
Regione nota forse più per i vitigni internazionali, il Trentino-Alto Adige riserva in realtà tante sorprese da un punto di vista ampelografico. Svariate le cultivar mal interpretate un tempo, poi quasi estinte, infine rilanciate da una piccola masnada di produttori un po’ “folli”, ma certamente lungimiranti.
Vitigni eterogenei, qui descritti senza pretesa di esaustività, tra i quali la curiosa Peverella trentina e il rarissimo Weiss Terlaner del compianto Sebastian Stocker.
Trentino
Il Casetta non è un Lambrusco!
Il Casetta (o Foja Tonda) è un’uva autoctona della Vallagarina, coltivata un tempo a Dolcè, Ala e Avio. Abbandonata a favore di varietà più produttive, questo vitigno si sarebbe estinto se Albino Armani – vitivinicoltore di Dolcè – non l’avesse riscoperto e valorizzato.
Dal 2002 è stato reinserito tra le varietà autorizzate e dal 2007 è stata tra le cultivar rivendicabili nella Doc Valdadige Terradeiforti. Spesso erroneamente associato a un altro autoctono locale, l’Enantio (o Lambrusco a Foglia Frastagliata), pare indubbio che il Casetta abbia caratteristiche tali da poterlo escludere dalla famiglia dei Lambrusco, presentando semmai tratti avvicinabili alle varietà bordolesi. Correlazione, quest’ultima, anch’essa poi confutata dall’Istituto Agrario di San Michele all’Adige.
Armani ottiene il suo Valdadige Terredeiforti Doc Casetta da antichi vigneti della Vallagarina, posti su suoli morenico-alluvionali, ricchi di scheletro, allevati a pergola trentina e a Guyot. Fondamentali sono la potatura invernale e gli interventi sulla vegetazione per il controllo dell’apparato fogliare.
Dopo la vendemmia di fine settembre e una classica vinificazione in rosso, il vino affina per 24 mesi in botti grandi. Dalle note di prugna secca e marasca, cannella e tabacco, si caratterizza per i suoi spiccati ricordi selvatici di muschio. Al sorso la naturale spiccata acidità è ammorbidita grazie alla malolattica; dopo alcuni anni di invecchiamento offre affascinanti e più complessi ricordi terziari.
Enantio, vitigno emblema della Terra dei Forti
L’Enantio, nome che esprime l’aerale della Terra dei Forti, tra Monte Baldo e Lessinia, in bassa Vallagarina, è l’antico Lambrusco a Foglia Frastagliata che, pur appartenendo alla famiglia dei Lambrusco, ha proprie peculiarità genetiche. Racconta Lorenzo Bongiovanni, viticoltore di Sabbionara d’Avio: “La vigna che coltivo a Enantio – vitigno rustico e longevo derivante dalla Vitis Silvestris – è per me un pezzo di storia: nel 1908 il mio bisnonno acquistò 4 ha di vigneto coltivato a Lambrusco a Foglia Frastagliata su terreni sabbiosi inadatti alla fillossera e perciò con vigne franche di piede. Il vigneto attuale si estense su di un ettaro, con viti vecchie di 70-80 anni, oltre a una parcella in affitto con ceppi ultracentenari”. Molto coltivato fino agli anni ‘70, ma svilito per il suo impiego nel blend del Casteller, è stato poi sostituito con cultivar più remunerative, finendo per essere coltivato su una superficie di soli 30 ettari. Prosegue Bongiovanni:
“Ho ripristinato le vecchie pergole con sesti d’impianto larghi sulla fila, reimpiantando le vigne mancanti con il metodo della propaggine, così da avere solo piante originali.
Ha una buona resistenza a peronospora e oidio, che controllo con zolfo e rame; in annate con fioriture ottimali le vigne hanno adeguata produttività e, a differenza di quelle innestate, il grappolo è più alato e spargolo, con acini più piccoli, quindi più qualitativi”. Una parte delle uve a base del Valdadige Terradeiforti Doc Enantio di Bongiovanni appassisce in fruttaio per 2 mesi, la restante frazione la si vendemmia tardivamente dopo la metà di ottobre. Dopo la vinificazione separata, si assembla il tutto per un affinamento di 12 mesi in tonneau e 10 mesi in vetro.
