Chi è senza Peca, salga in macchina e si diriga a Lonigo. L’indirizzo è quella che i vecchi chiamavano “contrà delle peche”, tagliata com’era da ladri di polli che, dileguandosi, lasciavano impronte (in dialetto “peche”) sulle collinette antecedenti un propizio boschetto. Pierluigi e Nicola Portinari lo scoprirono rispettivamente a 26 e 22 anni, conversando con il memorialista Egidio Mazzari, quando si apprestavano a calcare la creta della cucina italiana. Ed è diventato anche il simbolo del loro locale: l’impronta di una mano, che significa artigianalità, personalità, autografia in cucina.
Correva l’anno 1987, oltre trent’anni orsono. E la passione bruciava. Era scoccata nella gastronomia di famiglia in via Roma, dove il severissimo papà Serafino sfornava anche settanta chili di baccalà a settimana, con l’aiuto di Nicola in cucina e Pierluigi al bancone. Alzava il sopracciglio, Serafino, al pensiero di quell’impresa azzardata, lui che avrebbe appeso il camice solo nel 2001. Eppure non fece mai mancare il suo sostegno, come pure mamma Irma Bortolaso, che collaborò nei primi anni alla preparazione delle basi di cucina. Due anni dopo ecco sopraggiungere Cinzia Boggian, arredatrice di professione, convertita in iconica guida della sala e prima sommelier del ristorante dall’amore per il marito Pierluigi. È lei la terza gamba di un percorso che si è spinto lontano, dove nessuno dei protagonisti si sarebbe mai aspettato.
I due fratelli erano autodidatti totali: niente scuola alberghiera, piuttosto la frequentazione di qualche maison, come il Casin del Gamba, Dal Pescatore o santuari francesi sparsi, e tanti libri; in un secondo tempo, nel caso di Nicola, anche stage da Arzak e altri grandi di Spagna, mentre Pierluigi frequentava i corsi AIS e si specializzava in pasticceria, tuttora suo appannaggio. Cinzia, dal canto suo, ha imparato sul campo, folgorata da Nadia e Antonio del Pescatore e da Daria del Casin del Gamba. Oggi firma anche i centrotavola, che resuscitano a nuova vita materiali di cucina esausti o danneggiati con delizioso sense of humor.
“Per sette anni ho continuato a lavorare come arredatrice, poi l’amore per Gigi e la gastronomia ha prevalso.
Nel 2010, dopo tanti anni di addobbi floreali, ho avuto voglia di sdrammatizzare l’atmosfera formale del fine dining con i miei giochi. L’ironia è la base della vita e la felicità del cliente è anche la mia”. Ma la gastronomia è una malattia di famiglia: oltre alla nonna Maria – che aveva tenuto un’osteria a Lonigo – ci sono due cugini, Francesco Ballico, pasticciere del Chiosco di Lonigo nonché eminenza dei lievitati, e Daniele Portinari, che sui vicini Colli Berici, ad Alonte, produce vini naturali presenti anche nella carta del ristorante.
Ai fratelli, dieci anni fa, si è unito un figlioccio putativo, Matteo Bressan, sommelier che, dopo il triennio presso uno stellato di Arzignano, si è perfezionato con Pierluigi. Insieme a lui amministra una carta leggendaria: sono oltre 2000 le etichette suddivise per formati, bolle francesi e italiane, bianchi e rossi, con un buon terzo di vini naturali, passione della casa da tempi non sospetti, frammisti ai convenzionali e un buon affondo in verticale, soprattutto in materia di piemontesi e toscani. “Abbiamo anche una carta di vini al calice, ma grazie al Coravin siamo in grado di sbicchierare praticamente tutto. Di recente perfino uno Château Margaux e un Coche-Dury. La cucina di Nicola è complessa e composta di tanti ingredienti; mi piace arrivare al tavolo senza uno schema di abbinamento, per confezionare un pairing sartoriale sulle emozioni del cliente”. E dell’abbinamento si tiene conto anche nel momento della messa a punto del piatto che, una volta varcato il passe, viene sottoposto a un assaggio collegiale ed eventualmente limato qua e là, soprattutto negli amari e nelle acidità, per propiziare la luna di miele. Non solo vini, ma anche birre, cocktail, succhi di frutta, acque aromatizzate.
