Non si arriva per caso a San Vito di Cadore, stazione delle Dolomiti che allinea i suoi caseggiati bruni lungo la via principale, impacchettati dentro un paesaggio severo che non si può non definire “sublime”. Su un lato, dietro il cuscinetto del parcheggio e del prato, proprio sotto le cime si staglia la sagoma gialla di Villa Trieste, edificio d’antan convertito al turismo gourmet. Dove è quasi invisibile l’insegna di Aga, ristorante balzato in cima all’agenda dei gourmet.
È stato un 2015 da incorniciare, per Oliver Piras e Alessandra Del Favero, che l’hanno aperto due anni fa. Fuori dalla piccola sala del ristorante, con i suoi quattro tavoli nudi e le pareti in legno chiare che sembrano covare il calore dei sogni, si sono affastellati trofei e riconoscimenti: Emergenti per il Gambero Rosso e per Luigi Cremona, poi Top di domani per il Touring club e infine stella Michelin 2016. Lui un ragazzo di 29 anni, passato per le cucine dei grandi; lei un’ex maestra di sci, figlia dei titolari dell’albergo, diplomata ad Alma. Fra loro intesa, passione e una scintilla che è scoccata da Vittorio a Brusaporto, dove Alessandra stava svolgendo il suo stage mentre Oliver era già sous-chef. Oggi nella loro piccola cucina, che serve anche l’albergo, hanno un unico aiuto: alle 20, finita la pensione, esplode il coup de feu gastronomico, con i giovani cuochi che accorrono in sala per illustrare i piatti agli ospiti e intuirne le propensioni.
La cucina è a quattro mani: quelle esperte di Oliver, chef ficcante ed estroverso, strette alle carezze di Alessandra, il cui temperamento è più concreto e misurato.
“Sono cresciuto in uno scenario altrettanto incontaminato di questo, a Selargius, vicino a Cagliari; con mio nonno Angelo che mi portava a raccogliere i funghi nei boschi”, racconta Oliver, il più mediatico dei due. “Non so bene come e perché, a un certo punto ho cominciato a ossessionarmi. Ero sempre sintonizzato sul Gambero Rosso Channel e collezionavo riviste; ogni anno non vedevo l’ora di accaparrarmi la Michelin, anche se i miei amici non capivano. Così dopo la terza media ho scelto l’Alberghiero di Cagliari e ho iniziato ad accumulare una biblioteca che oggi conta 200 volumi, da Sadler a Pascal Barbot, il mio preferito. Ricordo che mi mettevo a cucinare di nascosto da mia madre, che temeva sporcassi. Ma lei se ne accorgeva sempre”. Dopo uno stage a Strasburgo, utile per imparare il francese, c’è subito il salto felino nel gastronomico con Roberto Petza, Alberico Penati e niente meno che Joël Robuchon, nell’arco di due anni a Londra. “Ricordo che ogni tanto arrivava, come un’apparizione. Dava una stretta di mano ma non sapeva il nome di nessuno. Sono rimasto impressionato dalla cura del dettaglio e dall’organizzazione; dalle influenze asiatiche, che mi erano ignote, e da tecniche classiche che tuttora impiego, per esempio nella cottura delle carni sulla padella di ferro, con i relativi tempi di riposo”. L’Italia tuttavia chiama ed è la volta di Vittorio a Brusaporto, prima in veste di commis, poi da capopartita e per finire nel gruppo dei sous-chef. Sono quasi quattro anni spesi a investigare la materia pesce, cogliendo l’occasione di qualche stage nei gangli strategici della cucina mondiale. Il Celler de Can Roca, particolarmente stimolante in pasticceria, come il Noma, scuola di vegetali, fermentazione e foraging, con il suo stile di dressage e i piatti finiti al tavolo. “Poi è successo che per amore ho seguito Alessandra in montagna. Un paio di stagioni al Rosa Alpina di Norbert Niederkofler mi sono state utili per familiarizzare con i prodotti di montagna. Ed è stata la volta di Aga, inizialmente in chiave nordica, per le peculiarità del contesto, e anche per attirare l’attenzione; poi sempre più italiana”.
