Non sorride quasi mai, Luca Abbruzzino, tanto è serio e riflessivo, perennemente concentrato sulla sua cucina, esatta come un diagramma colorato. Ad appena 28 anni, viene già annoverato fra le promesse della cucina italiana ed è probabilmente lo chef numero uno della sua regione, la Calabria. Una terra aspra non solo nell’orografia e nel profilo delle coste. Qui l’alta cucina si è accomodata da poco, dopo una lunga sosta a Eboli, con l’eccezione dell’avamposto solitario della Locanda di Alia a Castrovillari. Con la Campania e la Sicilia corre ben più di uno stretto e qualche infrastruttura lacunosa: un ritardo che oggi potrebbe paradossalmente giovare. “La cucina calabrese non esiste”, taglia corto Abbruzzino. “Basti pensare che per le feste mangiamo lasagne e pasta al forno, quindi piatti non nostri; abbiamo qualche ricetta, molto povera perché qui erano tutti contadini, e alcune specialità in pasticceria. Invece vantiamo una materia prima infinita, di qualsiasi tipo: pesce, carne, ortaggi, casearia e insaccati. E la mancanza di una tradizione forte può rappresentare un atout, nel senso che aiuta a sguinzagliare la fantasia, nel tentativo di valorizzarla al meglio”.
Tanta libertà è anche il frutto di una formazione atipica: figlio d’arte di papà Antonio, cuoco formatosi a sua volta all’alberghiero e poi per conto proprio, Luca frequentava il liceo scientifico quando a 17 anni ha iniziato ad affiancarlo in sala nel suo primo ristorante da patron. “All’epoca si trattava di un posto normalissimo, che serviva piatti tipici con prodotti di qualità. Penso agli spaghetti al guazzetto di mare, alla spatola panata al forno, alla padellata di totanetti coi legumi. Poi è successo che un giorno, dopo che mi ero iscritto a Economia e commercio, mio padre ha mandato via tutti i dipendenti in uno scatto d’ira e siamo rimasti in tre, io, lui e mia madre Rosetta, che da sempre era il jolly, anche in sala. Sono entrato in cucina e non ne sono più uscito. All’inizio è stata dura, perché volevo spingere senza averne i mezzi; lui mi frenava e non capivo, ma oggi so che aveva ragione. Nel frattempo, anno dopo anno, durante i due mesi di chiusura, ho compiuto le mie esperienze: stages da Gennaro Esposito, Mauro Uliassi, Enrico Crippa, due volte Piergiorgio Parini, Jean-François Piège a Parigi, Michel Bras con Simone Cantafio a Tokyo; e ne ho in programma altri ancora. Crippa è stato quello che mi ha segnato di più, nel senso dell’organizzazione e del gusto; ma sono molto legato anche a Parini per la capacità di trattare con naturalezza qualsiasi cosa arrivi, improvvisando. E ho avuto la fortuna di mettere subito in pratica quello che imparavo. I piatti della svolta sono stati il fusillone con ‘nduja, pecorino e ricci di mare e il dessert di pane, olio e zucchero. Dopo di che nel 2013 è arrivata la stella e nel 2014 mio padre mi ha affidato in toto i fornelli”.
Calabrese nell’ingredientistica, ma senza esclusivismi, quella di Abbruzzino è oggi una giovane cucina mediterranea, o meglio neomediterranea, scrostata dai cliché che l’hanno a lungo mortificata e incline alla complessificazione del gusto che altrove quasi sempre fallisce. Non mancano le contaminazioni, figlie di tante esperienze globali, utili per vivificare il piatto senza per questo strapparne le radici, intrecciate a una liquirizia identitaria. Ma resta tutta meridionale l’immediatezza del prodotto con il suo apporto di profumi, ora balsamici ora agrumati, in cui il territorio sferra emozioni come un pugile sul ring: le composizioni si allargano dalla Magna Grecia, “matria” di Calabria, fino a lambire un petit goût di Medio Oriente, per esempio nelle ricorrenti note dolci e di frutta che contrastano il piatto. Nessuna malattia storica, nessun dettaglio a soqquadro in composizioni cartesiane, dai gusti diretti, puliti e contemporanei. Senza ricorso a tecnicismi, fermentazioni o giapponismi di troppo.