Nell’arco dei suoi primi trent’anni il sentiero della Peca si è fatto sempre più sicuro, rubando tecniche e sapori per dileguarsi nell’agio di una grande maison. Ed è un calco dell’hic et nunc, impresso di territorialità e stagionalità, a cominciare dalle materie prime. “Ci sono persone in zona che per me allevano animali da cortile o coltivano ortaggi, di cui monitoro costantemente la qualità. E la stagionalità riguarda anche le carni: le faraone e i polli in inverno, l’anatra da ottobre a novembre, in primavera i conigli e i cinghialini, incrociati con i maiali”, racconta Nicola. “Le verdure me le recapita fresche ogni mattina un contadino delle colline di Arzignano: broccolo fiolaro, cavolo nero, broccolo romanesco e quant’altro. Le erbe arrivano da dietro il ristorante o da una ditta di Cesena; quelle spontanee da due gemelle abilissime raccoglitrici, che siano germogli primaverili, tarassaco o rosole. Mentre il pesce è chiozzotto, sardo e talvolta genovese: nel primo caso arriva tutti i giorni, altrimenti due o tre volte a settimana. Preferisco conservarlo già pulito sottovuoto, in modo da non doverlo abbattere se non per il crudo”.
E la tradizione veneta è anche il punto di partenza di gran parte delle ricette, vuoi per assecondare la curiosità della clientela straniera, vuoi per la comunanza di codice con i locali. Ma la contemporaneità preme nel meticciato degli abbinamenti e nella centratura del gusto, spesso ottenuta per via tecnologica. Giacché l’acribia è degli autodidatti. “Adesso ci stiamo concentrando sulla fermentazione veloce di ortaggi di stagione, come melanzane e peperoni: utilizziamo l’Ooco per sviluppare l’acidità naturale e concentrare il gusto in 24 ore, senza esagerare. Vi introduco anche foglie e cortecce per estrarre note di sottobosco e di muschio in un piatto chiamato la Terra e suoi frutti, che cambia ogni stagione. Poi c’è il Rotovapor, che serve per concentrare i gusti dei brodi, eliminare l’alcol dai distillati, in modo da isolare i profumi, o le note sgradevoli dai fumetti”.
I menu sono 5: per il lunch c’è Ore 12 con le sue 3 corse a 45 euro; a pranzo e a cena Giorno per giorno, 4 corse a sorpresa a 95 euro; I Freschi d’Estate o Terra e territorio, con 8 corse a 145 euro; Mare, con 9 corse a 160 euro; Impronte, con 13 corse a 200 euro. Più il foie gras, 14 assaggi prenotabili una settimana al mese in stagione. Portate che in alcuni casi sono ripescate dai menu precedenti, magari in versione up-to-date al fine di scongiurare la staticità.
“Perché è il cliente che comanda”.
Dopo gli appetizer (fra cui il nido di patata con cioccolato affumicato e olive disidratate, l’amatriciana di piselli, la polpetta di alghe e aria di umeboshi) e il pane (grissini, cialde di mais effetto crosta di polenta/nachos e pagnotta a lievito madre da farina semintegrale), è già un signature Laguna veneta, paradossale connubio di crudità (tartufi, cappelunghe, telline, piè d’asino, cappe ricce) e tecnologia (il brodo dei gusci, concentrato previa bollitura al Rotovapor). Dove il prezzemolo di rito nella tradizione veneta è rappresentato dal prezzemolo tuberoso in purea, che porta sensazioni gustative e visive terrose; mentre lo iodio è spinto da alghe varie, foglie ostrica e salty finger. Ancora Veneto nell’uovo di asparago, evoluzione del fiore di uovo, altro hit (et nunc) del ristorante. Dove l’albume è un simil-flan di purea di asparago bianco addensato alla chiara, farcito di ragù di maruzzelle con salsa di carote per simulare il tuorlo, asparago verde crudo e sfere di alghe. Nel bicchiere resta il Pietrobianco 2017 di Daniele Portinari, a base di Tai Bianco e Pinot Bianco, che con freschezza e bevibilità sottolinea l’eleganza dei piatti.