Da giovane il vino è rosso rubino intenso, dai delicati profumi di frutti di bosco, dalla beva speziata ricca di morbidi tannini resi vellutati dalla quasi indispensabile maturazione in legno.
Groppello di Revò, perla enoica della Val di Non
Il Groppello di Revò, progenitore dei Groppello bresciani, dimora sulle colline dell’omonima cittadina trentina della Val di Non. Oggi è coltivato da un piccolo gruppo di vignaioli, capitanati da Augusto Zadra “el Zeremia”; viticoltori che hanno vitato ceppi selezionati di questa cultivar sulle sponde del Lago di Cles, a Romallo e a Cagnò. Il vino che ne scaturisce è rustico ma interessante; i moderni protocolli enologici lo hanno reso più rotondo, ma senza snaturarne l’austero rigore, la sua “vinosità”, la solida struttura e una deliziosa nota di grafite. Considerato un vitigno custode della “memoria enoica” della viticoltura trentina, e specificamente della Val di Non, Lorenzo Zadra, figlio di “el Zeremia”, nella sua cantina di Revò lo declina in due distinte versioni: una giocata sulla freschezza e l’altra sull’evoluzione. La prima, il Vigneti delle Dolomiti Igt Groppello di Revò, ha un marcato profumo di frutti di bosco ed erbe selvatiche, dalla beva decisa, tannica e persistente; caratterizzato da piccanti note di pepe per via della presenza del rotundone. Lo si ottiene da vigne esposte a sud, a 700 m slm, sulle sponde del Lago di Santa Giustina, su suoli di dolomia, calcareo-sabbiosi, con una resa di 40-50 quintali di uva/ha; vinifica in acciaio con due settimane di macerazione. La seconda, El Zeremia, proviene dal medesimo terroir, ma da ceppi esposti a sud-est, a piede franco, vecchi di 120 anni, con un resa di 30-40 quintali di uva/ha; dopo la vinificazione, segue un adeguato affinamento in barrique, per un vino dalla texture tannica incisiva, capace di supportarne una lunga evoluzione.
Lagarino, resistente al freddo eccelle come spumante
Varietà tipicamente trentina, grazie alla sua grande resistenza ai climi rigidi e quindi a zone viticole marginali anche oltre i 1.000 m slm, in passato ha goduto di grande successo, con produzioni dedite soprattutto all’autoconsumo. Suo vero territorio d’elezione è la Val di Cembra, verso la Valle di Fiemme e le Dolomiti di Fassa. Dotato di un grosso grappolo e da acini voluminosi di colore verde-giallo, il Lagarino ha un ciclo vegetativo molto anticipato, una grande produttività e un’alta resa di uva in mosto; il tutto, per un vino fragrante, acidulo e spigoloso, dissetante, per certi versi d’altri tempi, quando si beveva prima di tutto per alimentarsi.
Oggi, uno dei principali interpreti del Lagarino è Alfio Nicolodi di Cembra, che ormai diversi anni fa, dopo innumerevoli sperimentazioni, intuendone il potenziale in termini di acidità, contenuto calore alcolico, gradevoli note agrumate, ebbe l’intuizione di utilizzarlo come base spumante per la produzione del suo metodo classico Brut Cimbrus.
“La vendemmia ha luogo a fine settembre, a cui segue – spiega Nicolodi – una fermentazione alcolica spontanea a 16-18 °C;
il vino-base matura così sino al giugno successivo per poi passare alla presa di spuma. Le bottiglie, coricate in cantine sotterranee a temperatura e umidità costanti, dopo una lenta, semestrale rifermentazione, sostano in catasta per 5-6 anni sui propri lieviti. Conclusa anche questa fase, si opera la sboccatura, dopo la quale le bollicine restano in cantina per altri 6 mesi di maturazione, prima della commercializzazione.