Il menu ha una composizione originale: alla carta non c’è nessun antipasto, ma quattro primi, capisaldi della cucina italiana, due secondi di carne e altrettanti di pesce. Più tre menu degustazione, composti di 4, 6 e 8 portate rispettivamente a 55, 70 e 80 euro, tutti a sorpresa, secondo la stagionalità e il mercato. A fare la spesa ogni due giorni sono Luca, Antonio o Rosetta, da un fruttivendolo nascosto in un sottoscala di Catanzaro, presso due o tre pescherie che acquistano su commissione all’asta o da un paio di macellai di fiducia, a San Giovanni Morgeto o Catanzaro. Il percorso di abbinamento, composto di 4 o 6 calici, costa 25 o 35 euro. E proprio la cantina è un ulteriore vanto del locale: le carte sono due, una delle quali consacrata alla Calabria, regione quanto mai da scoprire, che regala 130 etichette su un totale di circa 400. Ottimi i pani: i taralli al finocchio, i grissini alla cipolla, la focaccia al rosmarino, le pagnottelle bianche e scure al lievito madre. In accompagnamento c’è subito una ciotola di burro della Sila salato alle erbe che sembra quasi francese. Capitolo tecniche, il sottovuoto cede quasi ovunque alle cotture dirette in padella e soprattutto al barbecue, vettore di profumi ancestrali, che intridono il vissuto calabrese grazie al rito del camino.
Gli appetizer sono un flash-back sulla storia del ristorante, a firma di Antonio o di Luca: mettono in sequenza classici quali il riso con cipollotto e liquirizia, la padellata in forma di crema di calamari e legumi alla vaniglia, un boccone di spatola al barbecue con concentrato di agrumi, la tartelletta con spuma di manzo, anemoni di mare e salsa verde.
E i piatti sono a tratti geniali. Vedi l’ostrica con broccolo e pompelmo, svolta in forma binaria: da una parte la crema di ostrica dalla consistenza di maionese, ottenuta frullando le polpe con l’acqua, a nappare il midollo (o gambo) di cavolo al barbecue, più foglie di dragoncello e scorzette leggermente candite di pompelmo; dall’altra l’ostrica al naturale con succo di pompelmo, pompelmo pelato a vivo e insalatina di ciuffi di broccoletti. Le stesse tre note in una melodia diversa: la tensione è sempre fra la sapidità del mollusco e l’amaro del vegetale e dell’agrume, ma la dominante vaga fra la grassezza e l’acidità, cosicché il confronto fra le due versioni finisce per comporre un interessante meta equilibrio. Di piatti composti di originale e remake se ne sono già visti; ma questo parallelo fra due divagazioni rappresenta una nuova intuizione, fresca, netta e contrastata nella geometria di gusti integri e primari. “Per me ha il senso della contaminazione, perché l’ostrica evoca l’alta ristorazione francese, mentre il broccolo e il pompelmo sono emblematici di questa regione”. E di agrumi è ricchissima la cucina di Abbruzzino: fino a febbraio arrivano bergamotti, clementine, arance e limette, che poi continuano a essere presenti nelle uniche conserve della casa, canditi, confit nel sale o in marmellata. Cosicché l’acidità è sferzante in piatti, che invogliano sempre al boccone successivo.
Sono già un classico gli spaghetti al nero di sesamo, che giocano con un must delle trattorie di mare, ripescando un ingrediente tipico della cucina di queste latitudini (e ancora più giù): il sesamo, ma nero. Tostato e frullato con cipolla bianca e aceto, viene ridotto in una crema scura e servito con uva passa alla colatura di alici per l’ittico mancante. Un divertissement in punta di forchetta.
E guarda di nuovo tutt’intorno, alle altre sponde del Mediterraneo, l’aguglia al rosmarino e alloro avvolta in foglie di vite a mo’ di dolmades (ma l’usanza è diffusa anche in Calabria), per l’effetto crosta di sale, cotta direttamente sul barbecue. Secondo il consueto contrasto dolce, ancora una volta rivolto verso sud, è servita con salsa di uva fragola, melagrana, pastinaca sempre al barbecue e mandorle in crema. Dove il tocco di genio sta anche nell’apertura del cartoccio al tavolo che evoca le atmosfere parigine da poco attraversate: uno spiazzante guéridon mediterraneo.
È la stessa contaminazione dell’anatra, adagiata nella casseruola sopra un morbido letto di erbe aromatiche, poi cotta al barbecue per un esito leggermente amaro sulle carni dolci; viene servita con un fondo addensato con il sanguinaccio in conserva e il cioccolato, più un fico secco reidratato, che in Calabria è tradizione glassare al cacao, in modo da ricostruire una sensazione di classicità (le grandi salse montate al sangue e al cioccolato, tipo royale) attraverso il territorio e i precordi.
Chiude pane, olio e zucchero, cavallo di battaglia di Antonio su cui Luca ha montato la sua sella: gli ingredienti sono adesso solo quelli di una merenda d’infanzia, con l’eccezione di un goccio di latte. Quindi non più il gelato alla vaniglia con un filo d’olio e i crostini di pane del signature paterno, in clamoroso anticipo su tanti ripescaggi odierni, ma un caramello salato con gelato al pane, crema all’olio (delicato) con latte e colla di pesce e una cialda di pane, olio e zucchero.
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