Per produrre il vino servono capacità e orgoglio
E’ inutile negarlo: per il vino, questo, non è un buon momento. Ma chi pensa che il motivo della contrazione dei suoi consumi sia da imputare alla crisi che ci sta alterando le funzioni vitali e le fasi del sonno, si sbaglia di grosso. Si può tuttalpiù, e a ragione, affermare che questa crisi sia arrivata al momento giusto per annacquare definitivamente sia le scelte spesso sbagliate dei produttori che le aspettative ancor più spesso fibrillanti dei consumatori.
Addirittura si è sviluppata, nel periodo, la tendenza ad attribuire alla crisi dell’economia le responsabilità aziendali e politiche che hanno invece ben altre genesi e chiavi di lettura. E’ molto comodo, per il settore produttivo, consolarsi con l’ipotesi della mancanza di responsabilità. “Che ci posso fare io se la crisi sta rovinando i mercati? La colpa non è mia, e dell’economia mondiale che è saltata per aria!”
Invece, questo è certo, la strada che ci ha portati alla situazione del presente è lunga e tutta lastricata di incongruenze programmatiche, filosofiche e strutturali.
Quali sono stati gli errori più grossi commessi dal comparto? Sono facilmente individuabili e riconducibili soprattutto ad una serie di mancanze che lo hanno minato nell’intimo: mancanza di imprenditorialità, di chiarezza e di orgoglio.
Imprenditorialità e improvvisazione
Consideriamo i temi che sta dibattendo, al suo interno, l’Unione Italiana Vini. Il 17 giugno il presidente dell’UIV Andrea Sartori affida ad un comunicato stampa l’esigenza, per le aziende, di introdurre nuove strategie di marketing migliorando il rapporto tra qualità e prezzo, privilegiando ed incentivando comunque il proprio settore commerciale.
“Uno dei pochi punti positivi della crisi – dice Sartori a Roma in occasione dell’assemblea generale dell’UIV – sta nell’opportunità che le aziende destinino investimenti mirati al loro comparto commerciale, allo scopo di migliorare le professionalità presenti in azienda.
è oggi il momento di investire fortemente in riqualificazione, anche manageriale e imprenditoriale.”
Questo concetto i lettori della Madia lo hanno già incontrato nelle parole di Fabio Piccoli (La buona notizia è che la crisi c’è!), ma non è assolutamente detto che gli addetti ai lavori riescano a metabolizzarlo in tempi utili.
Personalmente continuo a sentire affermazioni sul tipo “Io mi salvo con l’esportazione” oppure “meno male che c’è lo sfuso e la vendita diretta in azienda” o anche “Le annate migliori vanno via subito e bene, per le altre confido nella clientela ormai consolidata”.
E allora si innescano le dinamiche rocambolesche dei prezzi, della scontistica, delle opportunità più improbabili e alla fine deprimenti sia per il prodotto che per l’azienda.
L’imprenditorialità non ancora maturata dalle aziende è sostituita da quella ben più motivata e redditizia della delinquenza. Nonostante il lavoro continuo degli organi di controllo, le contraffazioni e le truffe nel comparto non si fermano, anzi tendono ad aumentare. Ad onta dell’entusiasmo dimostrato da un ministro decisionista ed ubiquitario il malaffare, nel vino, prospera più che mai. Un fenomeno nuovo? Basterebbe rileggersi i giornali degli anni Ottanta o i resoconti dei processi per sofisticazione per comprendere quanto il fenomeno sia radicato. Il professor Mario Fregoni, già ben insediato nel suo regno all’Università Cattolica di Piacenza, scrisse nell’86 un articolo su VigneVini (La punta dell’iceberg) nel quale spiegava come anche la vicenda del metanolo non fosse altro che la molecola impazzita di una truffa colossale ai danni dello Stato: 35 milioni di ettolitri di vino metanolizzato tra l’indifferenza dell’AIMA e le opportunità della distillazione obbligatoria.
La chiarezza
latitante
Non è chiaro neanche per gli addetti all’informazione dell’agroalimentare casa il vino sia diventato oggi. Un complemento della tavola, un genere di lusso, un prodotto popolare, un sintomo di cultura individuale, un’espressione del territorio di produzione, un consumo della tradizione, un traguardo innovativo? Forse sì, forse no: dipende dalle dimensioni aziendali e dal blasone del produttore. Viviamo in un Paese a forte vocazione artistica: siamo tutti stilisti e art design! Come se nel settore dell’auto ci fossero centinaia di Pininfarina o in quello della moda ci fosse posto per migliaia di Valentino. Nel vino ognuno ha le sue pervicacità e le sue motivazioni personali per arrivare ad obiettivi aziendali stravaganti. Industriali, cantanti, attori, politici e fancazzisti trovano la loro dimensione migliore tra i filari di una vigna da riscoprire o da vivere cambiando ritmi ed abitudini della loro vita altrimenti frenetica. Disciplinari di produzione acrobatici quanto incomprensibili fanno il resto. La riforma dell’OCM Vino alle porte complica ancor di più la situazione. Non è facile trattare di un prodotto così mimetizzato, diversamente interpretabile, facilmente travisabile e suscettibile alle mode di consumo. Per non parlare delle modalità di produzione e dell’interpretazione del gusto. Vini internazionali, tipici, riconoscibili, facili o difficili, da monovitigno, da vitigno autoctono, con l’annata in etichetta oppure no, da viticoltura eroica, franchi di piede, riscoperti, rivisitati, rivalutati, abbandonati in parte. Vini che fanno legno, botte piccola o grande, che contengono fosfati, che si vergognano della gomma arabica, che sfiorano i trucioli, che conoscono soltanto acciaio, che riposano sui lieviti, che prendono il nome da episodi della storia a dalla primogenita del produttore.
