Nino Barraco a 30 anni ha scoperto cosa vuol dire essere felici. Ci è arrivato un poco alla volta, partendo da molto lontano. A diciotto anni voleva cambiare il mondo. Scardinare la società e aiutare i lavoratori a sentirsi consapevoli portatori di diritti. Suo padre era mezzadro e aveva ben presente la sperequazione delle forze in campo, proprietari terrieri e coloni, eccessi e bisogni. Sarebbe bastata una bella carta come una laurea in scienze politiche a sparigliare la partita? La capacità di comprendere le necessità di un contesto sociale contadino così diverso dal resto d’Italia, era una buona mossa. Un idealista? Forse. Ora doveva solo trovare il modo giusto per fare qualcosa di utile. Gli studi sociali e la fotografia gli hanno indicato la soluzione. Lui girava la città con la reflex al collo, e fra una appello e l’altro coglieva attimi, angoli, pezzi di immagini. Si avventurava nella esplorazione della macrofotografia, spingendo l’obbiettivo su forme apparentemente incomprensibili. E’ stata la casualità appunto, a regalargli la prima grande lezione : “La perfezione non va costruita a tutti i costi. E’ lì sotto gli occhi, nascosta nel quotidiano, nei tempi e nelle cose”, spiega “La natura sa cosa fare, basta assecondarla per comprenderne l’essenza”. A dirla così sembra un principio zen, l’estratto di chissà quale religione orientale. E invece sotto c’è la semplice constatazione che a volere essere perfetti a tutti i costi si finisce per perdere di vista l’idea di diversità. “Quando, appena laureato, mi sono messo in testa di svoltare sulla produzione di un vino tutto mio, ho pensato che era giunta l’ora di mettere sul banco di prova questi ragionamenti ”, dice. “Non volevo fare un vino perfetto. E’ più importante la personalità, magari forte e anche con note dissonanti”. Lui sapeva che prima o poi sarebbe tornato al vino. Era scritto che la sua rivoluzione si sarebbe compiuta fra grappoli di grillo e di nero d’Avola. Chi è cresciuto fra le vigne di Marsala sa che non è facile liberarsi dalla malia della terra. Quel buon odore di mosto che rimane appiccicato alle narici per sempre. E il vino che va rispettato perché appartiene alla storia della famiglia da chissà quante generazioni . Così non è sfuggito al destino nemmeno Nino Barraco. Il fato sì, ma con qualche aggiustamento però. Con un piccolissimo investimento quattro anni fa ha comprato una deraspatrice, una pompa neoprene, due fermentini, un torchio verticale ad olio, quattro silos per la fermentazione e l’affinamento. Ha chiesto in prestito una stanza in una cantina vicino casa e dopo dodici mesi è nato il suo primo vino, uno strepitoso Grillo 2004. Verrebbe voglia di definirlo un parto naturale. Uve raccolte a mano, pressate con torchio idraulico, fermentazione con lieviti presenti sulle bucce a temperatura non controllata, malolattica svolta spontaneamente fra ottobre e novembre, affinamento in acciaio e in bottiglia. Bandite chiarifiche e microfiltrazioni. Una ricetta antica, capace di suscitare emozioni dimenticate nel gusto e negli odori. Un patrimonio genetico strettamente legato a questa terra, ai vigneti della sua famiglia, una decina di ettari sparsi fra Marsala e le dune sabbiose di Triscina, sotto i templi di Selinunte. A fare compagnia al Grillo, sono arrivati altre tre vini tradizionali di queste borgate, il catarratto, lo zibibbo e il nero d’avola. In tutto sono dodicimila bottiglie, una risorsa da cui attingono già le stelle della gastronomia siciliana, da Ciccio Sultano del Duomo di Ragusa a Pino Cuttaia della Madia di Licata. Una piccola realtà imprenditoriale, che solo da pochi mesi è in distribuzione sull’intero territorio nazionale. Nino Barraco si è tenuta per sé la Sicilia. Per non rinunciare alla soddisfazione di presentare in giro per l’isola il vino che ama. “La verità è che mi piacerebbe regalarlo o barattarlo con vestiti, scarpe, libri. A fine anno mi resta appena qualcosa per tirare avanti fino alla prossima vendemmia. Io questo mestiere non lo faccio per diventare ricco. Ma per vivere felice”.