Nosiola, trentina fino al midollo
Di etimo incerto, forse dovuto ai suoi intensi profumi di nocciola tostata, la Nosiola – che dà il meglio di sé nella Valle dei Laghi – è presente in regione sin dai tempi del Concilio di Trento. La si impiega per ottenere bianchi secchi semiaromatici, ma anche per il Vino Santo Trentino. Noti interpreti di questa cultivar sono Marco Donati di Mezzocorona ed Elisabetta Foradori di Mezzolombardo. “Parlando di Nosiola – racconta Donati – le nostre vigne ultra ventenni si trovano nella Valle dei Laghi, a 450 m slm, ben soleggiate, esposte a sud-ovest e allevate a Guyot. Il clima risente dell’influenza del vicino Benaco e della sua ‘Ora’, di grande aiuto per la sanità delle uve e per la loro maturazione, che si completa a metà settembre; la mineralità dei suoli completa il quadro, a beneficio di un vino, il nostro Sole Alto, dai complessi sentori fruttati e dal gusto sapido, minerale, con finale nocciolato. Un nettare gradevole e versatile, bevibile da giovane, ma atto a buon invecchiamento”. “La Nosiola è l’unica varietà a bacca bianca esclusivamente trentina”, sottolinea Elisabetta Foradori. “Assai diffusa fino al 1950, oggi sono rimasti meno di 50 ha. Dalla bassa resa alcolica, è sensibile al marciume. Abbiamo riscoperto questa varietà degustando una vecchia Nosiola macerata degli anni ‘70. Grazie al progetto avviato nel 2007 a Fontanasanta sopra Trento, ereditata una vecchia pergola oggi gestita in regime biodinamico, vista la delicatezza e la scarsa aromaticità di questa varietà abbiamo deciso di vinificarla con le bucce.
La tinaja – anfora spagnola d’argilla – è il contenitore ideale, consentendo una micro ossigenazione senza apporto di aromi. Gli 8 mesi di macerazione consentono di mostrare le grandi potenzialità di questa varietà: nella buccia risiede l’identità del frutto, quindi parte essenziale di ogni fermentazione”.
Così nasce l’iconica Nosiola Fontanasanta.
La Peverella, “piccante” e acida, eccelle quando è spumantizzata
Per secoli è stata considerata “uva di confine” tra il fondovalle dell’Adige e le colline di Salorno, Faedo e della Valle di Cembra.
Intorno all’origine del nome due sono le ipotesi: la prima vuole il termine derivare dalla pungenza data dalla sua acidità, che ricorda il pepe (pevero in dialetto); l’altra sostiene il suo etimo essere legato a “vino della pieve”, per l’antica consuetudine di coltivarla nei poderi attigui alle chiesette alpine.
Dimorante su ripidi e impervi terreni terrazzati per sfruttare al meglio l’irradiazione solare, ha grappolo tozzo e tondeggiante, con acini medio-piccoli dalla spessa buccia di colore verdognolo e raramente giallo anche a piena maturazione; si caratterizza per un ciclo vegetativo assai precoce, che conduce a una vendemmia tra fine agosto e inizio settembre.
Da un punto di vista organolettico il vino che ne deriva risulta particolarmente acidulo, con una certa persistenza aromatica e una singolare vena gustativa giocata sulla coesistenza di sensazioni rotonde, sapide e fresche. Così Alessandro Poli, viticoltore di Santa Massenza di Vezzano (Trento) e paladino della Peverella: “La declino solo nella versione frizzante (metodo Martinotti), perché si presta molto bene a questo tipo di risultato, grazie alla sua abbondante freschezza acida e a una certa carica aromatica; è, la mia, l’unica bollicina – che si chiama Vigneti delle Dolomiti Igt Frizzante Massenza Belle – nata con la ferma convinzione di partire da una storica uva trentina”. Aggiunge Poli: “La coltivo sulle colline sopra il Lago di Santa Massenza, sugli stessi terreni dove lavoro anche la Nosiola: suoli di marna grigia e rossa, calcarei, magri e ricchi di scheletro. Più sensibile alla peronospora che all’oidio, le vigne sono in regime di agricoltura biologica; inoltre, impiegando preparati biodinamici riesco a minimizzare il ricorso a rame e zolfo, beneficiando di un terroir particolarmente vocato alla viticoltura”.
