10/05/2010
Quando alcuni mesi fa ad Auschwitz qualcuno rubò la beffarda insegna “Arbeit Macht Frei” (il lavoro rende liberi) posta all’ingresso del campo di concentramento, ho pensato che avremmo potuto comprarlo noi quel macabro simbolo del male assoluto.
Avremmo potuto comprarlo per porlo al valico d’ingresso del nostro Paese, a completamento dell’ormai altrettanto beffarda massima costituzionale che recita “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”.
Quale lavoro? E di chi?
Probabilmente il lavoro della nostra casta politica che si dà davvero un gran daffare per aumentare i propri privilegi facendoci pagare il prezzo di intrallazzi e corruzione in tutti i settori dell’economia del Paese, un parco di 629.300 auto blu ancora in aumento (autisti e benzina inclusi) che da soli ci costano una finanziaria, stipendi iperbolici ad un numero esagerato di politici e relativi portaborse che solo ora, sempre più lontani dal Paese reale, pensano (finora lo pensano solo e non lo fanno) a decurtarsi un risibile 10%, neanche sufficiente a compensare il decurtamento che da sempre applicano alla loro effettiva settimana lavorativa (e che comunque verrebbe presto rimpiazzato da altre prebende). O forse questa repubblica si basa sul lavoro di gente come quell’ infermiera di Napoli, morta dopo una protesta fatta di digiuni e prelievi di sangue, perché l’ospedale San Paolo si arrogava il diritto di non pagarle da tempo la sua mansione regolarmente svolta; o magari si fonda sul lavoro di quei neri sfruttati nei campi, offesi in ogni loro dignità di essere umani, la cui sofferenza non serve altro che ad alimentare un sistema mafioso e sperequativo di svilimento della nostra agricoltura. Oppure, più semplicemente, questa Repubblica sopravvive ancora miracolosamente sul lavoro di ciascuno di noi, un lavoro che oggi non ci nobilita e non ci rende liberi, ma che ci rende complici nell’alimentare un meccanismo consolidato di grandi interessi privati, alla maggioranza degli italiani estranei.
Continuiamo a regalare in tasse e balzelli più della metà dei nostri giorni lavorativi, senza avere in cambio il diritto a una sanità efficiente, a uno Stato di effettivo diritto, il diritto di accesso al credito che ci dovrebbe essere garantito da banche non usuraie, il diritto prima di tutto a lavorare, e poi a lavorare tranquilli, nella certezza che i nostri figli possano normalmente usufruire di asili nido, di una materna al servizio delle famiglie di oggi, di una scuola che non penalizzi il diritto allo studio.
No, il nostro lavoro non ci rende liberi.
Ci rende schiavi di un sistema antidemocratico di arricchimento dei più potenti ai danni dei più deboli, di finanziamento dei furbetti di ogni quartierino che vivono al di sopra delle NOSTRE possibilità.
Perché abbiamo smesso di indignarci, perché non siamo in grado di pretendere dai funzionari dello Stato il rigore che lo Stato chiede soltanto ai lavoratori onesti?
Forse perché in una nazione che ha ormai legittimato tutto ciò che era illegittimo (e che paventa la liberticida legge bavaglio all’informazione mediante il Silenzio di Stato sulle intercettazioni telefoniche), ci sentiamo anche noi più liberi di intaccare senza troppi sensi di colpa i nostri stessi modelli di integrità e moralità?
No, io non ci sto.
Finché ne avrò la possibilità, scriverò la mia ribellione su queste pagine che pago da sola (dato che lo Stato finanzia solo il giornalismo di partito o dei quotidiani, e non quello specialistico come il nostro) con l’aiuto di quelle sempre troppo poche aziende che acquistano sulle riviste specializzate la loro pubblicità, convinte che la libera circolazione delle idee abbia fatto crescere e farà crescere la conoscenza dei loro prodotti insieme a questo nostro settore.
Lo Stato, anche se adesso non ci rappresenta, siamo noi.
Non dimentichiamolo…