L’estero è l’ispirazione. Ma la prossimità è la regola.
Ma il 2015 è stato anche l’anno di un viaggio in Giappone, che ha aiutato a precisare lo stile. “Ci siamo resi conto che tante cose, viste in Spagna o in Danimarca, venivano da lì. E la cena da Ryugin è stata una folgorazione, per la lavorazione dei vegetali, i brodi e l’integrità di una cucina, praticamente priva di grassi”. È entrato in dispensa anche qualche ingrediente, come yuzu, shiso e umeboshi, che però non diventano mai protagonisti: la prossimità è la regola, o meglio ancora l’alta quota. Ci sono le verdure dell’orto sotto l’Antelao, pittoresco ring per la coltura di sementi scelte, con il supplemento di un’azienda agricola locale; è a regime dal mese di maggio, ma in inverno, per esempio, si utilizzano le radici estratte dal terreno per i brodi. E soprattutto le erbe aromatiche classificate e trapiantate in vaso con l’aiuto di un botanico e un forestale: quaranta varietà del luogo (più una decina di bacche), collocate accanto alla lavastoviglie per l’effetto serra. La raccolta ha luogo in stagione, tutti i giorni per un’ora dopo il servizio del pranzo, a opera di tutta la brigata. Il pesce è tutto e solo di acqua dolce (gamberi di fiume, trota, salmerino, talvolta con la produzione di bottarga per citare la Sardegna) e laddove è necessario un cereale, si privilegiano l’orzo, l’amaranto o la pasta secca Felicetti, prodotta in Trentino. Anche la cantina ha sposato l’altimetro, con le bottiglie di montagna in prima fila. Il risultato è originale: in assenza di un magistero ben preciso, a prendere forma è una nuova cucina italiana, nel gusto e nelle sequenze, che culminano in superbi primi piatti. Al loro servizio si pongono tecniche ed elementi di diversa matrice, che per una sorta di mossa del cavallo finiscono per enfatizzare la territorialità del messaggio, ricreando sensazioni nordiche di affumicato, balsamico o liquidità corroborante attraverso elementi alloctoni. La stratificazione stilistica ne risulta arricchita, con il suo coerente assemblaggio di motivi classici, primitivisti e d’avanguardia dovuto al cursus honorum di Piras, con Cogo il più completo fra i giovani fuoriclasse italiani. Altrettanto giapponista, ma più astratto, scarnificato e maturo. L’elemento originario, dalla Sardegna alla Danimarca, ai ghiacciai, ha soltanto cambiato cornice, per un tasso di naturalismo immutato. Mentre di “classico”, oltre alle cotture, resta il senso dell’equilibrio, sempre saldo nel piatto, raggiunto però per via originale, temperando la rotondità attraverso note provocatorie quali la tannicità, la scossa elettrica delle spezie, l’alcol, in prospettiva il rancido e l’ossidato. Variabile il numero degli ingredienti, da un minimo di tre fino a una dozzina, molti dei quali presenti come accenni in composizioni complesse. Fra le tecniche, spazio alla fermentazione e alla Greenstar; poco o nulla sottovuoto. L’utopia è ancora quella di Eurasia, che non ha smesso di ispirare l’alta cucina dai tempi della nouvelle cuisine, sulle orme dei fratelli Troisgros e di Gualtiero Marchesi.