L’orgoglio perduto
Il 23 giugno del 1993 Il Giornale di Montanelli se ne uscì bel bello con un titolo a sei colonne che recitava “Quando a uccidere è il vino”. Il 10 settembre di quell’anno, dopo le vacanze estive che erano a quel tempo ancora una cosa seria, l’Unione Italiana Vini presieduta allora dal cavalier Gianni Zonin decise di ricorre per via giudiziaria verso quell’articolo e querelò il direttore Montanelli chiedendogli tre miliardi di lire, da destinare alla ricerca medica, a motivo di risarcimento. Montanelli fu accusato di avere diffamato il vino. Proprio così!
Dato che ai giorni nostri (sono passati solo16 anni) è assai difficile concepire che si possa diffamare un prodotto così vituperevole quale il vino è nel frattempo diventato, è bene aggiungere un ritaglio del Corriere Vinicolo del 20 settembre 1993 che riporta la notizia. La cosa non finì lì e generò anzi un confronto a cui, oltre allo stesso Montanelli, stimolato da Alfredo Ferruzza partecipò anche Giorgio Bocca. Ma come era nata la questione? Il fatto è che in quegli anni gli adolescenti morivano troppo spesso con un ago infilato nelle vene e anche l’articolo de Il Giornale si riferiva al problema dell’alcolismo e, nonostante il titolo infelice, trattava pressochè interamente di liquori: si parlava ancora, negli anni Novanta, di problematiche sociali.
Ai giorni nostri delle regole e dei problemi della socialità non importa più niente a nessuno. Adesso si parla unicamente di sicurezza e l’uscire vivi e vincenti dalla vita è diventato l’unico argomento di sicura presa sull’ex lettore, diventato nel frattempo telespettatore.
Nel 1998 ci fu una proposta di legge che chiedeva di inserire nelle etichette delle bottiglie di vino frasi sul tipo di quelle che troviamo oggi sui pacchetti di sigarette. Cose sul tipo: questo è vino buono e di qualità che però può nuocere gravemente alla tua salute: non cascarci, non bertela tutta, lasciane un po’ anche agli altri.
La cosa non passò perchè il mitico ministro Sirchia era ancora di là da venire, ma il problema fu solo rimandato. E si ripropose negli anni seguenti nel peggiore dei modi.
Sempre ignorando le differenze sostanziali che separano il vino dagli intrugli alcolici destinati prevalentemente ai giovani consumatori, l’Italia cominciò a dispiacersi del fatto che i suoi cittadini più giovani si schiantassero di notte tornando a casa dopo gli adolescenziali bagordi. Sacrosanto.
Ma nessuno, dico nessuno, fu in grado di proporre qualcosa di intelligente in proposito. Finchè non si pensò di tirare in ballo il giochino preferito di noi tutti: l’automobile stessa. Ora, anche bevendo, possiamo fare della nostra vita ciò che più ci piace. Se ci sono tragedie nelle famiglie, se i cervelli si bruciano, poco importa. L’importante è che non guidiamo.
Così l’orgoglio del produttore di vino, o almeno quel che ne rimaneva, è andato a farsi benedire. L’orgoglio di fare un buon vino, di goderne e trarne un utile, è diventata cosa da dissimulare dietro sorrisini di circostanza. Perfino l’etichetta più diffusa in Italia, tra le prime al mondo per produzione e distribuzione, che basa il suo stratosferico fatturato proprio sui suoi immensi volumi, sente il bisogno di accompagnare la sua comunicazione con la frase “Bevi buono… Ma poco”. E siamo all’ipocrisia indispensabile.
Morale.
C’è quasi sempre
una morale…
Sulla mia tavola c’è sempre una bottiglia di vino. Come c’è il pane e tutto il resto. Ma se dovessi comprare il vino perchè facesse parte del mio lavoro farlo, magari perchè avessi un negozio o un ristorante, tre sono le cose di cui vorrei che fosse dotato il mio fornitore: vorrei che fosse un imprenditore serio, capace di illustrarmi chiaramente i suoi prodotti e che possedesse l’orgoglio proprio di chi sa fare al meglio il suo lavoro. Non è chiedere molto, ma di questi tempi è già una cosa rara.