Nino Barraco a 30 anni ha scoperto cosa vuol dire essere felici. Ci è arrivato un poco alla volta, partendo da molto lontano. A diciotto anni voleva cambiare il mondo. Scardinare la società e aiutare i lavoratori a sentirsi consapevoli portatori di diritti. Suo padre era mezzadro e aveva ben presente la sperequazione delle forze in campo, proprietari terrieri e coloni, eccessi e bisogni. Sarebbe bastata una bella carta come una laurea in scienze politiche a sparigliare la partita? La capacità di comprendere le necessità di un contesto sociale contadino così diverso dal resto d’Italia, era una buona mossa. Un idealista? Forse. Ora doveva solo trovare il modo giusto per fare qualcosa di utile. Gli studi sociali e la fotografia gli hanno indicato la soluzione. Lui girava la città con la reflex al collo, e fra una appello e l’altro coglieva attimi, angoli, pezzi di immagini. Si avventurava nella esplorazione della macrofotografia, spingendo l’obbiettivo su forme apparentemente incomprensibili. E’ stata la casualità appunto, a regalargli la prima grande lezione : “La perfezione non va costruita a tutti i costi. E’ lì sotto gli occhi, nascosta nel quotidiano, nei tempi e nelle cose”, spiega “La natura sa cosa fare, basta assecondarla per comprenderne l’essenza”. A dirla così sembra un principio zen, l’estratto di chissà quale religione orientale. E invece sotto c’è la semplice constatazione che a volere essere perfetti a tutti i costi si finisce per perdere di vista l’idea di diversità. “Quando, appena laureato, mi sono messo in testa di svoltare sulla produzione di un vino tutto mio, ho pensato che era giunta l’ora di mettere sul banco di prova questi ragionamenti ”, dice. “Non volevo fare un vino perfetto. E’ più importante la personalità, magari forte e anche con note dissonanti”. Lui sapeva che prima o poi sarebbe tornato al vino. Era scritto che la sua rivoluzione si sarebbe compiuta fra grappoli di grillo e di nero d’Avola. Chi è cresciuto fra le vigne di Marsala sa che non è facile liberarsi dalla malia della terra. Quel buon odore di mosto che rimane appiccicato alle narici per sempre. E il vino che va rispettato perché appartiene alla storia della famiglia da chissà quante generazioni . Così non è sfuggito al destino nemmeno Nino Barraco. Il fato sì, ma con qualche aggiustamento però. Con un piccolissimo investimento quattro anni fa ha comprato una deraspatrice, una pompa neoprene, due fermentini, un torchio verticale ad olio, quattro silos per la fermentazione e l’affinamento. Ha chiesto in prestito una stanza in una cantina vicino casa e dopo dodici mesi è nato il suo primo vino, uno strepitoso Grillo 2004. Verrebbe voglia di definirlo un parto naturale. Uve raccolte a mano, pressate con torchio idraulico, fermentazione con lieviti presenti sulle bucce a temperatura non controllata, malolattica svolta spontaneamente fra ottobre e novembre, affinamento in acciaio e in bottiglia. Bandite chiarifiche e microfiltrazioni. Una ricetta antica, capace di suscitare emozioni dimenticate nel gusto e negli odori. Un patrimonio genetico strettamente legato a questa terra, ai vigneti della sua famiglia, una decina di ettari sparsi fra Marsala e le dune sabbiose di Triscina, sotto i templi di Selinunte. A fare compagnia al Grillo, sono arrivati altre tre vini tradizionali di queste borgate, il catarratto, lo zibibbo e il nero d’avola. In tutto sono dodicimila bottiglie, una risorsa da cui attingono già le stelle della gastronomia siciliana, da Ciccio Sultano del Duomo di Ragusa a Pino Cuttaia della Madia di Licata. Una piccola realtà imprenditoriale, che solo da pochi mesi è in distribuzione sull’intero territorio nazionale. Nino Barraco si è tenuta per sé la Sicilia. Per non rinunciare alla soddisfazione di presentare in giro per l’isola il vino che ama. “La verità è che mi piacerebbe regalarlo o barattarlo con vestiti, scarpe, libri. A fine anno mi resta appena qualcosa per tirare avanti fino alla prossima vendemmia. Io questo mestiere non lo faccio per diventare ricco. Ma per vivere felice”.
Si sono rivelati utili gli studi sociologici per la tua idea di impresa?
Sono stati fondamentali. Ho capito che si può dare un contributo al mondo e alle persone che ci vivono anche con un vino. Si possono trasmettere emozioni, sensazioni, pezzi di storia. Mettere insieme persone, ragionamenti. Io ho fatto un vino per me stesso e per gli amici che lo vogliono bere. Ho proposto un esempio di valorizzazione della nostra terra attraverso una espressione artistica. Non è importante come si realizza il vino, ma il concetto che uno ha del vino che vuole fare. Conta l’interpretazione, l’aspetto antropologico del prodotto, l’entusiasmo. La memoria. Io sono nato in mezzo ai vigneti. I miei ricordi sono i cesti in cui si raccoglie l’uva, il caldo fino ad ottobre, l’odore del mosto e quello delle botti dove fermenta, mio nonno che si faceva il vino a casa. Cerco queste nostalgie nelle mie bottiglie.
