Gli specchi, con le loro enormi cornici dorate; gli argenti scintillanti, sparsi in ogni dove; le barocche composizioni di fiori e frutta, alte sino al soffitto; i tappeti, sardanapalescamente srotolati l’uno sull’altro; e poi le pile di libri, le istoriate porcellane, le svettanti candele, i sontuosi broccati… Insomma, tutto quel multiverso di oggetti e colori che ha reso celebre, nei decenni, l’atmosfera del ristorante L’Ambasciata, a Quistello (Mantova), è come sempre lì, lindo e ordinato, pronto a dare il benvenuto agli ospiti, ma più corretto sarebbe dire, ad avvolgerli come in un caldo abbraccio.
Da un anno a questa parte, nelle sue teatrali sale, sono tornati ad affollarsi visi noti di habitué e volti nuovi che per la prima volta si affacciano a questo luogo carico di storia come pochi. Non vuole essere una esagerazione quest’ultima affermazione.
Qua, appena sotto l’argine della Secchia, si sono scritte alcune fra le pagine più belle della ristorazione italiana degli anni Novanta e dei primi Duemila.
Allora erano i fratelli Tamani – Romano in cucina, e Francesco (da tutti chiamato confidenzialmente Carlo) in sala – a officiare un dannunziano rito (perché di rito si trattava) improntato tanto al godimento del palato quanto al coinvolgente piacere di vivere un’esperienza ‘totale’ che, obiettivamente, non aveva eguali in alcun altro locale dello Stivale.
Come è noto, in questi ultimi e difficili anni, alterne vicende hanno costretto i fratelli Tamani ad abbandonare l’Oltrepò mantovano e a trasferirsi altrove.
Ma L’Ambasciata (già, ora si chiama proprio così, con l’articolo) ha trovato in due giovani appassionati – Matteo Ugolotti e Paolo Guaragnella – gli artefici della sua seconda esistenza.
Una coppia ben assortita, Matteo e Paolo. Cuoco il primo. Avvocato il secondo. Uniti dalla passione per la buona cucina, ma soprattutto dall’amore per questo luogo unico, crocevia di vite e palcoscenico privilegiato di scelte di vita.
L’AMBASCIATA SECONDO MATTEO
E, per l’appunto, per Matteo scelta di vita fu, nel 2000, ventitré anni appena compiuti, lasciare la sua Parma e trasferirsi a Quistello: «Fu un momento per me fondamentale arrivare a L’Ambasciata. Cinque anni prima avevo preso un diploma da
geometra. Ma non era la mia strada: il mio sogno era quello di cucinare.
Alla commissione dell’esame di maturità, dopo aver risposto all’interrogazione, spiegai una ricetta: il risotto alle fragole. Mi promossero e col diploma in tasca tornai a casa e dissi ai miei genitori che volevo fare il cuoco.
Iniziai uno stage da Parizzi, ma per mantenermi e non pesare sulla famiglia lavoravo in fabbrica di notte. Poi, per fortuna, mi assunsero. Ogni tanto andavo a mangiare in alcuni ristoranti allora famosi: e fra questi venni anche a L’Ambasciata. Rimasi folgorato dalla bellezza e dall’atmosfera che si respirava in questo luogo: era magia.
Scoccato il nuovo millennio decisi di mandare qui il mio curriculum: lo inviai solo qui, per fax. Dopo un’ora ricevetti una telefonata: era Romano Tamani in persona che mi chiedeva se ero disposto a fare quindici giorni di prova. Ci sono rimasto cinque anni. Cinque anni magnifici».
LA STORIA NEI PIATTI
Di quel periodo, quando sotto l’argine della Secchia si incontravano abitualmente ministri, principi e capitani d’industria, ancora resistono nella carta de L’Ambasciata alcuni piatti storici – gli agnoli in brodo di cappone e coda di bue, le sfrisolade con germano reale e rosmarino, la scaloppa di fegato grasso al Sauternes con frutti di bosco, l’anatra muta croccante allo Sherry, la faraona con arancia, uva, mostarda e melograno… –, piatti che Matteo ha imparato a eseguire dal suo mentore.
«Sono ricette che mi hanno segnato, perché sono creazioni di colui che io considero il mio maestro. Negli anni il mio affetto per Romano è rimasto immutato, così come questi piatti che mi sono sempre portato nel cuore. Sono geniali e generosi al contempo, e rispecchiano in pieno lui, questo luogo e il desiderio ‘di dare’.
Ma, al di là dell’apparenza, non sono semplici da eseguire. La differenza la fa l’attenzione ai dettagli. Ma anche la capacità di ‘saper fare’ con gli ospiti.
Quando Romano mi diceva di guardare, attraverso il vetro della cucina a vista, le persone sedute a tavola, lì per lì non capivo cosa intendesse. Poi ho compreso – e sempre di più negli anni – che mi invitava a cogliere ciò che essi desideravano, a farmi guidare da loro. Mi invitava a fare del mio meglio perché quel pasto che stavano consumando rimanesse ben impresso nella loro memoria.