Dalla Rossara originali vini d’antan
La Rossara, già citata in documenti dell’800, era presente in tutto il Trentino, specie nel Campo Rotaliano; foriera di un vino semplice e beverino, impiegato come fonte di alimentazione. Alla stregua di altre cultivar autoctone è stata poi dimenticata per essere riscoperta solo di recente.
“Incuriositi da una ricerca condotta nel 2000 – così Roberto Zeni dell’omonima cantina di San Michele all’Adige – dove si sono identificati oltre 40 vitigni autoctoni trentini tra cui la Rossara, abbiamo avuto l’impulso di rilanciarla, ragionando su come reinterpretarla in vigna e in cantina.
Conosciuto un contadino proprietario di una parcella abbandonata del vitigno in questione (un vigneto dai sesti d’impianto ampi, ma con ceppi vecchi di 70-80 anni) nel 2003 portammo in cantina
10 q. di Rossara vinificandola come un Teroldego di pronta beva: ne nacque un vino delicato, rubino scarico, dagli insoliti sentori speziati.
Affinati i protocolli vitienologici con l’aggiunta di un breve passaggio in legno e messo a punto un vino equilibrato, fummo costretti a restituire la vigna affittata dall’anziano viticoltore”.
Gli Zeni optano allora per una selezione massale del vigneto di origine, recuperando 36 diversi soggetti da viti quasi centenarie e impiantandoli nella propria tenuta.
“Oggi abbiamo una vigna di 0,7 ha di Rossara, allevata a Guyot su suoli ghiaioso-alluvionali, da cui otteniamo 5.000 bottiglie del nostro Vigneti delle Dolomiti Igt Rossara Legiare; vino di pronta beva, con profumi fruttati e selvatici un po’ d’altri tempi, dal sorso delicato, gradevole e ‘nervoso’ al tempo stesso”.
Alto Adige
Moscato Rosa un altoatesino emigrato dalla Trinacria
Il Moscato Rosa è giunto in Alto Adige dalla Sicilia 125 anni fa. Tutti gli impianti sudtirolesi oggi in produzione non derivano da cloni, ma da selezioni massali effettuate partendo dai vigneti più antichi.
Poco fertile, scarsamente produttivo: 15-35 hl/ha, se il clima durante la fioritura non è ideale tende ad avere una bassa percentuale di allegagione, per rese vendemmiali disomogenee; lo spargolo grappolo presenta inoltre alcuni acini più piccoli privi di semi. La sua buccia molto sottile comporta il rischio di ristagni di umidità e quindi di marciume, ma si rivela utile per l’appassimento, in pianta o in fruttaio, con una presenza iniziale di zuccheri già elevata.
“Il Moscato Rosa – specifica Martin Lemayr, enologo di Colterenzio – si presta a due interpretazioni: vendemmia tardiva o passito. Nel primo caso si fa una raccolta posticipata e si opera un breve appassimento in cantina, per un vino fruttato, elegante, non dolcissimo.
Nel secondo le bacche subiscono un lungo processo di disidratazione, per un nettare che risulterà rosso rubino, dagli intensi aromi di rosa, lamponi, chiodi di garofano, cannella e scorza d’arancia, con palato grasso e persistente.
Per entrambe le versioni l’importante è non estrarre tannini troppo astringenti”.