Comfort food in degustazione
I menu degustazione sono due, entrambi a sorpresa, composti di 5 e 8 portate al prezzo di 65 e 85 euro; ma c’è anche la carta, per quanto breve, con le sue tre proposte per portata dal tasso di sperimentalismo variabile. Fra gli antipasti, la trota servita in forma di nigiri italiano, con il filetto rassodato nel sale adagiato sulla brandade dello stesso pesce, ma acidulato e mantecato con patate e olio infuso alla brace, per la nota di barbecue. Sul piatto con schizzi di estratto di alloro e spuma di rafano selvatico, piccante e leggermente tannico, secondo un abbinamento del territorio.
Oppure il refresh della splendida rosa di rapa di Chioggia sbollentata e mela verde, (qui sotto) ispirata all’insalatina di indivia belga di Joël Robuchon. Gli ingredienti sono numerosi, dalla polvere di radicchio per l’amaro al caviale, che bilancia l’acidità e cita l’ittico; dal coriandolo, vettore di sapidità, alla spruzzata finale di estratto di zenzero, che ricrea la sensazione dei pickles serviti insieme al sushi, con un morso più croccante. Direttamente dalla terra, il floreale di una bocca profumata. Pulizia.
Straordinari i primi piatti. I ravioli ripieni di zucca al forno, testina alla senape e purea di umeboshi (le prugne fermentate giapponesi) pesate al bilancino, serviti sconditi con mezza foglia di shiso verde e una spruzzata di Amaro del Cadore, a base di iperico e melissa. Una pasta dall’opulenza padana, puro comfort food, bilanciata nella grassezza e nella tendenza dolce dal liquore, appena ridotto per una maggiore presa sulla sfoglia. Dove l’erbaceo con il suo gusto amaro finisce per svolgere la funzione di un burro e salvia d’avanguardia, con l’alcol a fare le veci del grasso.
Oppure le linguine portate a cottura in una miscela di mirtilli rossi e neri, nelle proporzioni del 70 e del 30%, in modo da ricostruire l’acidità di un pomodoro estivo, misurata al piaccametro. Il modello è quello di una classica pasta con la salsiccia, che in questo caso è cruda e di Bra, più una spolverata di luppolo che con il suo tannino asciuga la salivazione indotta dall’acidità e la succulenza dei bocconi di carne.
Tanto lineari quanto arditi i secondi: il salmerino all’origano servito con capperi di sambuco (messi sotto sale e sott’aceto al ristorante) e brodo di petali di rosa secchi, ridotto fino a evidenziare una tannicità aggressiva, che ripulisce la grassezza di un pesce cresciuto in acque ghiacciate; oppure il cuore di manzo, scottato in padella di ferro fino alla temperatura di 55°C e lasciato riposare al caldo per mezz’ora in modo da ridiscendere a 40°C e ridistribuire i succhi, ottenendo una testura asciutta. La sua carica ematica è mitigata dall’acidità della salsa ponzu con un esito di grande delicatezza, che entra nel circolo di amaro vegetale (il cavolo nero stufato, in estratto e in foglia essiccata) ed elettricità speziata (l’estratto di pepe di Sichuan), che quasi anestetizza il palato.
Per dessert il quasi gin tonic di gelato al pino mugo e crema pasticciera all’acqua tonica, servito con kiwi candito e zucchero filato, in stile Roca; oppure il gelato di pepe nero di Sarawak sgrassato dalla spuma di pere acerbe, spruzzato di estratto di levistico e rivestito di cialda al caramello.
Con l’alternativa di un piccolo classico della casa: la bavarese di fieno d’alpeggio con spuma di latte di malga e croccante al cioccolato bianco e orzo soffiato, dove le tecniche della pasticceria classica si inerpicano per i sentieri sconnessi di San Vito. Il dressage, particolarissimo, è ottenuto filmando il piatto e lasciando solidificare il dessert in posizione verticale dentro il cestello della lavastoviglie, fino a ottenere una secante della circonferenza in porcellana: un’abbacinante fanopea dell’alta montagna.
aga ristorante
Via Trieste, 6 – 32046 San Vito di Cadore (BL)
Tel. 0436 890134
www.agaristorante.it