Ci vorrà qualche mese prima che la Corte di Giustizia del Lussemburgo emani la sentenza definitiva, ma il destino del Tocai è segnato: lo storico vino delle Tre Venezie scomparirà dal panorama enologico del nostro paese. E se in Veneto hanno già provveduto a ribattezzarlo «Tai» e ad assicurarsi tutte le agevolazioni comunitarie per la sua inevitabile promozione, in Friuli non tutti hanno manifestato la medesima, rassegnata obbedienza. C’è ancora chi resiste, appellandosi a ben documentate fonti di carattere storico e a riferimenti normativi per nulla chiari, quelli, per intendersi, che hanno portato la Comunità Europea a impedire la commercializzazione del Tocai perché a rischio identificazione con il quasi omonimo vino ungherese.
E così se fino ad oggi i viticoltori hanno avuto la possibilità di vendere il loro prodotto con etichetta «Tocai friulano» entro i confini del nostro paese e con etichetta «Friulano» al di fuori di essi, quando dal Lussemburgo giungerà il pronunciamento definitivo non ci saranno più scuse: sarà Friulano per tutti. E i più sono convinti che l’Europa finirà per privilegiare il Tokay ungherese, in quanto appellativo geografico, al Tocai friulano, in quanto appellativo ampelografico. Anche perché ad esprimersi in tal senso è stato, non più tardi dello scorso giugno, l’avvocato generale della Corte di Giustizia, Jacobs: la sua opinione ufficialmente non vincola i giudici, ma è storicamente provato che questi ultimi tengono in massima considerazione i suoi pronunciamenti, tanto che le sentenze raramente vanno nella direzione contraria a quella tracciata dall’avvocato generale. Se non è stata scritta la parola fine ad una controversia durata tre lustri, ci si è comunque avvicinati considerevolmente: siamo ai titoli di coda di una vicenda quasi kafkiana che ha finito per sorridere ai caparbi ungheresi ma soprattutto alle potenti multinazionali del vino che da quelle parti hanno da anni interessi più che consistenti.
Numerose le vittime di guerra
Nel frattempo però si è consumata una guerra intestina che anche di recente ha lasciato sul campo nomi illustri, dal Governatore della regione Friuli Venezia Giulia Riccardo Illy ad alcuni presidenti di Consorzio, avversati dai soci fino alle inevitabili dimissioni. Perché se da un lato molti hanno accettato l’inesorabilità di un provvedimento che parrebbe possedere anche un minimo di fondamento, dall’altro i più testardi si sono ostinati a combattere una battaglia che si profila ormai disperata. Da una parte, dunque, la stragrande maggioranza dei produttori e dei consorzi, favorevoli, o piuttosto rassegnati, all’idea di “ripartire” con il «Friulano», dall’altra i piccoli viticoltori e alcune cooperative, pronti a tutto pur di difendere la tradizione del Tocai. Una guerra che non ha comunque fatto bene né all’enologia friulana né alla stessa causa: i consorzi hanno perso l’antica coesione e si sono trovati tra l’incudine dei legislatori e il martello dei produttori, in particolare quelli di pianura, decisi ad avversare le posizioni oltranziste dei colleghi del Collio che, per una presunta nobiltà produttiva e qualitativa, hanno continuato ad insistere sulla strada del Tocai fino al rinnovo del direttivo e all’insediamento, sulla poltrona di presidente, di Patrizia Felluga. Le cooperative, dal canto loro, hanno addirittura sfidato gli avversari sul fronte legale, arrivando, come nel caso della Cantina di Cormons, a presentare specifici ricorsi ai tribunali europei. «Per noi il pronunciamento di Jacobs non significa nulla – ha puntualizzato Luigi Soini, direttore della Cantina di Cormons e portabandiera degli oltranzisti – Finché non ci sarà un pronunciamento definitivo su tutti i ricorsi che abbiamo appoggiato, noi continueremo a considerare il Tocai appunto Tocai. Per noi le norme sono più che chiare e se qualcuno ha pensato di poterle aggirare impunemente dovrà fare i conti con noi. Perché non esiste che siano state previste 122 deroghe al regolamento e sia stato escluso soltanto il Tocai. Se c’è chi lo produce impunemente a New York o in Argentina o ancora in Australia, non vedo proprio perché sia impedito di farlo a noi, che storicamente ne abbiamo tutti i diritti». Di ricorso in ricorso, però, come ha lamentato Sergio Bortolusso, presidente del Consorzio Friuli Annia, «si è perso più di un treno, primo fra tutti quello delle sovvenzioni comunitarie per una campagna di rilancio del prodotto. E poi non nascondiamoci dietro un dito: questo cancan alla fine è stato tutto pubblicità gratuita per noi. Finalmente si sono accesi i riflettori su un vino importantissimo per la nostra tradizione ma poco conosciuto al di fuori dei confini regionali. Tant’è che i benefici effetti si sono già fatti sentire sul fatturato di molte nostre aziende. Infine non esasperiamo i toni: giova ricordare infatti che la proposta di mutare denominazione al Tocai era già stata avanzata da alcuni illuminati produttori ancora sei anni fa. Già a quei tempi si sentiva l’esigenza di farlo uscire dai ristretti confini friulani e il cambio di nome sembrava fin da allora lo strumento più adatto. Poi non se ne fece più nulla, ma se la Corte di Giustizia europea dovesse imporcelo, come ormai pare certo, non credo che sarà un grave danno. Anzi».