Quale approccio avete adottato per il vostro Alto Adige Doc Moscato Rosa Rosatum? “Parte delle uve le raccogliamo tardivamente e le vinifichiamo in acciaio con macerazione; parte le vendemmiamo a maturazione e le facciamo appassire in locali ventilati sino al livello di disidratazione desiderato.
Concluse le rispettive fermentazioni, assembliamo i due vini affinandoli quindi in acciaio per 2 mesi”.
Versoaln, figlio di un’unica e antichissima vite
I Giardini di Castel Trauttmansdorff di Merano – racconta la responsabile marketing Heike Platter – nel 2006 hanno assunto la paternità di un monumento naturale unico: la vite più grande e antica del mondo, che cresce presso Castel Katzenzungen a Prissiano.
Una pianta esposta a nord, il cui fogliame copre una superficie di 300 m², prosperante ai piedi del Castello a 600 m slm, su un terreno porfidico eroso, povero di risorse, a ridosso di un muro presso Castel Katzenzungen, dove, nel corso dei secoli, è stato accumulato del materiale che ha poi coperto la pianta, le cui radici e prime ramificazioni si trovano oggi sotto uno strato di terra. Il Centro di Sperimentazione Laimburg ha commissionato nel 2004 un’analisi scientifica dove si è stimata in circa 350 anni l’età di questa eccezionale vite.
Ciò che rende ancora più interessante questo ceppo è il fatto che è ancora produttivo, generando un vitigno ormai scomparso altrove: il Versoaln.
Tale nome potrebbe derivare dalle originarie posizione ove era coltivato: ripide pendici sulle quali era necessario legare e trasportare il raccolto per mezzo di funi. I grappoli di questo rarissimo vitigno sono piccoli, dagli acini quasi trasparenti di medie dimensioni. I raccolti sono buoni e regolari, con un grado zuccherino che oscilla fra il 16 e il 18%, e un’acidità marcata. Il vino ha colore verdolino, fruttato al naso, di delicato corpo ma di forte personalità.
Weiss Terlaner perla enoica alla base dei primi bianchi di Terlano
Si tratta di una cultivar a bacca bianca coltivata da secoli nella piana di Terlano, tra Bolzano e Merano. Il suo nome è dovuto allo stretto legame con il celebre comune viticolo altoatesino, Bianca di Terlano o Weiss Terlaner, appunto. Secondo alcuni ampelografi si tratta di una varietà importata da aerali viticoli più meridionali, forse dal Veneto: non a caso pare avere delle affinità con la veronese Garganega. Storicamente non era quasi mai vinificata in purezza, ma impiegata con altre varietà autoctone per produrre vino da autoconsumo, dalle caratteristiche beverine, rinfrescanti, quasi dissetanti. Negli anni è andata via via sparendo, perché ha la caratteristica di non essere ermafrodita e ha bisogno di un maschio che fecondi le femmine e faccia crescere chicchi d’uva di dimensioni corrette: proprio per la difficoltà di coltivare un vitigno così, ormai da molti anni quello che era l’originale Terlaner è diventato essenzialmente il frutto di un blend di Pinot Bianco e Chardonnay. Ma il compianto Sebastian Stocker, guru della vitivinicoltura altoatesina, lasciata nel 1993 la Cantina Terlano dopo averla resa famosa nel mondo per i suoi longevissimi bianchi e avviata una propria attività enoica soprattutto incentrata sul mondo delle bollicine metodo classico, ha deciso di impegnarsi – andando come suo costume controcorrente – nel recupero dell’autentico Weiss Terlaner, avviando una micro produzione del medesimo (500 bottiglie, vendute direttamente in cantina), chiamandolo Terlanerin, vino – che fermenta spontaneamente senza lieviti selezionati – al quale Sebastian era particolarmente affezionato, ritenendolo addirittura terapeutico. Oggi le poche vigne sopravvissute, allevate a pergola trentina, trattate solo con rame e zolfo, sono praticamente solo della cantina di Stocker – oggi gestita dal figlio Sigmar – e di un altro paio di viticoltori che gli conferiscono le preziose bacche.