Conviene far finta di niente?
Il segreto è non cullarsi sugli allori. Ma anzi, approfittare di una spinta che fortifica ulteriormente la posizione guadagnata in anni di duro lavoro per spiccare un balzo verso i mercati del futuro. Fare finta, insomma, che non sia successo niente. Che cioè in una decina d’anni la produzione di Amarone sia più che raddoppiata. Che gli ettari di viti dedicati al principe dei vini della Valpolicella si siano incrementati del 50%. Che nessun produttore sia oggi in grado di spedire, specie all’estero, una bottiglia in più di quelle promesse, perché già tutte vendute ancor prima di vendemmiare. La crisi l’Amarone ancora non la sente.
E gli sforzi dei produttori e soprattutto del Consorzio, guidato da qualche mese da Christian Marchesini, sono finalizzati a far sì che non la senta per qualche altro anno. Possibilmente mai. Nonostante le polemiche che di recente hanno squassato un mondo apparentemente confinato ai limiti di una galassia, quella del vino italiano, che invece si sta dibattendo in questioni ben più sostanziali, spesso legate a non banali faccende di sopravvivenza. Polemiche peraltro immediatamente sopite. Ad un tratto qualcuno si era sollevato a reclamare che trattare tutti alla stessa stregua sarebbe stato ingiusto e soprattutto irrispettoso. E che l’abbassamento delle rese al 45% non sarebbe potuta essere la soluzione al problema della sovrapproduzione. «Molto più banalmente – aveva detto Stefano Cesari, vice presidente delle Famiglie dell’Amarone d’Arte, una sorta di consorzio nel consorzio costituito da alcune delle aziende più in vista della Valpolicella – si dovrebbe cercare di distinguere con criteri oggettivi le aree più vocate alla produzione di Amarone e aree meno vocate». Insistere sulla divisione fra territorio classico e territorio allargato, soprattutto ora che il secondo ha superato in ettari il primo, risulterebbe quanto meno anacronistico.
L’arbitro è la collina?
Qualcun altro aveva invece provato a salire in groppa ad un vecchio cavallo di battaglia, ovvero dividere le aziende a seconda dell’altitudine dei vigneti (collina, pedecollina e pianura), visto che il lavoro in collina risulta decisamente più oneroso rispetto a quello in pianura. «Potrebbe essere uno dei sistemi per ricomporre la diatriba – ha commentato il neopresidente del Consorzio, Christian Marchesini – ma al momento non è previsto da nessuna norma. Ciò non toglie che qualcosa sia necessario fare: la nostra volontà è quella di cercare di migliorare ulteriormente, ma non è impresa facile, a causa dei numerosi diritti acquisiti». Favorire chi sta in collina scatenerebbe le ire di chi ha i campi in pianura e avvantaggiare la zona classica a dispetto di quella allargata comporterebbe musi lunghi nella maggioranza dei produttori. «Un possibile spiraglio risolutivo – ha così concluso Marchesini – lo offrirebbe l’ipotesi della piramide qualitativa, così come accaduto al di là dei nostri confini. Si potrebbe pensare ad amaroni diversi e riconoscibili per cru o cernite speciali, in modo da garantire per norma una diversificazione in un mondo che oggi punta per forza di cose a smussare tutti gli angoli».
Ma non sarà semplice, dato che l’approdo ai 12 milioni di bottiglie prodotte ha permesso di distribuire una ricchezza inimmaginabile fino a una decina di anni fa, tanto che il reddito per ettaro dei viticoltori valpolicellesi si aggira intorno ai 18mila euro. E comunque fino al 2016 non sarà possibile mettere becco, visto che la denominazione è stata bloccata fino a quella data. «L’importante – ha aggiunto il presidente del Consorzio – è lavorare per difendere il prodotto e non i privilegi».
Ok, il prezzo è ingiusto
E la difesa del prodotto passa anche attraverso la complessa questione dei prezzi di vendita. Non si è ancora sopita la polemica che ha investito una delle più rinomate aziende della Valpolicella, ovvero Masi, nella quale il suo amministratore Sandro Boscaini si è sentito accusare di avere svenduto alcune bottiglie nel duty free di un aeroporto norvegese: un Costasera del 2007 esposto per un equivalente di 22 euro, roba che neanche al discount sotto casa. Pronta la replica di Masi, che ha spiegato i motivi per cui si è resa possibile l’operazione. Ciò non toglie che il problema prezzo sia di vitale importanza per la credibilità del sistema Amarone. E lo conferma lo stesso presidente Marchesini, pur ammettendo di avere le mani legate: «Da questo punto di vista non posso proprio dire nulla, sia perché sono di formazione liberale e ritengo che ognuno debba fare i propri interessi sia perché ci possono essere motivi diversi che spingono un produttore ad abbassare i prezzi: se c’è un nuovo attore sul mercato, quale può essere il grimaldello giusto per poterlo aggredire nel modo più adeguato se non quello del prezzo, tenendo ferma ovviamente la qualità. Io stesso, non più tardi di qualche giorno fa, ho assaggiato un bicchiere di Amarone davvero ottimo, venduto a 12 euro la bottiglia. Non so come abbia fatto il produttore e quali siano le sue strategie, ma gli ho fatto i complimenti per il vino. Noi come consorzio dobbiamo vigilare sulla qualità del prodotto: se scopriamo sugli scaffali bottiglie in vendita a prezzi contenuti, facciamo controlli supplementari, ma tutto finisce qui. È chiaro che l’Amarone necessita di prezzi ad un certo livello per mantenere inalterato tutto il suo valore, tuttavia strumenti oggettivi non ce ne sono. Un’idea potrebbe essere quella di fare come in Champagne, dove i produttori, verificati uve, sfuso e bottiglia, si confrontano sui livelli minimi e su quelli massimi per evitare che qualcuno, con offerte speciali, possa provocare danni a tutto l’ambiente. Certo, vedere amaroni a 10 euro sugli scaffali dei peggiori supermercati non fa certo bene». Tuttavia lo smisurato aumento di bottiglie in circolazione ha finito per mettere anche i produttori di Amarone nelle mani della grande distribuzione. Che ha le sue leggi e che, del prestigio dei prodotti, si interessa fino a un certo punto. È per questo che, alla fine, si torna sempre al solito, inquietante interrogativo: ma il recente incremento di produzione avrà poi fatto davvero bene alla Valpolicella e al suo sistema?