Ecco, questi piatti così sontuosi, alcuni addirittura di ispirazione rinascimentale, devono appagare. Il cuoco nell’eseguirli non deve pensare a uno sterile esercizio di stile che nasce e muore ai fornelli. Deve invece aver ben chiaro che il piatto uscirà dalla cucina e giungerà a tavola.
Solo in quel momento, solo se farà aprire in un sorriso di soddisfazione il volto dell’ospite, potrà dire di aver fatto un buon lavoro».
LE ATTUALI CONTAMINAZIONI
Come si raggiunge tale obiettivo?
Sì con la tecnica (e tanta), sì con lo studio (ancor di più), sì con la materia prima (eccellente, ma potrebbe essere altrimenti in questo prospero lembo di Lombardia?). Ma soprattutto con il palato.
Ecco ciò che a volte manca nei cuochi, soprattutto in quelli giovani, infarciti di deleteri talent televisivi ma carenti di esperienze gustative. «La mia cucina – dice Matteo – è ‘classica’: non ci sono arzigogoli mentali o ricerche esasperate. C’è però una grandissima attenzione al gusto. Il complimento più bello Romano me lo fece quando mi definì il suo allievo prediletto, perché ero “quello che aveva più palato di tutti”».
E proprio all’insegna del gusto si è evoluta la proposta della nuova Ambasciata, frutto delle successive esperienze di Ugolotti: dodici anni Ai due Platani, la trattoria che ha aperto nel 2005 a Parma, insieme a Gancarlo Tavani, «dove ho applicato tutto ciò che avevo appreso a Quistello, proponendo una cucina di tradizione riattualizzata, a prezzi contenuti».
Eppoi, nel 2017, i tre locali in Danimarca, «dove veniva spessissimo René Redzepi con la famiglia, e dove mi sono cimentato nel creare uno street food padano a base di tortelli e torta fritta», e infine il ristorante a New York.
Sicché, nella proposta quistellese, a territorio e tradizione, debitamente alleggeriti, si affiancano anche azzeccati spunti di contaminazione e di contemporaneità «che discuto col mio socio Paolo Guaragnella: ha un gran palato ed è capace di consigliarmi al meglio su come e dove apportare modifiche e miglioramenti».
È dal loro continuo confronto, per esempio, che hanno recentemente preso forma due percorsi di degustazione innovativi per questo luogo: un menù totalmente votato al pesce e un menù vegetariano.
I piatti che entrambi propongono sono assai interessanti, per due ordini di ragioni. La prima è che, in una cornice neoclassica eretta su abbinamenti consolidati, presentano creazioni di grande soddisfazione gustativa: ne possono essere validi esempi sia lo storione marinato al Whisky torbato con caviale e zucchine al naturale (centrati tanto la sapiente spinta iodata quanto il gioco delle consistenze) sia il cavolfiore bruciato con tartufo e salsa ridotta di scalogno e vino rosso (semplicemente da bis!).
La seconda è che sono ricette modulate da un uso erudito di erbe ed altri elementi vegetali che, oltre a presentarsi in modo assai accattivante sotto il profilo aromatico, lasciano in bocca belle sensazioni balsamiche, non a discapito però di piacevoli rotondità palatali (come, per esempio, nel caso del risotto alla bietola con lumache, caprino e pepe di Timut).
I PIATTI CULT DE L’AMBASCIATA
Ma due piatti su tutti Matteo e Paolo verrebbero a mangiare nel loro ristorante: i tortelli di zucca e il piccione. «I tortelli – dice Ugolotti – li faccio da più di vent’anni.
E posso dire di farli alla mia maniera: cerco di esaltare la zucca, senza declinarla o coprirla, adottando alcuni accorgimenti che ho affinato nel tempo, come lasciare riposare il trito di amaretti per diverse ore prima di utilizzarlo o impiegare il succo della mostarda prima che venga senapata. Il piccione – mi raccomando, di qualità – è invece ‘scomposto’: le cosce farcite e il petto al rosa, il tutto nappato da una avvolgente salsa fatta con la carcassa del volatile, vino rosso e miele di tiglio».
Piatti, anche questi, ‘di cuore’.
Ma qui è tutto così: dal servizio – se ne occupa un attaché diplomatique di lungo corso, Marco Tamassia, anche lui in passato, per tanto tempo, a L’Ambasciata – alla cantina, che piano piano sta crescendo in ricchezza e profondità, e che è affidata alle giovani mani di un appassionato e sorridente sommelier,
Riccardo Somenzi.
Cuori che battono per questo luogo: «Io ci ho vissuto per anni qui dentro – ricorda Ugolotti – e ora che ci sono tornato sento, insieme al mio socio Paolo, l’onore, ma anche la responsabilità, di conservarne lo spirito e di farlo crescere e prosperare nel solco della sua storia».
Una missione. Una sfida. Che i due nuovi ambasciatori hanno già raccolto, decisi a riportare questa gloriosa ‘sede diplomatica’ ai fasti del passato.
[Questo articolo è un estratto del numero di Settembre-Ottobre 2022 de La Madia Travelfood. Leggi gli altri articoli online oppure abbonati alla rivista cartacea!]