoi vini la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni ’90 è stata prima di tutto una grande sfida culturale e poi commerciale. Il grande Roero per l’azienda di Francesco inizia con l’annata ’96. Dopo quella del ’90 c’erano state tre annate consecutive sfortunate per il clima avverso che aveva fermato l’ascesa dei vini del suo territorio. Dal ‘97, la strada per il vino Roero sembra ormai tracciata anche grazie al recente riconoscimento nel 2005 della nuova Docg. “Bisogna impegnarsi di più “fare sistema”, produrre qualità, riconoscersi nella “cultura del territorio” – dice Francesco. Ma in questi ultimi anni è successo già qualcosa: molti dei produttori del Roero come Francesco Monchiero, si sono guardati in faccia e “riconosciuti” in un progetto comune per valorizzare trasversalmente l’immenso patrimonio agro-alimentare ed enogastronomico di questo territorio. Speriamo siano determinati come la tenacia, la professionalità e la cultura di cui sono depositari.
Di La Madia