La faccenda è complessa, insomma, e affonda le sue radici in un lontano passato, sul quale non si sono ancora sopite le polemiche. Era il 1993 quando la Comunità Europea e l’Ungheria stipularono un accordo sulla tutela e sul controllo delle denominazioni dei vini, convenendo che in caso di omonimie la tutela sarebbe stata accordata a tutti gli interessati purché a certe condizioni: all’epoca non si menzionarono i vini Tocai veneti e friulani, con la conseguenza che tale denominazione sarebbe dovuta scomparire nel giro di 13 anni. Nonostante nel 1962 la Corte di Cassazione italiana, facendo così giurisprudenza, avesse riconosciuto ad una azienda di Aquileia il diritto di fregiare il suo vino con quel nome nonostante l’opposizione della società ungherese per il commercio estero. Eppure non servì a nulla: l’Italia nel ‘92 non presentò ricorso entro i 60 giorni di prammatica, condannando così a morte il Tocai. Nel luglio 2007 il ministro De Castro non poté fare altro che imporre la soppressione della denominazione, costringendo alcuni battaglieri produttori ad un ricorso al Tar e la Regione a legiferare in modo da permettere ai vignaioli di chiamare il loro vino Tocai in Italia e Friulano all’estero. Un caos al quale ha alla fine dato ordine la Corte di Giustizia del Lussemburgo, che fra qualche mese darà agli ungheresi ciò che è degli ungheresi, togliendo ai friulani ciò che è stato dei friulani.
A CHI GIOVA LA CONFUSIONE
Una tempesta in un bicchiere d’acqua, secondo alcuni: confondere un Tokay Hegyalia con un Tocai Friulano è praticamente impossibile, visto che si tratta di vini completamente differenti non solo nel “littering” ma anche nella loro natura, dolce il primo, secco il secondo. Eppure è capitato a Pierluigi Comelli, presidente del Consorzio Colli Orientali, di sentire un degustatore di Dublino rifiutare l’assaggio di un Tocai dopo un Pinot Grigio perché un vino secco e un vino dolce, a suo dire, non potevano essere sorseggiati uno dopo l’altro. «Che regni una certa confusione – ha ammesso – è indubbio. Certo, ora la situazione è più chiara, anche se i produttori del Collio hanno avversato a lungo la soluzione più conveniente perché dovevano rimanere ad ammirarsi l’ombelico. I finanziamenti europei per ovviare a tutti gli inconvenienti ci sarebbero stati messi a disposizione, ma li abbiamo persi a causa del nostro comportamento e di quello delle istituzioni regionali, che hanno sempre remato contro. Ora che però Illy e la sua giunta sono andati a casa, qualche speranza in più c’è: sui produttori si è disputata una contesa elettorale che ha creato solo danni. Per fortuna che non tutti i mali sono venuti per nuocere: questa disfida ha creato una nuova, inattesa attenzione sul Tocai e ha permesso fatturati mai visti. Ora non resta che concentrarsi sul futuro: in Italia spira un venticello di crisi che suggerisce una forte promozione all’estero. Certo, una denominazione diversa da “Friulano” sarebbe stata auspicabile, ma non dimentichiamoci che la maggior parte dei consumatori fa già fatica a collocare geograficamente il Friuli».
Una posizione condivisa ormai dai più, compreso quel Marco Felluga che per anni ha retto le sorti del Consorzio del Collio: «Non posso nascondere – ha detto – che anch’io, da produttore, ero assai più legato al nome Tocai. Che ci sia stata leggerezza da parte delle istituzioni è innegabile, come innegabile è che in Friuli ci si sia divisi anche troppo a lungo, sfiorando spesso il ridicolo: tuttavia oggi come oggi dobbiamo rassegnarci all’idea che il nostro vino, quello dei nostri nonni, è diventato “Friulano” e su quello dobbiamo puntare. I grandi produttori, a dire il vero, lo hanno fatto fin da subito, i piccoli qualche resistenza ce l’hanno ancora. Ma la Corte di Giustizia Europea ha messo la pietra tombale su questa faccenda, imponendoci ciò su cui non abbiamo saputo trovare un facile accordo». «Un’inutile perdita di tempo e di energie – secondo Adriano Gigante, uomo di peso della Federdoc friulana – anche perché da anni la stragrande maggioranza dei produttori era concorde sulla sostituzione della denominazione: poi qualcuno ha messo di mezzo gli avvocati ed è andata com’è andata. Paradossale è però che a difendere il Tocai, a chiacchiere, siano rimasti coloro che, nei fatti, ne hanno spiantato ettari ed ettari a favore di uve più remunerative…».