L’intervista
Ti ha aiutato anche la fotografia…
Mi ha spalancato gli occhi su un mondo diverso. Sono entrato con l’obiettivo dentro la materia.
Chi guardava le mie foto non riconosceva mai l’oggetto di partenza, io mi divertivo a spostare i particolari, ad allargare il fuoco. Siamo abituati a vedere gli oggetti sempre allo stesso modo. Diventano più interessanti se si guardano da un lato diverso, con un taglio di luce differente. Nel vino cerco di portare avanti lo stesso ragionamento.
Quali sono i principi che ispirano la tua produzione?
Sentimenti, emozioni, personalità, carattere. Una diversità non cercata. Io faccio solo vini naturali in cui ognuno ritrova la propria terra. Vini fuori dalle righe, semplici e onesti. Le fermentazioni libere svelano strade sconosciute che possono mettere in discussione i canoni dell’enologia classica, l’uso del freddo, le chiarifiche, le microfiltrazioni, i legni. Io interpreto le uve in maniera diversa dagli enologi che guardano al risultato finale percorrendo strade consuete. Io non so se i miei vini sono migliori o peggiori, sono sicuro però che sono differenti. Sono caldi, minerali, hanno grandi legami con Marsala, e col passare del tempo diventano più interessanti. Gli enologi dicono che con caratteristiche come quelle che io adopero è quasi impossibile ottenere longevità . Eppure la natura certe volte regala equilibri che sono sotto i nostri occhi e che non sappiamo cogliere. Rispettandola io sono riuscito a fare questo miracolo. Il mio Grillo 2004 è ancora oggi un vino straordinario. Gli equilibri che non conosciamo sono più di quelli conosciuti.
E’ difficile cominciare a fare questo mestiere in Sicilia?
La società siciliana deve crescere, dobbiamo confrontarci meglio con il nostro futuro. C’è troppa burocrazia, difficoltà ad ottenere aiuti dalle banche, finanziamenti non sempre oculati da parte della comunità europea. Si dovrebbe fare una selezione migliore fra i beneficiari dei contributi. Le banche farebbero meglio a valorizzare solo i progetti buoni per l’economia e per la gente.
Cosa ci vuole per essere più competitivi?
Bisogna comunicare la passione, essere presenti nei posti in cui credono nel prodotto.
Io, quando vado a vendere il mio vino, non mi occupo solo della fattura.
Voglio capire se il mio compratore condivide la mia mission e soprattutto se è in grado di spiegare agli altri il lavoro che c’è dietro le mie bottiglie. Se io lo affido nella mani di un ristoratore inesperto rischio di rovinare tutto.
Non ti fa paura inserirti con queste 12 mila bottiglie in un mercato così grande?
Io sono così piccolo che non mi può schiacciare nessuno. Io faccio il vino per chi capisce il mio vino.
Per gli appassionati estremi, per chi vuole conoscere il territorio di Marsala con una esperienza sensoriale e territoriale differente dal solito.
Quale è il tuo vino del cuore?
Il Grillo è la storia della nostra terra. Racconta questo luogo meglio di qualsiasi guida turistica. Era un vino perduto. Per recuperarlo ho speso energie e cultura, e alla fine con qualche aggiustamento è tornato ad essere quello di 50 anni fa. Odori antichi che molti stentavano a riconoscere in un bianco: l’uva passa, la mandorla amara, il limone. In degustazione è poco interessante per un assaggio veloce. Ci vuole qualche minuto per comprendere quello che vuole comunicare.
Ti piace l’immagine che il vino siciliano oggi comunica al mondo?
I numeri ci sono, le grandi cantine propongono una bella immagine, terra solare e di accoglienza. Ma non è quello che voglio fare io. Loro hanno i capitali. Io devo fare l’artigiano. Devo imbastire il vino come fa il sarto con l’ago e il filo.
Quali sono le prossima sfide?
Realizzare una mia cantina e toccare fra qualche anno il traguardo di 50 mila bottiglie. Voglio mantenere una struttura minima per continuare a divertirmi con produzioni ancora più piccole. L’obiettivo non è di crescere ma di aumentare la qualità, la ricercatezza dei prodotti e la singolarità della interpretazione. L’unica cosa che conta davvero è la diversità.