Ma Nicola Portinari ama anche sparigliare. Vedi gamberi e faraona, con il petto del volatile in shabu shabu leggero del brodo di teste (la coscia può essere servita come secondo), il gambero al vapore, alghe e verdurine a ripulire per via sapida e amara, la bisque e le sfere di jus per legare. Dolce/umami. Oppure, sempre mare e terra, sempre sotto il segno di liquidità dissetanti (“non amo le salse legate, che in bocca sono più invasive: la concentrazione è sufficiente per la persistenza di brodi dove posso valorizzare gli scarti”), i ravioli di piovra cotta nell’Ocoo, in modo da raccogliere umori leggermente addensati e scartare le fibre, con dadolata di tomatillo per l’acidità e consommé bianco di cervo, speziato al krachai, radice tailandese piccante, sedano e alghe.
E i primi sono sensazionali. Per esempio le tagliatelle Fracasso, in cui trova impiego la sostanza filosofale dei Portinari: i lieviti da sboccatura del metodo classico a base di durello Bellaguardia, spumeggiante quintessenza del territorio. Si presentano inizialmente come una fanghiglia, con la parte tannica cristallizzata e il liquido separato. Lasciati riposare per 15 giorni con l’aggiunta di vino fresco, per sprigionare i sentori di pane appena cotto, possono essere affinati al Pacojet e polverizzati o privati dell’alcol al Rotovapor fino a consistenza cremosa, aiutando a ridurre i grassi in mantecatura. La loro leggera acidità con note di umami va a nozze con gli scampi (crostacei e bollicine), più crema di chipotle dal gusto tabacco, crema di alghe e un ulteriore brodo blando di crostacei a legare.
Tanti ingredienti, ma non sempre. Vedi la dinamica triangolazione dello spaghettone su base aglio e olio con ricci di mare ghiacciati per lo choc gusto-termico, riccioli di foie gras crudo che portano in trionfo il minerale e riduzione di birra Gueuze, dal profumo di sacco di iuta e dalla forte acidità su retrogusto amaro, ristretta a un decimo ed emulsionata con acqua di cottura e olio di vinaccioli. Qui Bressan mesce una Birra Kriek alle ciliegie Hof ten Dormaal, doppio malto prodotta da una farm in Belgio, che aiuta a staccare dalla potenza del piatto grazie all’equilibrio tra dolcezza e acidità. Anche i secondi ingranano la retromarcia verso la riduzione: il black cod marinato in una miscela di 3 aceti giapponesi e spadellato a secco, caramellando i loro zuccheri residui, con piselli di Lumignano al baccello per la freschezza e fragole, in un tripudio stagionale; come la gallinella spadellata e glassata con la concentrazione al Rotovapor del suo guazzetto allo zafferano, spruzzata di coriandoli di sfoglie di riso multigusto (rapa rossa, prezzemolo, topinambur).
Ma è un capolavoro la lepre in salmì, con la polpa marinata a secco e lasciata appesa per 2 giorni in cella, poi rinvenuta in brandy, vino rosso e spezie per 12 minuti, a mimare i gusti di sempre, servita cruda e scaloppata come un salume, con salsa cotta tipo civet di ossa e sangue, scorzonera per la nota terragna di tartufo e sfoglie croccanti di topinambur al barbecue.
La pasticceria è il regno di Pierluigi, autodidatta totale, grande palato prima che uomo di sala e sommelier, che per l’esecuzione si affida a Martina Gaspari. La sua impronta è classica, con ottima centratura e leggerezza, cura del dettaglio e accorgimenti nascosti. Vedi la crostatina al limone, ottenuta non con la classica crema (“non amo il gusto metallico”), ma con una marmellata delle bucce, in cui la polpa è aggiunta alla fine per massimizzare la freschezza, e una crema inglese ottenuta con il latte concentrato al distillatore. Dove la mandorla è presente in diversi stati: nella frolla, nel sorbetto all’estrattore, tostata e salata. Oppure, impalpabili, i bignè a base di farina di riso, quindi anche per celiaci, non farciti, ma lavorati a semisfere ripiene di crema a freddo, serviti con gelato al bergamotto.