Che sul Tocai, o Friulano che dir si voglia, non ci sia stata una politica specifica e condivisa, al di là delle beghe legali e giuridiche, lo dimostrano infatti i comportamenti degli stessi produttori, che per anni hanno svilito il loro vino salvo poi recuperarlo e riconoscerlo come un grande bianco da bottiglia.
Non è un caso che nelle ultime stagioni i reimpianti di Pinot Grigio siano stati considerevolmente più elevati rispetto a quelli di Tocai: la percentuale è di uno a due quasi ovunque, con punte assai eloquenti nel Grave, dove ai 386 ettari vitati a Tocai fanno da contraltare gli oltre 1400 di Pinot, nonostante parecchio Tocai non sia stato iscritto all’Albo camerale dei vigneti. Ora che la Corte europea si è pronunciata quasi definitivamente, è auspicabile che i produttori abbandonino le aule dei tribunali o gli studi degli avvocati e tornino in campagna ed in cantina, perché il loro Tocai, pardon Friulano, ne ha davvero bisogno.
ORIGINI DI UNA DISPUTA
Il Tocai? Ungherese al 100%, secondo gli enologi magiari, che citano a testimonianza delle loro convinzioni il nome della omonima regione nel nordest del loro paese, Tokaj Hegyalja. E un toponimo ha la forza che un omonimo vitigno non può obiettivamente avere. Se però la regione più vitivinicola dell’Ungheria porta quel nome, controbattono gli esperti del nostro paese, lo deve al fatto che nel XII secolo alcuni missionari italiani chiamati a corte dal re Stefano portarono con loro alcuni esemplari della vite già allora chiamata Tocai. Il vino prodotto piacque molto, tanto che nel secolo successivo il re Bela IV importò massicce quantità di viti dal Friuli. Leggende? Può darsi, suffragate però da una testimonianza storica risalente al XVII secolo: un documento ufficiale certifica infatti che fra i beni che la nobildonna goriziana Aurora Formentini, promessa sposa al conte ungherese Adam Batthyàny, portò con sé si trovavano anche “300 vitti di toccai”, evidentemente considerate un vero e proprio tesoro. Serve poi evidenziare la somiglianza fra il cognome Formentini e il vitigno Furmint, che concorre all’85% a formare l’uvaggio che dà vita al Tokay ungherese? Non bastasse, si potrebbe persino scendere nel campo della toponimia, segnalando la presenza, in due comuni censuari della Contea di Gorizia, del termine “Toccai”, usato peraltro comunemente nelle epoche successive ad indicare un fiume, un borgo e una collina nei pressi della zona viticola del Collio. Ciononostante a Budapest continuano pervicacemente a rimanere convinti del contrario. Ciò che è peggio, però, è che sulle medesime posizioni si è collocata anche la Corte di Giustizia Europea.
LA SPINA DEI FINANZIAMENTI
Uno degli argomenti più convincenti utilizzati negli ultimi anni dai fautori del cambio di denominazione è stato quello dei contributi pubblici. Contributi legati a doppio filo alla necessità di riorganizzare la commercializzazione del medesimo prodotto sotto nuove spoglie. Contributi che però durante i 15 anni di cause e controcause che si sono rese necessarie per addivenire ad una conclusione si sono smarriti per strada. «Il ministro delle Politiche Agricole Luca Zaia – ha ricordato Elsa Bigai, direttore della Coldiretti friulana – ha riconfermato la disponibilità dei fondi promessi da Alemanno prima e da De Castro poi. Perché è necessario, oggi più che mai, approntare un programma di comunicazione per il nuovo nome. Solo che adesso – ha aggiunto con una punta di giustificata preoccupazione – oltre al Friulano si parla anche di Tai e forse di Lison, con il rischio che, se non si aggiungono risorse, la stessa torta verrà divisa fra tre denominazioni e due regioni». Anni di carte da bollo hanno finora prodotto l’unica conseguenza della scomparsa dei contributi: riusciranno il Ministero e la Regione a recuperare il bandolo di questa intricatissima matassa?